Interview at Agostino, the English assistant in our school

In the last months in our school there was an English assistant: Agostino. After the idea of Ms Rappo we decided to interview him.

Pietro Grosselle: Hello Agostino, make a short presentation of yourself.

Agostino Pizzolato: Hello Pietro. My name is Agostino, I’m from Vancouver, in Canada. I’m an university student there: I study History as main subject, but I also study Italian. I’m probably going to do other two years or more.

P: What will you bring back home from this experience?

A: Probably I’ll bring home a sense that I’m doing what I’d like to do. This has been a chance to try out on teaching, try out being in a classroom and I’ve enjoyed it quite a lot. It’s also been a chance for me to see more history. In Canada we don’t have the kind of history that you have here.

P: What are you hoping to leave us?

A: What I hope to leave behind is basically a friendly face. The most wonderful thing for me of being here has been getting to know people in Este and at school and getting to know my host family. So what I hope to leave behind is the relationships that I was been able to form, the friendships that I made here.

P: Did you feel welcomed in Italy?

A: At first no, it took me a little while to get used to be in a classroom, also because it was my first time teaching, but after a couple of lessons I did feel at home, and also enjoy being in class, teaching and working with the students.

P: How were the relationship with all the people in your period here in Italy?

A: I think the relationships have been very good. The students have been very friendly and it seems like everybody knows who I am. Everybody in the time have been very friendly, generous and welcoming.

P: Are there important differences between the Italian and the Canadian school systems?

A: The most obvious is that in Canada we don’t specialize at this age and level school, we begin to specialize into certain programme when we get university usually. But also in Canadian’s high schools we change classrooms all the time, we don’t have a set class and a set group of students that we belong to in the same way as you do here.

P: It was more difficult learning Italian or teaching at people that you don’t know?

A: It depends, some classes were a lot of fun but some of them were more difficult, sometimes the students weren’t really talkative. But I think that learning Italian has been much harder.

P: Would you like to come back in Italy other times? And if yes, what do you want to do in this future experience that you haven’t had the chance to accomplish until now?

A: I do hope to come back to Italy after I finish my university degree and what I hope to do is possibly to study in university here, to do some more advances to studies in History but I would also love to come here to learn Italian better.

P: How do you think yourself in five years?

A: In five years I would like to be working towards becoming a professor.

P: You participated in some events like festival of languages. What do you think about this kind of event here in our school?

A: I think it was wonderful, I was very impressed by the students. Especially by how much you guys know about the languages that you are studying, about the books that you’re studying. It was fun.

P: What do you miss more of Canada?

A: I definitely miss the mountains and the forests, I spent so much time talking to different classes about how we like to hike in Canada and camp in Canada.

P: And you finished in a land with fog.

A: Yes, exactly. I can’t wait to go home and climb a mountain.

P: The most important question now. What is your favourite Italian food?

A: I said this to a couple of classes. My favourite Italian food is “Cotechino and Polenta”.

P: Ok, really good. Do you want to say us something else?

A: Yeah, I would like to thank everybody at the school honestly from my heart, for welcoming me into your classrooms, into the school itself. It has been a wonderful experience. And it has been a pleasure to get to know everybody, to see you in the hall, to see you walking around the streets in Este, it has been a pleasure for me to be a part of this experience.

P: Thank you really so much for this interview and for whatever you did in this school and for this school in this period here.

A big “Thank you” is for Agostino that decided to do this interview, but also a lot of thanks to Ms Rappo for the idea and an enormous “thank you” for Ms Govorcin that prepared the questions.

Here the photo of the official greeting:

Pietro Grosselle 4BSA

Triummulierato fashion

In questo mio articolo voglio estrarre dal cappello del mago una triade di mostri sacri della moda, per me
centrali ed eccezionali. Queste icone, a differenza delle molte celebrità che ci intasano il feed, non vestono
le idee degli stylist, non vengono “indossate” dagli abiti e non rappresentano mezzi pubblicitari. Incarnano,
invece, lo stile e sono impenitenti, colpevoli di essere deliziosamente contro corrente, forti della
consapevolezza, maturata con l’età, della loro immagine. 
Si apra il sipario: ecco a voi Cecilia Matteucci, Michèle Lamy e Anna Piaggi.


Cecilia Matteucci, celebrity bolognese atipica, come la definisce Vogue, è una collezionista di origine
toscana, oserei dire ossessiva, di alta moda (tanto che in un’intervista disse di avere, in uno dei suoi
appartamenti- wunderkammer, abiti appesi persino in bagno, con borse nella vasca da bagno), gioielleria ed
arte, oltre ad essere una melomane.
Il suo stile inconfondibile rende lei stessa un pezzo d’arte: non esce di casa senza un pezzo Chanel,
cascate di gioielli e un make-up de résistance che mi ricorda paradossalmente quello di Divine in Pink
Flamingos. 

Selfie della divina tratto dal suo Instagram

Oltre ad essere infinta fonte d’ispirazione per i suoi fans, compreso Alessandro Michele, è una grande
esperta del settore, constatazione pleonastica deducibile dai suoi oculati abbinamenti, una che parla sempre di
ciò che ama, la moda. A dirvelo è qualcuno che ha avuto la fortuna di conversarci dal vivo; le sue parole: “Viva
Edoardo!” *alzata di calice di champagne. 

Scatto per Vogue Italia, agosto 2022


Michèle Lamy è ad oggi conosciuta come il manifesto estetico di Rick Owens, designer americano
avanguardista. Il loro rapporto nacque quando le venne fatto il suo nome a proposito di una posizione per il
proprio brand di sportswear maschile Lamy. Il resto è storia: diventò sua moglie e esplorò il suo stile fino
all’attuale stato sublimato. La Lamy fonde con il suo corpo abiti scultorei dalle tinte gotiche, gioielli materici, tatuaggi e simboli tribali, frutto di una vita di studi e viaggi. È punto di riferimento per molte entità
influenti dei nostri giorni, ma non è mainstream. Non sarà difficile vederla divertirsi in club tecno,
presenziare alle sfilate di Yeezy o visitare gallerie. 
È puro fascino brutalista e metafisico. 

Street style di Michèle Lamy, alla Paris Fashion Week


A chiedere questo mio triumvirato è Anna Piaggi, giornalista più volte menzionata nei miei articoli. Giocava
con parole e grafica, facendone derivare articoli  (D.P. Doppie Pagine di Anna Piaggi) che erano suo perfetto
riflesso. Parlando del suo lavoro disse: “Non ho mai ragionato sulle cifre, né sul successo”. 
A sue parole si travestiva, si vestiva eccentricamente, e questo fu celebrato nella mostra Fashion-ology del
2011 al Victoria&Albert Museum di Londra, interamente a lei dedicata. Bagaglio di cultura mascherato da
apparente levità, questo era Anna Piaggi. 
Tratti identificativi: ciuffo blu, cappello, bastone e policromia estrema.
“Inventare è il mio modo di essere”. E per descrivere il suo stile credo non siano stati inventati ancora
vocaboli adatti. 

Settembre 2007, al party di Pinko a Londra

This is my Roman Empire!

Tale e quale la stirpe delle foglie è la stirpe degli uomini

Martedì 9 aprile si è tenuto il secondo incontro culturale, organizzato da noi redattori di RompiPagina, al Gabinetto di Lettura di Este.

È stato un incontro particolarmente partecipato, infatti è iniziato con una raccolta di opinioni e aspettative del pubblico.

La prof.ssa Dal Prà, il prof. Andretta e il prof. Centanini hanno presentato al pubblico il tema della morte; un argomento che da sempre incuriosisce e fa riflettere noi esseri umani sin dall’antichità.

La professoressa Dal Prà ha presentato varie opere dedicate alla morte, dai monumenti funebri come Dolmen e Piramidi, alle opere di Andy Warhol. Evidenziando in particolare come la morte sia “un fatto doloroso della vita, ma specialmente per chi resta”.

Ha proseguito il professor Andretta, partendo proprio dalle riflessioni espresse nella prima parte dell’incontro dal pubblico ha evidenziato come la morte non sia l’ultima parola, ma anzi il legame che non svanisce con le persone care e ci aiuta ad andare oltre, perché “quello che rimarrà della nostra esistenza sarà l’amore che saremo riusciti a costruire”.

Infine il professor Centanini ha offerto una visione filosofica dell’argomento, citando in primis Platone, ma poi anche Omero e il più recente Nietzsche, evidenziando in modo particolare che l’uomo è come una foglia al vento: effimera e passeggera, con un futuro incerto. Ha  dato poi vari spunti di riflessione, ad esempio che “se io penso alla mia condizione di mortalità, allora posso ripensare alla mia vita e operare in essa per costruirci un significato”; o in un’ottica platonica che “stare sul confine permette di assumere una prospettiva dell’universale, di uscire da me stesso per riguardare a me da un punto di vista più generale, così mi guardo pensando alla morte nel mio essere vivo”.

L’incontro si è concluso poi con le domande del pubblico, momento in cui si è acceso un dibattito molto forte e intenso sulla tematica trattata e in particolare sul dare un significato alla vita in funzione del fatto che finirà.

Ringraziamo caldamente il Gabinetto di Lettura di Este per averci permesso di organizzare questi incontri culturali.

Infine, invitiamo caldamente voi lettori a partecipare al prossimo e ultimo incontro che riteniamo essere molto educativo e formativo, indirizzato a persone di tutte le età e non solo a noi studenti.

Vi lasciamo di seguito il video registrato durante la serata e la presentazione in formato pdf dei relatori dell’incontro

Registrazione della serata: https://drive.google.com/file/d/1THdgTCKPrcnYekDEPJN3bgtfA8KzfBAH/view?usp=sharing

Presentazione Arte: https://drive.google.com/file/d/1tevo6W3C-kfmZqXDtboUA5bv927y751q/view?usp=sharing

Year abroad – A video interview with 3 students

12 gennaio 2024. Un venerdì normalissimo in bar al Ferrari. Alle 13 si trova per la prima volta un gruppo di lavoro su un progetto di RompiPagina. Questo gruppo composto da Edoardo Cogo (5AC), Francesca Vitacca (5AL), Giulia Bellucco (5BL) inizia a confrontarsi sull’idea di realizzare un’intervista sull’esperienza dell’anno all’estero, con l’aiuto di Pietro Grosselle (4BSA) sulla base delle idee della professoressa Govorcin. 

Da questa riunione di 3 mesi fa è iniziato un lavoro che ha coinvolto in primis Edoardo, Francesca e Giulia, ma anche Matilde Martinelli (5AC) che ha svolto l’intervista effettiva, la professoressa Govorcin che ha preparato le domande ed è stata la prima persona ad aver pensato a questa iniziativa e, più di tutti, il professor Ruzzenenti che ha realizzato l’intervista ed ha poi montato il video che trovate in fondo a quest’articolo e che ringraziamo dal profondo del nostro cuore. Questo lavoro si conclude oggi, dopo 3 mesi di lavoro, 3 mesi in cui solo in pochissimi sapevano di questo progetto, 3 mesi intensi. E ora lo lasciamo a voi, sperando possa aiutarvi qualora steste considerando la possibilità di passare un periodo di tempo all’estero, e sperando possa arricchirvi come persone, buona visione!

Di seguito la risposta alla domanda fatta da poco agli studenti coinvolti: “Descrivete in 3 parole quest’esperienza”

Edoardo: “Stimolante, avventurosa, arricchente”

Francesca: “Divertente, illuminante, completa”

Giulia: “Collaborazione, trasmettere l’esperienza, ricordi indimenticabili”

Matilde: “Divertente, challenging, stimolante”

I direttori di RompiPagina 

Grosselle Pietro (4BSA), Marchetto Sara (4CA) e Martinelli Matilde (5AC)

Qui sotto potete trovare l’intervista

https://drive.google.com/file/d/1FQU-NO9iTCxNmqaCNc0JyEUcsCRKGQiF/view?usp=sharing

Is Ugly Still Chic?

Non solo le cose “belle” ci attraggono, che sia in amore o nella moda. Il “brutto”, sempre se così si può definire, ha un fascino intrinseco, ha qualità inspiegabilmente percepibili che però sfuggono alla comprensione piena del fenomeno.
L’introduzione del “brutto” nell’arte nasce come provocazione intellettuale contro una patinata noia borghese, come scrive Francesca Milano Ferri per Harper’s Bazaar, e anche più tardi e in ambiti diversi, non è venuto a mancare l’aspetto provocatorio e sovversivo. Un esempio di evento rivoluzionario per la moda fu senza dubbio la SS1996 “mix di colori solforosi” (def. di Anna Piaggi) di Miuccia Prada, collezione aspramente criticata proprio per non aver rispecchiato l’idea di bello e di conforme, che aprì le porte al famosissimo “pretty-ugly”; è sempre Miuccia Prada a dire: “Il brutto è attraente, il brutto è eccitante. Forse perché è più nuovo”.

Prada Spring 1996

Prada Fall 1996


Dello stesso parere è anche l’ex direttore creativo di Gucci, Alessandro Michele, il quale, in un’intervista riguardo alla sua collezione “Make The Strange Beautiful” disse: “Più strano sei, più bello sei. A me piacciono i difetti, non c’è niente da fare”.

Gucci Spring 2022 “Love Parade”


Però alla stranezza e alla singolarità, per non parlare direttamente di “bruttezza”, sono stati imposti dei limiti: l’ugly chic di Prada ha avuto un’ascesa e un declino, e l’impero dorato Gucci di Michele è deceduto da ormai un’anno. Ciò che sfila oggi è ricercata e ostentata semplicità, quasi una camicia di forza alle nostre passioni, alle nostre spinte.

Non sentiamoci mai in dovere di conformarci, di diventare lo standard. Rendiamo felici noi stessi, e aggiungiamo quella spilla o quel colore dissonante che ci faranno uscire di casa con un sorriso. Rendiamo il nostro armadio Immature Couture.

-Edoardo Benedusi 5AC

Idrogeno e biocarburanti, le opzioni alternative al fossile e all’elettrico

Dal 2035 in Europa non potranno essere più acquistate o vendute auto alimentate a combustibili fossili o con motore endotermico, rendendo così possibile solo l’acquisto di auto elettriche (tranne in Francia), ma ci sono altre soluzioni ecosostenibili e con un minore impatto ambientale?

Ad oggi ci sono diverse soluzioni con un impatto ridotto sull’ambiente, come i biocarburanti e l’idrogeno e in questo articolo li analizzeremo, capendo anche perché l’Unione Europea ha deciso di accantonarli.

Biocarburanti

I biocarburanti non sono una novità recente, infatti già Henry Ford presentò la Model T dotata di un motore alimentato a etanolo, che fu poi cambiato con un motore a benzina da 20 hp per motivi di praticità e anche perché l’etanolo non era prodotto come carburante. Per parecchi anni i progetti relativi ai biocarburanti vennero “dimenticati” per via dell’ampio utilizzo dei combustibili fossili, fino alla crisi petrolifera degli anni ‘70 quando in brasile si iniziò ad usare il bioetanolo per alimentare le auto.

I biocarburanti, come si può intuire dal nome stesso, sono quella categoria di carburanti (più precisamente idrocarburi) prodotti da materia organica, come quindi dalla fermentazione delle biomasse, e per questo teoricamente inesauribili.

Oltre alla loro rinnovabilità i biocarburanti possono ridurre del 88% le emissioni di CO2, per questo motivo sono già presenti nelle stazioni di servizio nella benzina E5 (con una percentuale di bioetanolo pari al 5%) e in quella E10 (la percentuale di bioetanolo arriva al 10%). Eni ha poi sviluppato HVO, il biodiesel prodotto da oli vegetali idrotrattati di scarto, utilizzabile però solo nelle auto con motori Euro 6 e successivi perché più corrosivo del diesel tradizionale.

Biocarburanti alla stazione di servizio

La problematica maggiore dei biocarburanti è che non c’è abbastanza biomassa per la loro produzione rispetto alla richiesta fatta dal mercato se si passasse solamente al loro utilizzo. Inoltre per la loro produzione è necessario sottrarre terre coltivabili all’agricoltura.

L’Unione Europea ha deciso di non considerarli come una soluzione per diminuire l’impatto ambientale europeo perché la loro combustione produce alti livelli di ossidi di azoto, di particolato atmosferico e ozono che possono influire sulla salute.

Idrogeno

Idrogeno

L’idrogeno è l’elemento chimico più semplice e rappresenta circa il 70% della materia dell’universo. Nonostante ciò non è così abbondante sulla Terra e per questo è necessaria l’estrazione da altre molecole, come dall’acqua o dagli idrocarburi, che avviene attraverso un processo che rompe i legami che tengono gli atomi di un composto uniti. Per produrre l’idrogeno vengono utilizzati diversi metodi, tra i più comuni troviamo il reforming del metano, la gassificazione del carbone e l’idrolisi. I primi due sono i più comuni, infatti circa il 97% dell’idrogeno prodotto deriva da idrocarburi e la sua produzione comporta anche una grande produzione di anidride carbonica e per questo viene chiamato “idrogeno grigio” o “idrogeno blu” se l’anidride carbonica prodotta viene stoccata permanentemente (per esempio riempiendo i giacimenti di gas naturale esauriti).

I colori dell’idrogeno

Esiste anche l’idrogeno verde, quello prodotto dall’elettrolisi dell’acqua (con energia ricavata da fonti rinnovabili come l’eolico o il solare) o da altre fonti non inquinanti, come dalle alghe. La produzione di idrogeno verde risulta più costosa delle altre e per questo meno favorita (1 kg di idrogeno verde costa in media dai 4,5 ai 12 $, mentre quello grigio da 0,98 a 2,93$ e quello blu da 1,8 a 4,7 $).

Differenze tra i colori dell’idrogeno

I motori a benzina/diesel trasformano soltanto tra il 20 e il 25% dell’energia prodotta dalla combustione in energia meccanica, mentre il 75-80% dell’energia restante viene trasformata in calore.

In un motore a celle di idrogeno le percentuali sono invertite, anche se poi solo il 40% dell’energia è utilizzata per far muovere il veicolo perché l’energia prodotta deve essere convertita in energia elettrica. Ciò è dovuto anche al fatto che 1 kg di idrogeno contiene la stessa energia di 2,8 kg di benzina.

Lo “scheletro” di un’auto a idrogeno. Si noti la forma del motore a sinistra

L’idrogeno è però anche molto instabile, tanto che a temperatura ambiente deve essere conservato in sicurezza in contenitori con una pressione interna che varia tra i 350 e 700 bar (una bombola di gas ha una pressione tra 4 e 8 bar, mentre un bombolone di un’auto a gas non supera i 20 bar). Se si vuole invece conservarlo liquido bisogna raffreddarlo e mantenerlo a una temperatura inferiore ai -253°C, che comporta una grande richiesta energetica. Proprio a causa di questi motivi non ci sono le infrastrutture, almeno in Europa, per contenerlo (perché non possono essere utilizzate strutture come i gasdotti, salvo all’inserimento di gas con una minima percentuale di idrogeno).  La costruzione di queste infrastrutture è già in atto, infatti l’UE ha già stanziato i primi finanziamenti per oltre 5,2 miliardi di euro (2023) per sviluppare il settore dell’idrogeno.

Green deal

È vero anche però che nel Green deal (il piano dell’Unione europea per la decarbonizzazione), cercando di limitare la produzione di gas serra, si svantaggiare indirettamente  l’idrogeno che (come detto prima viene prodotto per il 97%  da idrocarburi) potrebbe rappresentare quindi una vera soluzione solo per i Paesi con un’ampia produzione di energia pulita come Spagna, Svezia, Finlandia e Francia (quest’ultima grazie ai reattori nucleari  è riuscita a rientrare tra i produttori di energia pulita, ma non rinnovabile).

In Europa quindi l’idrogeno risulta molto più costoso rispetto all’elettrico.

– Francesco Savio 2ASA

Parola d’ordine: Coquette🎀

Fiocchi a cascata, baby pink e Lana del Rey in sottofondo sono i capisaldi del nuovo amatissimo trend, uno dei tanti che dal 2020 ad oggi ci accompagnano fieramente. Questo però ha avuto un impatto sociale maggiore di tutti gli altri, e a testimoniarlo sono le numerose reference che le maison di moda hanno fatto nella recente settimana dell’Haute Couture: da Jean Paul Gaultier by Simone Rocha a Robert Wun, corsetti e drappeggi non ci abbandonano. 

Jean Paul Gaultier HC by Simone Rocha

Robert Wun Haute Couture

A favorirlo sono sicuramente il senso di libertà, e un po’ quella frivolezza che in questi tempi ci vuole. Ci viene quasi voglia di tornare indietro nelle ere, di ripescare elementi curiosi e frivoli da aggiungere ai nostri look che ci strappino un sorriso e ci donino sicurezza. 

A proposito di questo tema favolistico, vorrei spendere qualche parola per il viaggio emozionale che John Galliano ci ha regalato in occasione dell’ultima Artisanal di Maison Margiela. Ambientata in un locale notturno di una Parigi di fine ottocento, sotto la pioggia, hanno sfilato in modo teatrale meretrici, dongiovanni e bambole rotte dal fascino fatiscente, contribuendo a mettere in scena l’apoteosi della genialità artistica. 

In questo caso il trend coquette si è manifestato in modo astratto e subliminale, specialmente nel make up di Pat McGrath, nelle collane di perle interposte nelle calze  e nei doll-dress che hanno chiuso il sipario. 

Doll look di Maison Margiela HC

Make-up di Pat McGrath 

Credo sia meglio, quindi, non prendere ogni trend alla lettera, ma adattarlo a noi, lasciandoci ispirare e prendendo ciò che ci interessa e che ci trasmette gioia. 

A lasciarvi ironicamente, questa volta, sarà una massima della ispiratrice di tutto questo, la Del Rey, che esclamò : Live fast. Die young. Be wild. Have fun.

Edoardo Benedusi 5AC

Fabi e Pragg, due validi concorrenti per Carlsen

Nell’ultimo episodio di questa rubrica ho parlato del grande Magnus Carlsen, prodigio e campione indiscusso del mondo degli scacchi, ma adesso parliamo del secondo gradino del podio attuale…

Identificare il numero due al mondo non è semplice, ci sono molti nomi che potrebbero aggiudicarsi questo posto, ma secondo me è giusto parlare di due figure di spicco, uno dei due giocatori ha rappresentato l’Italia per molti anni per poi passare agli USA, l’altro è invece un “nuovo” prodigio diciottenne, che si è fatto valere nel World Chess Championship 2023, riuscendo ad aggiudicarsi il secondo posto dietro Carlsen.

Sto parlando di Fabiano Caruana, detto Fabi e di Rameshbabu Praggnanandhaa, detto Pragg.

Fabiano Caruana è un Grande Maestro dal 2007, al tempo il più giovane italiano e americano ad aver conquistato il titolo. Nato in Florida da genitori italiani ha rappresentato l’America fino al 2005, poi è passato all’Italia dal 2005 al 2015 e adesso rappresenta l’America dal 2015.

Ha vinto molti tornei italiani nel periodo tra il 2005-2015 e nel 2007 riesce a vincere il Campionato Assoluto Italiano, dopo essere arrivato secondo l’anno precedente.

Ha vinto sedici super tornei, ha sfidato più volte il campione del mondo, ma la prima è stata per contendersi il titolo nel 2018, a Londra, dove purtroppo non riuscì a superare la tecnica dell’avversario e perderà di tre punti.

Nel 2020, grazie alla partita giocata contro Carlsen nel 2018, si aggiudica una qualificazione diretta alle “Candidates” per i mondiali.

In ottobre 2021 giunge primo a pari merito al campionato statunitense con Wesley So e Samuel Sevian, con il punteggio di 6,5 punti su 11. Tuttavia agli spareggi arriverà secondo dietro lo stesso So.

Nel 2023 partecipa e si classifica al terzo posto della Coppa del Mondo, questo risultato gli dà il diritto di partecipare per la quinta volta al Torneo dei Candidati.

Ha un punteggio FIDE di 2804 (aggiornato 1 gennaio 2024) e unico italiano ad aver superato la soglia del 2700.

L’altro nome di questa selezione è Praggnanandhaa, giocatore facente parte del numeroso gruppo di prodigi indiani presenti in questi anni, assieme a Vidit, Gukesh e altri. Ha ottenuto il titolo di Grande Maestro all’età di dodici anni, dieci mesi e tredici giorni ed è il 13° al mondo per punteggio FIDE (e secondo giocatore indiano, dietro Vidit). Nel 2022 è apparso per la prima volta nei primi cento nella classifica mondiale ed è arrivato secondo, dietro Magnus Carlsen, durante la Chess World Cup 2023, ma senza dare spettacolo contro i suoi avversari, arrivò infatti a degli spareggi in finale contro Magnus, e più volte vinse delle partite e gli diede del filo da torcere, risolvendo posizioni complicatissime. Grazie a questo risultato ha anche lui l’accesso garantito alle Candidates di Toronto 2024, come Fabi.

– Frederick Toschetti 2CA

“Reawakening Fashion Everyday”

Sto perdendo la speranza nella moda. Ciò che vedo in sfilata, nei magazine e nelle collezioni odierne mi annoia. Credo che se c’è un onere che la moda abbia è proprio quello di sbalordire, creare interesse facendo brillare gli occhi o, invece, inorridire, smembrare e ricostruire. Di tutto ciò non percepisco proprio nulla, e quindi mi trovo costretto a tuffarmi nel passato: dal “corsettato” Mugler degli anni 90, al faraonico universo di John Galliano per Dior del 2000, fino all’haute couture rivoluzionaria di Cristóbal Balenciaga di inizio ‘900 (per citare i più conosciuti). Sembra quasi che tutto sia stato già svolto impeccabilmente nel passato e che non ci sia speranza alcuna nel presente. 

Per non parlare della carta stampata, che spreca cellulosa, inchiostro e gloss al misero fine di vendere un cumulo perpetuo di banalità, quando il guadagno non è una giustificazione sufficiente. Ciò che manca è il “Vogue Juice”, definizione della grandiosa giornalista Anna Piaggi, che con questo arguto appaiamento di parole intendeva “un succo di concetti e di stimoli visuali”. 

Anna Piaggi (1931-2012)
giornalista e scrittrice italiana

Passando alla mondanità, che forse il tema del Met Gala di New York di quest’anno sia da leggere anche come un’esortazione al risveglio del fashion system ? “Sleeping Beauties: Reawakening Fashion” metterà in mostra iconici abiti e accessori troppi fragili per venire indossati di nuovo o solamente per essere esibiti on display; facendo ciò darà sicuramente spettacolo, mostrando però solo abiti di epoche trascorse. 

“La Chimére”, Thierry Mugler
(Haute Couture Fall/Winter 1997-1998)

Concludo la mia lunga riflessione col dire che io non mi voglio arrendere. Esorto tutti voi lettori a esprimervi con la moda osando, facendo scelte azzardate, e provando ad uscire dalla comfort zone. Ciò che si sta tralasciando è l’importanza di questo mezzo comunicativo, che vi regala con generosità il lusso di dipingere al meglio la vostra essenza nella vita di tutti i giorni.

Razor clam shells dress,
Alexander McQueen, Voss- SS 2001

-Edoardo Benedusi 5AC

La tecnologia Stealth e perché è così strategica

Scientifico!

(Northrop Grumman B-21 Raider)

Nelle ultime settimane, gli Stati Uniti hanno presentato il loro ultimo bombardiere dotato di tecnologia stealth e non serve sicuramente un esperto in politica estera per capire che questo annuncio fatto non è puramente casuale. L’aereo in questione si chiama Northrop Grumman B-21 Raider, ha fatto il suo primo volo il 10 novembre 2023, a Palmdale in California e da quello che è stato dichiarato potrà trasportare armi convenzionali e bombe termonucleari. Il costo è maggiore ai 600 milioni di dollari cadauno e gli Stati Uniti prevedono di acquistare circa 100 esemplari. Dotato di tecnologia stealth diventerà operativo tra il 2026 e il 2027 e sostituirà il Rockwell B-1 Lancer e il Northrop Grumman B-2 Spirit. Ma perché la tecnologia stealth è così importante strategica?

Rockwell B-1 Lancer

La risposta si trova nella sua funzione, cercare di rendere minima la possibilità ai radar di scovare e poter tracciare l’aereo in volo sul territorio nemico, potendo così poter colpire obiettivi più strategici con una maggiore probabilità di successo con una minore possibilità che l’aereo venga abbattuto.

Per parlare di come funziona la tecnologia stealth bisogna parlare anche di come funzionano i radar militari.

Northrop Grumman B-2 Spirit

I radar militari

Non c’è pressoché alcuna differenza tra i radar militari e civili.

Per funzionare i radar (parola dall’inglese radio detection and ranging) necessitano di una trasmettitore di onde e di una o più antenne per la ricezione del segnale di ritorno. Più in particolare viene sfruttato l’effetto di backscattering, grazie al quale un’onda, quando colpisce un oggetto ritorna alla sorgente con un angolo di deviazione pari a 180°, seguendo, però al contrario, il tragitto fatto. Per intenderci è come se percorriamo il percorso casa-scuola prima in un senso di marcia e poi quando siamo arrivati a destinazione ripartiamo immediatamente in retromarcia o nel senso di marcia opposto.

Non tutte le onde vengono deviate con un angolo di 180°, ma la maggior parte verrà deviata con angoli minori, per questo sono presenti nel territorio molte altre antenne per ricevere per l’appunto le altre onde che sono state deviate. Inoltre ogni trasmettitore radar emette onde con una frequenza diversa, seppur per pochi hertz, dagli altri e poiché quando le onde rimbalzano su un oggetto non cambiano frequenza, rende possibile il riconoscimento della stazione radar dalla quale è stata inviata. Per esempio un Boeing 747 sta sorvolando Perugia per atterrare poi a Venezia. Il radar di Venezia invia delle onde all’aereo per calcolare la sua posizione e molte onde vengono deviate e intercettate dall’antenna del radar dell’aeroporto di Malpensa. Se le frequenze dell’aeroporto di Malpensa e quelle del Marco Polo fossero identiche, a Milano risulterebbe che l’aereo sta viaggiano verso di loro, poiché le onde captate non sono riconducibili alla stazione radar del Marco Polo e risulta quindi che sono state deviate di 180°. Nella realtà vengono utilizzati anche i dati GPS e anche quelli dei radiofari.

A seconda poi della lunghezza d’onda, si possono raggiungere distanze diverse. Con lunghezze d’onda maggiori e frequenza minore si raggiungono le distanze maggiori, mentre con lunghezze d’onda minori e frequenze maggiori la distanza coperta è minore.

Nel campo aeronautico si utilizzano onde radio e microonde, con frequenze diverse.

Le frequenze tra i 230 e i 1000 MHz sono utilizzate per il controllo balistico (le lunghezze d’onda vanno dai 30 ai 130 cm),tra 1 e 2 GHz sono utilizzati per la sorveglianza aerea mentre quelle tra 8 e 12 GHz sono utilizzate per il puntamento di missili, l’orientamento e per scopi navali.

Tecnologia Stealth

Lo scopo della tecnologia stealth è quello di minimizzare la possibilità di un veivolo o anche di una nave di essere scovati da un radar, si cerca quindi di ridurre al massimo la deviazione delle onde verso un’antenna. È errato pensare che un aereo diventi completamente invisibile ai radar, infatti la tecnologia riduce le possibilità che l’aereo venga captato a una media e breve distanza dal radar, riducendo quasi del 15% le probabilità di essere trovati e colpiti, rendendo così possibili missioni più “invasive” nel territorio nemico.

 Per fare ciò si utilizzano materiali, vernici e forme che impediscano ciò. Come ben capite questa tecnologia è costosissima, ma vediamo in particolare questi elementi fondamentali.

I materiali

I materiali di costruzione degli aerei stealth sono tutti secretati, ma si ipotizza che non ci siano differenze strutturali con gli aerei normali. È ormai conosciuto che l’elemento principale per la schermatura è una vernice a base di ferrite e di colore nero, particolarità che permette all’aereo di assorbire e trasformare le onde in calore, anche se negli ultimi anni è meno utilizzata. Secondo delle indiscrezioni non verificabili nella ricerca stealth degli ultimi anni è apparso il kevlar.

Le forme

Le forme giocano un ruolo molto importante nella tecnologia stealth, infatti la forma di un aeromobile può influenzare la direzione in cui vengono riflesse le onde radar. Ad esempio, gli angoli acuti e le superfici piane possono riflettere le onde radar lontano dal ricevitore radar, rendendo l’aeromobile più difficile da rilevare . Inoltre, la forma dell’aeromobile può anche essere progettata per minimizzare le discontinuità e le protuberanze (come le prese d’aria dei motori o le antenne), che possono aumentare la sua visibilità radar. Inoltre, la forma dell’aeromobile può influenzare l’assorbimento delle onde radar.

I mezzi di propulsione

Ogni aereo stealth è dotato di un motore diverso dagli altri, che varia per tipologia, efficienza e funzionamento.  Il motore più diffuso è quello montato nel Lockheed Martin F-35 Lightning II, un Pratt & Whitney F135-PW-100 con postbruciatore, per via della grande richiesta di questi aerei (945 esemplari). Questo motore riesce a sprigionare 125 kN di spinta e se dotato di postbruciatore (strumento inserito dopo la turbina, che utilizza i gas di scarico per alimentare una fiamma che aumenta la forza di spinta, a discapito dell’efficienza di carburante) arriva ad oltre 191 kN. È composto da una turboventola con due ugelli direzionabili per permettere il decollo, l’atterraggio in verticale e anche di volare in condizioni di supercrociera, a 2,25 Ma (2.757,38 km/h) a soli 2.500 metri di quota.

Ad oggi, gli Stati Uniti hanno il maggior numero di modelli aerei stealth, ma negli ultimi anni anche Russia e Cina hanno iniziato delle ricerche su questa tecnologia. Gli aerei stealth ad oggi prodotti e  in servizio nei vari Paesi sono :

Stati Uniti

  • Lockheed Martin F-35 Lightning II (945 esemplari, acquistato anche da Paesi come Italia, regno Unito, Turchia e Israele)
  • Lockheed Martin – Boeing F-22 Raptor (195 esemplari);
  • Northrop Grumman B-2 Spirit (21 esemplari);

Russia

  • Sukhoi Su-57 (9 esemplari)
Lockheed Martin – Boeing F-22 Raptor
Lockheed Martin F-35 Lightning II
Atterraggio verticale di un F-35
Sukhoi Su-57

– Francesco Savio, 2ASA

Psicologia dei colori e cromoterapia

PSICOLOGIA DEI COLORI

La psicologia dei colori è lo studio dei colori in relazione al comportamento umano, l’umore o oi processi fisiologici. Ha lo scopo di determinare come il colore influenza le nostre decisioni quotidiane, come la scelta di comprare un determinato prodotto, i nostri sentimenti o anche ricordi. I colori sono anche utilizzati nell’ambito della cromoterapia.

La psicologia del colore in modo particolare divide tutte le colorazioni in tre grandi macro-aree:
•  i colori freddi che si utilizzano per creare un’atmosfera surreale, stimolare ricordi e creare una componente onirica.
•   i colori caldi che suscitano una varietà di emozioni dal comfort al calore, dall’ostilità alla rabbia e all’eccitazione.
• i colori psichedelici utilizzati per descrivere ambientazioni notturne ma anche sensazioni come quelle delle allucinazioni e di stati confusionali.

ROSSO: Le idee, gli atteggiamenti e le emozioni associati al colore rosso includono:

Avvertimento

Amore

Coraggio

Temperamento forte

Rabbia

Desiderio

Il rosso è la lunghezza d’onda più lunga della luce nello spettro della luce visibile. Nelle culture occidentali, il rosso è associato al potere, al controllo e alla forza. Segnala anche il pericolo e attiva la vigilanza. Il rosso al semaforo segnala ai conducenti di essere vigili e di fermarsi. Alcuni animali, come i serpenti, hanno una colorazione rossa per indicare che sono pericolosi e mortali.

Il rosso significa anche passione e invoca la risposta di lotta o fuga. Questo istinto viene attivato dall’amigdala del cervello quando ci troviamo di fronte a un pericolo o una situazione minacciosa. Si pensa che il rosso aumenti il ​​metabolismo e la pressione sanguigna, necessari per prepararsi all’azione durante una situazione allarmante.

Un ulteriore esempio nella quotidianità è l’uso del rosso per i banchi scolastici: essi, infatti, hanno le gambe rosse per catturare l’attenzione e non fare inciampare gli alunni. Mentre la loro superficie è verde per trasmettere serenità.

GIALLO: Il giallo è vivido e vivace. Le associazioni con il giallo includono:

Energia

Speranza

Onore

Paura

Fragilità

Il giallo è un colore brillante e il colore più visibile agli occhi.

È associato a cordialità e significa competenza. Il giallo è il colore dell’ottimismo e della creatività. Attira la nostra attenzione e indica cautela poiché il giallo è spesso usato insieme al nero su segnali stradali, taxi e scuolabus. È interessante notare che il giallo è anche associato a paura, codardia e malattia.

Inoltre stimola la fame e richiama l’economicità.

È il colore che richiama più leggerezza, indica personalità aperta e anche felicità temporanea, infatti è associato spesso al cambiamento. Chi preferisce il giallo non si riposa mai e ha molta energia.

Spesso amato dai bambini e usato per comunicare con loro.

VERDE: Il verde simboleggia idee come:

Salute

Compassione

Favore

Ambizione

Passività

Il verde si trova tra il giallo e il blu nello spettro della luce visibile e rappresenta l’equilibrio. È il colore della primavera ed è comunemente associato alla crescita, alla vita, alla fertilità e alla natura. Il verde rappresenta la sicurezza ed è collegato alla prosperità, alla ricchezza, alla buona fortuna e alle finanze. È considerato un colore rilassante e lenitivo che si ritiene abbia un effetto calmante e allevia lo stress. Le associazioni negative con il verde includono avidità, gelosia, apatia e letargia.

VIOLA: Il viola rappresenta idee e atteggiamenti relativi a:

Ricchezza

Dignità

Saggezza

Arroganza

Impazienza

Il viola o viola è la lunghezza d’onda più corta sullo spettro della luce visibile. È una combinazione di blu e rosso e rappresenta nobiltà, potere e regalità. Il viola comunica un senso di valore, qualità e valore. È anche associato a spiritualità, sacralità e grazia. I colori viola chiaro rappresentano romanticismo e delicatezza, mentre il viola scuro simboleggia dolore, paura e apprensione.

BLU: Le associazioni con il colore blu includono:

Fiducia

Efficienza

Freddezza

Sicurezza

Tristezza

Il blu è associato alla calma e alla tranquillità. È un simbolo di logica, comunicazione e intelligenza. È collegato a basso stress, bassa temperatura e bassa frequenza cardiaca. Il blu è anche associato alla mancanza di calore, distanza emotiva e indifferenza. Nonostante le associazioni negative, il blu è spesso scelto come il colore più popolare nelle indagini di ricerca in tutto il mondo.

Negli studi di ricerca, è stato anche scoperto che la luce blu ripristina i nostri ritmi circadiani o cicli sonno-veglia. Sono le lunghezze d’onda blu della luce del sole che inibiscono la ghiandola pineale dal rilasciare melatonina durante il giorno. La melatonina segnala al corpo che è ora di dormire. La luce blu ci stimola a rimanere svegli.

NERO: Le associazioni con il nero includono:

Aggressione

Tenebroso

Sicurezza

Freddezza

Vuoto

Il nero assorbe tutte le lunghezze d’onda dello spettro della luce visibile e non riflette il colore: per questo il nero è visto come misterioso e in molte culture è associato alla paura, alla morte, all’ignoto e al male. Rappresenta anche potere, autorità, eleganzae raffinatezza. Il nero significa serietà, indipendenza ed è comunemente associato a tristezza e negatività.

Esistono ben 50 tonalità di nero.

CROMOTERAPIA

La cromoterapia è una medicina alternativa non scientifica e non verificata che dichiara di usare i colori come terapia per la cura delle malattie. L’utilizzo dei colori sarebbe regolato da principi comuni, analoghi a quelli che portano a scegliere il colore dell’abito da indossare o la tinta delle pareti di casa per abbinarli a una determinata personalità e favorire o contrastare un certo stato d’animo. Secondo i sostenitori della cromoterapia, i colori aiuterebbero il corpo e la psiche a ritrovare il loro naturale equilibrio, e avrebbero effetti fisici e psichici in grado di stimolare il corpo e calmare certi sintomi.

L’efficacia della cromoterapia è contestata dalla comunità scientifica, in quanto nessuna pratica cromoterapica è mai stata in grado di superare uno studio clinico controllato, ed anche i presupposti della teoria sono considerati scientificamente incoerenti, ed è una pseudoscienza. La cromoterapia non va confusa con gli studi e le eventuali applicazioni della psicologia del colore.

I Greci associavano i colori agli elementi fondamentali (aria, fuoco, acqua e terra) e questi ai quattro “umori” o “fluidi del corpo”: la bile gialla, il sangue (rosso), il flegma (bianco) e la bile nera, a loro volta prodotti in quattro organi particolari (la milza, il cuore, il fegato e il cervello). La salute era considerata la risultante dell’equilibrio di questi elementi, mentre la malattia ne era lo sbilanciamento. I colori, così come erano associati agli umori, venivano anche utilizzati come trattamento contro le malattie.

CHAKRA: In India la medicina ayurvedica ha sempre tenuto conto di come i colori influenzino l’equilibrio dei chakra, i centri di energia sottile associati alle principali ghiandole del corpo. I Cinesi affidavano il proprio benessere fisico all’azione dei vari colori: il giallo rimetteva in sesto intestino, il violetto arginava gli attacchi epilettici. In Cina, addirittura, le finestre della camera del paziente venivano coperte con teli di colore adeguato e gli indumenti del malato dovevano essere della stessa tinta.

Dopo alterne fortune nel Medioevo, con l’avvento dell‘Illuminismo, la cromoterapia che non possedeva riscontri scientifici, fu declassata a pseudoscienza, anche se le terapie ad essa legate continuarono ad essere praticate.

Anonimo

Le autonomous cars e la guida autonoma

Scientifico!

Negli ultimi anni, sta prendendo sempre di più piede il progetto di creare dei veicoli che riescano a guidare da soli, evitando incidenti e senza che l’uomo intervenga. Saranno quindi dei veicoli molto sicuri e che ridurranno drasticamente il numero di incidenti, anche mortali, grazie alla tecnologia.  In questo articolo vi spiegherò questo tema in 5 punti.

1. I livelli di automazione

Dal 2013 esiste uno standard di automatizzazione, elaborato dal dipartimento dei trasporti statunitense, in collaborazione con. Questa classificazione prevede 6 livelli:

  1. Livello 0 – Nessuna automatizzazione

In questo livello il conducente ha il pieno controllo del veicolo e i sistemi che ci rientrano sono quelli di allarme anticollisione e di deviazione dalla corsia;

  1. Livello 1- Assistenza alla guida

Il conducente anche in questo livello ha il controllo della vettura, ma il sistema può intervenire modificando la sterzata e la velocità. I sistemi di questo tipo sono il cruise control adattivo, il limitatore di velocità (che sarà obbligatorio per tutte le auto in circolazione in Europa dal 2025) e il sistema di mantenimento della corsia;

  1. Livello 2 – Automazione parziale

Il conducente non ha più il controllo della velocità e dello sterza, ma deve essere in grado di intervenire se fosse necessario. I sistemi principali che rientrano in questa categoria sono il DISTRONIC PLUS creato da Mercedes, Autopilot di Tesla e i sistemi di parcheggio automatico;

  1. Livello 3 – automazione parziale

Il veicolo ha il pieno controllo di tutte le funzioni, ma il conducente deve essere in grado di intervenire se il sistema lo richiede e può essere attivato solo in strade delimitate da recinzioni e senza incroci. Se il sistema sente che il conducente non riesce a rispondere nel tempo prestabilito, effettuerà una sosta di sicurezza. Il guidatore perciò potrà essere parzialmente distratto. Un esempio di questo livello è il Full Self-Driving di Tesla;

  1. Livello 4 – Alta automazione

Il sistema, come nel livello precedente, ha il completo controllo delle funzioni del veicolo, ma in questo caso non richiede l’intervento di un conducente. Infatti se il sistema nota che il percorso che sta facendo va oltre le proprie potenzialità, effettuerà un parcheggio di sicurezza, non fermandosi nella corsia di marcia come nel livello 3;

  1. Livello 5 – Automazione completa

Questo livello racchiude le stesse funzionalità dell’alta automazione, ma non avrà limiti nei percorsi di guida e perciò non sarà costretto a fare un parcheggio di sicurezza se la guida è troppo complessa. Attualmente non si è ancora arrivati a questo livello.

2. Come le auto a guida autonoma si orientano nello spazio

Le auto a guida autonoma sfruttano un particolare sistema di sensori, telecamere e GPS per orientarsi, ma vediamo più nel dettaglio come funzionano.      

Le autonomous cars hanno dei potenti radar che sfruttano l’effetto Doppler per calcolare la distanza e la velocità della vettura che le precede, fino anche a 200 metri di distanza. I radar funzionano emettendo delle onde radio a modulazione con una frequenza tra i 76 e i 77 GHz che, rimbalzando su un oggetto, ritornano indietro fornendo al computer di bordo numerosi e preziosi dati.

C’è poi un sistema di ultrasuoni e lidar che si attiva alle basse velocità e che scandagliano tutta la zona attorno al veicolo fino a una distanza di 6 metri in modo tale da registrare la presenza di pedoni o di altre auto. Il sistema ad ultrasuoni emette delle onde sonore superiori ai 20 kHz che non sono udibili all’orecchio umano. Queste onde sonore, ritornando ai sensori, forniscono una distanza precisa degli oggetti intorno all’auto.

Il lidar (dall’inglese Laser Imaging Detection and Ranging) è invece un sistema di raggi laser che forniscono una mappa dettagliata e tridimensionale di tutto ciò che si trova vicino il veicolo in un raggio di 150 metri.

C’è anche un sistema di telecamere che sostituisce gli occhi umani e che è in grado di calcolare la distanza degli oggetti grazie alla prospettiva. In ogni modello di auto a guida autonoma c’è un numero diverso di telecamere, ma principalmente ci sono tre tipi di telecamere standard. La prima telecamera è quella frontale, che ha il compito di monitorare la strada davanti fino a 150 metri, la seconda telecamera è grandangolare che riesce a vedere fino a 60 metri con una maggiore visuale laterale e infine c’è una telecamera focalizzata che è in grado di vedere fino a 250 metri di distanza.

Non può poi esistere un sistema GPS che monitora la posizione della vettura costantemente in una mappa precaricata. Il sistema GPS è in grado di comunicare con altri sistemi di bordo per anticipare curve o altri tratti potenzialmente pericolosi.

3. La sicurezza della guida autonoma

Le autonomous cars grazie ai sensori e alle telecamere sono molto sicure e infatti si stima che possano ridurre gli incidenti del 94% anche se non potranno eliminarli totalmente e sono soprattutto maggiormente esposte ad attacchi informatici, ma vediamo la loro sicurezza più nel dettaglio.

I sensori possono subire dei guasti, come cortocircuiti o interruzione del passaggio della corrente elettrica che comporta a un malfunzionamento generale del software che controlla la macchina, ma ciò può essere risolto sottoponendo il veicolo a delle revisioni abbastanza frequenti, come può accadere e dobbiamo fare anche per le auto comuni. Questo però non è il “problema” più grave delle auto a guida autonoma, ma la problematica più importante è il rischio di subire un attacco hacker o che il sistema vada in “tilt” non riconoscendo alcuni segnali.

Di ciò ne parla un report fatto da Enisa (l’Agenzia Europea per la Cybersicurezza) e da Jrc (il Centro Comune di Ricerca europeo) che mette in evidenza le problematiche informatiche delle auto a guida autonoma. In questo report viene messo l’accento sui problemi del machine learning che, nonostante l’analisi di migliaia di dati sugli interventi dei conducenti nelle più disparate situazioni, non sarebbe in grado di valutare correttamente che tipo di intervento fare, come accelerare o frenare. Inoltre, l’aggiunta di segnaletica orizzontale o di vernice sul manto stradale potrebbe portare il sistema a fare una valutazione scorretta, causando degli incidenti. Non sono poi esclusi possibili attacchi informatici che possono rendere molto pericolosa l’auto.

4. A che punto siamo oggi nel loro sviluppo

Oggi, gran parte delle case automobilistiche, in particolare BMW, Tesla, Mercedes, Volvo e Audi, ma anche aziende come Google stanno spingendo molto su questa tecnologia, tanto che la gran parte dei loro modelli dispongono di una tecnologia di guida autonoma uguale o superiore al livello 1 e addirittura Waymo (un’azienda controllata da Google) offre dei taxi di livello 4.

Per il momento però le aziende più avanti in questo campo sono Tesla, che con le funzioni di Autopilot e di Full Self-Driving ha sviluppato un sistema di guida autonoma di livello 3, Argo AI e Cruise (di proprietà di General motors).

Waymo è quella più avanzata di tutti che offre robotaxi di livello 4, che sono prenotabili tramite app negli Stati Uniti e che sono in servizio in Arizona e a Los Angeles. Oltre ai robotaxi Waymo offre un servizio di trasporto merci, con furgoni e camion con autopilota.

Questa tecnologia sta insomma prendendo piede e secondo le stime entro il 2030 il 15% delle auto vendute sarà autonoma anche se ciò dipenderà da come il pubblico le accetterà.

Oggi un’auto a guida autonoma costa intorno ai 45.000-50.000€, anche se un’auto a guida autonoma di livello 3 della Mercedes costa tra i 5.000 e i 7.430€ in più rispetto al prezzo di listino.

In Italia le auto a guida autonoma non possono circolare sopra il livello 3 compreso, anche se i test delle auto di livello 3 sono permesse con l’autorizzazione del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. Come tutte le cose, anche le autonomous cars hanno dei pro e dei contro, ma vediamoli più nel dettaglio.

5. I pro e i contro

Come tutte le cose anche le auto a guida autonoma hanno dei pro e dei contro, elencati qui sotto:

Pro:

  1. Il conducente può avere un po’ di più di tempo per dedicarsi ad altre attività come il lavoro;
  2. il consumo di carburante può essere ottimizzato evitando brusche accelerazioni e frenate;
  3. riduzione del traffico poiché i veicoli comunicano costantemente tra di loro scambiando dati come velocità, posizione e altre informazioni;

Contro:

  1. Possibilità di hacking o di malfunzionamenti dei sensori;
  2. non sono economiche e potrebbero trasformarsi in una soluzione per pochi;
  3. mettono a rischio molti lavoratori, come i tassisti e gli autotrasportatori.

In questo articolo spero di avervi spiegato al meglio l’argomento.

Francesco Savio, 1ASA

Aprire gli occhi verso il mondo e avvicinarsi a realtà diverse

Credo sia fondamentale per la nostra crescita personale essere aperti verso
nuovi mondi, culture, lingue, mentalità.
Noi giovani siamo curiosi di scoprire cosa c’è al di fuori del nostro piccolo
paesino, nel quale siamo nati e cresciuti. Allo stesso tempo però, il pensare
che ci sia qualcosa di diverso fuori dalla nostra quotidianità, dalla realtà in
cui siamo abituati a vivere e l’avvicinarsi a questo mondo inesplorato ci
spaventano.
Proprio per questo, ho deciso di intervistare le prof.sse Datz e Salvo:
entrambe si sono trasferite in un’età giovane in posti completamente
diversi rispetto al loro luogo d’origine.
Le loro esperienze sono un’utile testimonianza e una spinta per noi che
prima o poi conosceremo ed affronteremo le molteplici difficoltà
trasferendoci all’estero.

Ecco a voi l’esperienza della prof.ssa Salvo:

Dove è nata e cresciuta?

Sono nata e cresciuta a Messina, dove ho frequentato il liceo classico
“F. Maurolico”. Dopodichè mi sono iscritta all’Università per studiare
Lingue e Letterature Straniere (Tedesco e Inglese).

Quando si è trasferita all’estero? In quale occasione?
All’età di 20 anni mi sono trasferita in Germania, esattamente a
Tübingen, grazie al progetto “Erasmus”, un programma di mobilità
studentesca dell’Unione Europea che dà la possibilità a studenti
universitari di effettuare un periodo di studio in una università
straniera.
Dopo questa esperienza meravigliosa durata un anno, ho deciso di
rimanere in Germania, trasferendomi a Köln, Colonia, dove ho avuto
l’opportunità di lavorare per sei anni come insegnante di lingua
italiana in un liceo tedesco.

E’ stata la sua prima esperienza al di fuori del proprio paese di
nascita?
Prima dei 20 anni ho avuto la fortuna di fare tante piccole esperienze
all’estero. In particolare, ogni estate trascorrevo due o tre settimane
all’estero (Inghilterra, Irlanda, Austria, Germania) ospitata in college
o presso famiglie straniere. Durante questo periodo studiavo la lingua
e allo stesso tempo scoprivo la cultura del posto.

Aveva già studiato la lingua del paese in cui si è trasferita? In
generale, quanto tempo ci è voluto per impadronirsi della lingua?
Sebbene avessi già delle conoscenze della lingua tedesca, non è stato
subito facile comprendere e farsi comprendere dagli abitanti del posto.
Un conto è studiare la grammatica e il lessico sui libri, un altro è
utilizzare tutto il bagaglio linguistico in forma attiva e immediata in
contesti reali. Solo col tempo e con la pratica sono riuscita ad entrare
sempre più in confidenza con la lingua straniera e a sentirla sempre
più mia. Tuttavia, sono convinta che non si finisce mai di imparare
una lingua!

E’ stato difficile ambientarsi? E’ stata ben accolta dalle persone del
posto? Quali sono state le sue prime impressioni?
Con il trasferimento sono andata incontro a delle difficoltà che, a mio
parere, sono inevitabili e da mettere in conto se si fanno determinate
scelte di vita. Ero psicologicamente pronta a vivere una nuova
situazione in un ambiente diverso, ma trovarsi poi a viverla nella
realtà è un’altra cosa. Tuttavia, sebbene fossi partita da sola e non
conoscessi nessuno, la mia voglia di mettermi in gioco e la mia
curiosità verso l’altro mi hanno spinta a conoscere e a farmi conoscere
sempre di più dalle persone del posto. Si pensa che i tedeschi siano
molto freddi e distaccati, ma in realtà hanno solo bisogno di tempo per
conoscerti sempre di più e una volta conquistata la loro fiducia sono in
grado di aprire le porte del loro cuore e ad accoglierti calorosamente.
Così è stato per me.

Ha riscontrato difficoltà nell’accettare le diversità tra i due paesi?
Quando sono partita con una valigia in mano, consapevole che avrei
lasciato alle spalle la mia terra d’origine per un periodo molto lungo,
mi sono portata con me anche le parole della mia cara professoressa
d’inglese del liceo, la quale sosteneva che “conoscere, accettare e
accogliere le differenze culturali diventano la chiave per rendere
un’esperienza proficua e significativa”. Forte di questo pensiero, mi
sono effettivamente scontrata sul posto con la diversità culturale, in
ogni aspetto della vita quotidiana, ma proprio lo “scontro” mi ha fatto
capire che aprirsi a nuovi modi di pensare permette di tener conto che
esistono diverse soluzioni e punti di vista e possiamo imparare
qualcosa anche da altre culture, così come apprezzare ancora di più la
nostra.

Come si è sentita essendo così lontana da casa? Ne aveva nostalgia?
Ritornava spesso?
La lontananza da casa si è sicuramente fatta sentire. Lasciare la
famiglia e gli amici per avventurarsi in un paese nuovo e straniero non
è mai semplicissimo. Quindi avevo sì nostalgia di casa, soprattutto nei
momenti più difficili. Ma ho sempre superato questi momenti
pensando che comunque non ero sola. Grazie alla tecnologia potevo
sentire in qualsiasi momento le persone che avevo lasciato in Italia e
allo stesso tempo sapevo che avevo attorno a me nuovi amici e nuovi
affetti che mi hanno aiutato a gestire anche i momenti di sconforto e
di stanchezza. Inoltre, circa 3 volte l’anno riuscivo a tornare a casa per
ricaricarmi ed essere così pronta per ripartire con il giusto
entusiasmo.

Consiglia a noi giovani di fare esperienze all’estero?
Consiglio assolutamente a tutti i giovani di fare più esperienze
possibili all’estero. Sono pienamente convinta che tali esperienze
siano ciò che permettono alle persone di mettersi veramente in gioco,
di crescere e formarsi caratterialmente e di conoscersi e riscoprirsi
giorno dopo giorno. Venire a contatto con le diversità, imparare ad
ascoltare altri punti di vista e a rispettarli, conoscere nuovi usi e
costumi, scoprire posti nuovi…sono tutti modi utili per aprire la mente
e rendersi conto che non esistiamo solo noi, ma che siamo solo una
piccola parte di un qualcosa di più grande e meraviglioso che si chiama
“mondo”. Inoltre, solo uscendo dal nostro guscio possiamo davvero
affrontare le nostre paure e trovare così la chiave giusta per
superare una difficoltà, così da guardare avanti con più fiducia e
maggiore consapevolezza di sé.

Ora passiamo la parola alla prof.ssa Datz la quale con un’esperienza
altrettanto importante, ci racconta cosa l’ha spinta a trasferirsi in una
grande città come Padova. Spoiler: l’amore ha giocato un grande
ruolo;)

Dov’è nata e cresciuta?
Sono originaria dell’Alto Adige, più precisamente sono cresciuta nel
paese di Caldaro, a circa 15 km da Bolzano.

Com’è stato per lei crescere in una provincia bilingue? Come mai non
aveva imparato l’italiano fin da piccola?
L’Alto Adige è una zona bilingue, nei paesi però è predominante il
tedesco. Nel mio paese per esempio all’epoca c’erano solo i carabinieri
di lingua italiana e le scuole (elementari e medie) erano solo in lingua
tedesca. Solo al momento delle superiori che si trovano nelle città
avrei avuto la possibilità di fare la scelta se frequentare la scuola
italiana o tedesca. Avendo fino ad allora fatto tutte le scuole in lingua
tedesca non me la sarei mai sentita di scegliere in quel momento il
liceo in lingua italiana. Peccato che la scuola in Alto Adige non sia
bilingue e che si debba scegliere tra la scuola in lingua tedesca oppure
in lingua italiana. Ho iniziato a studiare l’italiano sin dalla seconda
elementare ma sempre come seconda lingua, quasi come una lingua
straniera e purtroppo con scarsi risultati. Ho sempre avuto paura di
parlare italiano e questo certo non ha aiutato. Non pensavo che questa
lingua in futuro sarebbe diventata così importante nella mia vita.

Cosa l’ha spinta a trasferirsi nel Veneto e lasciare il suo luogo
d’origine?
Ebbene sì, l’amore mi ha portata qui nel Veneto, a Padova. Mi sono
innamorata di un italiano del sud trasferitosi al nord da piccolo, nella
città padovana.

Ha riscontrato problemi nell’imparare la lingua? Quanto ci è voluto
per comprendere e farsi comprendere?
Non è stato facile all’inizio, ritrovarsi in una grande città
comprendendo circa il 30% della lingua parlata era un’insicurezza per
me. Temevo il giudizio degli altri su questo, avevo ansia da
prestazione, essendo italiana pareva strano che io non conoscessi
bene l’italiano. Ho iniziato comunque a lavorare: ho sempre avuto la
passione per la musica e mi è sempre piaciuto cantare. Arrivata a
Padova un’altra opportunità di lavoro mi è parsa davanti:
l’insegnamento della lingua tedesca. Ho dovuto quindi scegliere tra la
mia passione e una cosa abbastanza nuova per me. Col passare del
tempo ho però coltivato un grande amore per questo mestiere che mi
permette di essere in costante contatto con la mia lingua di origine ma
soprattutto di praticarla.
Comunque, capii di aver acquisito un buon livello di italiano solo
quando iniziai a sognare in questa lingua, cosa che mi parve tanto
strana.

Come ha affrontato la differenza tra il posto in cui è cresciuta
rispetto alla grande città in cui si è trasferita? Come le sono sembrate
a primo impatto le persone del posto?
Innanzitutto avevo solamente 21 anni quando mi trasferii a Padova.
Ero una ragazza giovane che voleva lasciare il suo luogo d’origine
perché era spinta da un’immensa voglia di scoprire il nuovo.
Trasferirsi da un paesino in una città multiculturale come Padova fu
un grande passo per esaudire questo mio desiderio. Mi affascinava, e
mi affascina tuttora, la vita di città: andare al cinema, a teatro, vivere
il centro erano tutte cose nuove per me.
D’altra parte però mi sono dovuta abituare alle usanze del posto. Mi
ricordo ancora quanto mi faceva innervosire quando al momento del
salutarsi si diceva “andiamo” per poi stare a parlare per un’altra
mezz’ora… non ero sicuramente abituata!
A differenza degli abitanti del mio paese, le persone conosciute a
Padova sono state fin dall’inizio super aperte e per questo è stato
molto facile per me integrarmi e fare nuove amicizie.

Torna spesso a casa?
Sì, quando ce n’è l’occasione prendo e vado! Mi mancano tantissimo i
paesaggi immersi nel verde, la natura… ma soprattutto la vita nel
paese, dove tutti si conoscono. Si è come una grande famiglia, infatti
non ci si ritrova mai da soli, tutte cose che da giovane mi davano
fastidio e che ora invece vedo diversamente e apprezzo.
Perciò cerco sempre di tornarci per almeno 1 settimana, tempo che mi
basta per ritrovare la mia lingua e la mia cultura!

Consiglia a noi giovani di fare esperienze del genere?
Certamente, credo che bisogna sempre cercare di uscire dalla propria
realtà per scoprire il nuovo. Immergersi nelle diversità aiuta anche a
capire i propri gusti, a scegliere cosa ci piace. Conoscere più cose dà un
senso di consapevolezza di cosa ci gira intorno!

Valentina Chatziantonis 2BL

Intervista ai Kennediani

L’anno scorso, l’ex direttrice Sara Boscolo ha intervistato un ragazzo del Lazio per confrontarsi sulla gestione scolastica durante la pandemia e sulla loro percezione della vecchia situazione; ho trovato la sua iniziativa così interessante che ho pensato di riproporla quest’anno.

La prima intervista-chiacchierata vede come protagonisti tre miei amici del J. F. Kennedy: Federico, Tommaso e Asja (dei quali scoprirete in seguito qualcosa in più), che non hanno esitato a darmi una mano e si sono resi disponibili il sabato pomeriggio dopo scuola. Mi hanno raccontato come l’Istituto, in vista del Covid, si è organizzato per poter garantire la sicurezza generale e dunque lo svolgimento delle lezioni in presenza; ma non solo questo, hanno anche fornito informazioni generali sulla scuola che potrebbero rivelarsi nuove ed inaspettate.

 

 

Presentazioni:

F. Mi chiamo Federico Marcolin, vengo dall’Istituto Kennedy di Monselice e frequento la terza A PROD Agraria (“PROD” sta per produzione e trasformazione). Sono appassionato di cinema; mi piacciono i videogiochi e i fumetti manga. Abito a Campagnola di Brugine.

T. Sono Zabeo Tommaso e frequento la terza PROD Agraria al Kennedy; mi piace disegnare ed abito a Campagnola di Brugine.

A. Allora io sono Asja, Asja con la “J” precisiamo, sennò morirete tutti. Abito a Bovolenta, un paesino famoso per le inondazioni. Sono una ballerina di hip hop, il ballo è la mia vita e mi piacciono i videogiochi, il teatro e basta… Sono nella stessa classe degli altri due, qui dietro.

T. Ah, e, posso aggiungere una cosa? Okay, Zabeo Tommaso, alto un metro e ottanta.

J. Questa informazione serve per rimorchiare?

T. Assolutamente sì.

 

 

J. Bene… direi di passare alle domande.

J. Ragazzi spiegate com’è strutturata la scuola, edificio, s’intende.

A. Il Kennedy è costituito da due edifici: la sede centrale e la nuova sede dell’Agrario.

T. L’ Agrario è figo: è fatto a semicerchio, sembra un castello e dal piano inferiore vedi il piano superiore. Tra la sede centrale e l’agrario c’è un passaggio dove stanno costruendo un’aiuola che curiamo durante il laboratorio di produzioni vegetali.

A. Abbiamo due palestre, una nuova ed una vecchia, e abbiamo anche un campo di atletica.

T. E le piscine, ma non ci andiamo…

J. Per via del Covid?

T. No, perché non vogliamo.

 

 

J. Okay, passiamo oltre. Date un parere su com’è l’istituto che frequentate e diteci cosa vi piace e non.

F. Ragazzi, la nostra scuola è assurda perché non ci sono le macchinette per il mangiare e perché sono tutti abbastanza irascibili. Insomma, calmatevi! Cioè non so… Cosa c’è di buono?

A. Il servizio psicologico e i laboratori.

T. Non ci andiamo, quindi…

F. Sì, insomma, non venite qua.

T. Ci sono delle belle serre, il frutteto, laboratori spaziosi anche se non abbastanza perché comunque le classi sono tutte numerose quindi non ci stanno dentro. Il personale è di scarsa qualità e…

J. Intendete l’ATA o…?

T. No, i professori. Sono tutti preparati, solo che, come dappertutto, ci sono i più e i meno bravi; per esempio quelli delle materie d’indirizzo sono molto competenti, gli altri un po’ meno. Ah, e poi sono sempre incavolati anche se stiamo buonissimi. Voto: una stella.

J. Ovviamente noi prendiamo in fiducia le parole di Tommaso dove afferma che sono tutti buonissimi e procediamo…

 

 

J. Bene, arriviamo alla parte clue dell’intervista: come sta vivendo il periodo Covid il Kennedy? Quindi restrizioni, mascherine, regole, se volete darci delle informazioni, se sapete… beh, ovvio che sapete, ci andate a scuola!

T. Io no.

J. Beh, se avete regole particolari, per esempio nei laboratori, dato che voi ne avete più di noi del Ferrari.

A. Allora, penso che ci siano delle regole in comune anche con voi, come per esempio le entrate scaglionate in diversi orari, l’obbligo della mascherina e di igienizzarsi le mani. Le aule vengono arieggiate a ricreazione, che svolgiamo in classe. Per quanto riguarda i laboratori le classi numerose vengono dimezzate.

T. Sì, anche l’anno scorso era così, però c’era il professore che mostrava come fare: noi non facevamo niente e non imparavamo nulla.

 

 

J. Passiamo ad una domanda che riguarda in particolare i ragazzi delle terze, delle quarte e delle quinte: i programmi PCTO e i crediti come ve li danno?

T. Non sappiamo nulla, non ci hanno spiegato niente. Sappiamo che abbiamo 400 ore di alternanza Scuola Lavoro…

A. Non erano 350?

T. Ci hanno consigliato di farle per lo più in terza e quarta e di finirle prima della quinta, così da poter studiare per l’esame.

A. Ma non erano 380? Sapete che se sbagliamo è colpa nostra.

F. Va beh, comunque ne abbiamo molte da fare.

 

 

J. Per quanto riguarda i progetti scolastici, ne farete? Gite? Incontri culturali?

F. Non ci mandano in gita perché tutti i professori ritengono che non siamo dei bravi studenti e che abbiamo un pessimo comportamento, anche se non è vero.

 

 

J. Ultima domanda: consigliereste ai giovani di venire al Kennedy?

T. Bello il Kennedy, anzi no! No, scherzo.

F. Di base è una bella scuola, quindi vi consiglio di almeno andarla a vedere… però, sinceramente viene pubblicizzata troppo bene.

A. Sono d’accordo.

J. Perfetto, ragazzi io vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato.

 

 

Inutile che vi dica che mi sono divertita molto a parlare con i tre compagni di classe, nonostante non siano gli argomenti che di solito trattiamo. È stato interessante conoscere certi particolari del Kennedy: per esempio l’esistenza delle serre, o la struttura dell’agrario, cose che, se non fosse stata per l’occasione, credo non avrei mai scoperto.

Comunque, sentendoli parlare delle loro regole e fornendoci le loro opinioni, mi sono sentita rassicurata dal fatto che le complicazioni e le regole ci sono per tutti quanti, e che possono rivelarsi pesanti, poco pratiche e a volte difficili da seguire, ma comunque necessarie per la salvaguardia comune.

Le mie speranze, condivise anche dai ragazzi, sono quelle di poter restare stabili in questa nuova normalità (basata sulle restrizioni accettabili almeno per noi giovani), soprattutto in inverno, dove di solito si alzano di molto il numero dei contagiati. Speriamo anche di tornare alla vecchia normalità, anche se, come è ormai evidente più o meno a tutti, la nostra vecchia realtà non tornerà più.

 

 

Jo, Giorgia Lazzaro 3CS

 

La prima volta al di là della cattedra

La maggior parte di noi almeno una volta nella vita ha riflettuto sulla professione dell’insegnante:

estate libera, possibilità di decidere le valutazioni degli studenti, domenica tranquilla e meno di venti

ore alla settimana di lavoro (ai prof che leggeranno quest’articolo: lo so, lo so, non è completamente

vero, ma per il momento facciamo finta che lo sia J). Qualcuno ha mai pensato, però, che cosa si

prova ad insegnare per la prima volta in tutta la vita in un liceo come il Ferrari, rinomato e conosciuto

proprio per le abilità e le competenze degli studenti in ambito umanistico, scientifico, linguistico e

artistico? Beh, proprio per far emergere le emozioni di chi si trova al di là della cattedra, ho deciso

di intervistare la professoressa Carafa, entrata da poco nel mondo di questa scuola…

 

 

Linda: Innanzitutto vorrei iniziare con una breve presentazione… da dove viene e perché ha deciso

di traferirsi a Este?

Prof.ssa Carafa: Mi chiamo Alessandra Carafa, vengo da un piccolo paese distante 30 km da Lecce,

la meravigliosa città barocca del Sud Italia, pertanto sono Salentina! Ho deciso di intraprendere la

strada dell’insegnamento proprio ad Este (e ringrazio l’IIS G.B. FERRARI per avermi accolta) perché

qui ho parte della mia famiglia e perché ho avuto modo, negli ultimi dieci anni, di visitare spesso

questa bellissima città, da cui sono rimasta affascinata.

 

 

L: Quale scuola secondaria di II grado ha frequentato quando aveva la nostra età?

P.C: Alla vostra età ero una studentessa del Liceo Classico “F. De Sanctis” di Manduria, terra del

famoso vino primitivo, a 15 km dal mio paese. Questo liceo mi ha insegnato tanto e spero di aver

lasciato anch’io un segno. Ogni mattina prendevo il treno da San Pancrazio Salentino, il mio paese,

sino a Manduria. La stazione era distante 2.5 km da scuola, ed il Comune non aveva fornito a noi

studenti un bus che ci accompagnasse fino al liceo, per cui io ed altri miei compagni, a volte con gli

zaini colmi di libri, ogni giorno percorrevamo quei chilometri sia per andare a scuola sia per tornare

a casa. I primi tempi eravamo tutti molto scoraggiati, perché quella strada pesava molto, soprattutto

nelle giornate fredde ed uggiose, tanto che qualcuno di noi, proprio per tale motivo, ha scelto di

ritirarsi da scuola. Solo successivamente abbiamo iniziato a comprendere quanto quei 5 km fossero

nulla in confronto a ciò che la scuola poteva offrirci, sia culturalmente che umanamente, ragion per

cui, col passare del tempo, quelle lunghe camminate di prima mattina diventavano sempre meno

stancanti, perché con noi e con i nostri zaini c’era tanta forza di volontà e tanta voglia d’imparare.

 

 

L: Quali erano le materie in cui si distingueva maggiormente o che le piacevano di più quando era al

liceo?

P.C: La materia che preferivo tra tutte era latino; mi piaceva sia la grammatica che la letteratura.

Trovavo grandi stimoli nelle versioni da tradurre (ogni volta i compiti in classe prevedevano una

versione ed io mi mettevo in competizione con me stessa, per superarmi rispetto alla volta

precedente) e trovavo grandi stimoli anche nello studiare il pensiero e le opere degli autori latini,

non a caso la mia tesi di laurea magistrale si è incentrata sullo studio della visione che Tito Maccio

Plauto aveva della donna romana.

 

 

L: Ha sempre voluto fare l’insegnante? Se sì, il suo obiettivo erano le Lettere Antiche o l’idea è

cresciuta con il passare degli anni?

P.C: Ho sempre voluto insegnare materie umanistiche, grazie ai miei docenti che mi hanno

trasmesso l’amore per queste discipline. Questa vocazione si è accentuata negli ultimi anni perché,

per ragioni economiche, ho dovuto alternare lo studio con il lavoro (tutt’altro lavoro!), il che ha reso

ancora più chiaro il mio scopo precipuo.

 

 

L: Quali sono state le sue prime impressioni una volta ottenuto il lavoro qui al Ferrari? Ma

soprattutto… quali sono state le sue prime impressioni una volta conosciuti gli studenti?

P.C: Le mie prime impressioni circa l’IIS G.B. FERRARI sono state e sono (poiché faccio parte di questa

grande famiglia ancora da poco) assolutamente positive. Il personale scolastico ed amministrativo

con cui ho avuto modo di interfacciarmi è stato fin da subito accogliente, attento e assolutamente

disponibile ad aiutarmi e chiarirmi qualsiasi dubbio. Ho percepito stima, collaborazione ed affetto

tra i colleghi. Le impressioni circa gli studenti hanno, con tutta sincerità, superato le mie aspettative.

Ho da subito conosciuto ragazzi “puliti”, dagli occhi vispi, smaniosi di apprendere, di studiare nuove

materie e di accrescere il loro spessore non solo culturale, ma anche umano.

 

 

L: Quali sono le sue paure o i suoi timori riguardo questo nuovo inizio?

P.C: La paura riguardo a questo nuovo inizio? Credo che ogni inizio generi, in tutti noi, la paura del

“non essere all’altezza”. Ho imparato, però, con gli anni, che tutti noi siamo all’altezza di ciò che

vogliamo fare, occorre solo trovare la giusta via per arrivarci, senza mai demordere. Il mio principale

timore è quello di non riuscire a far comprendere a voi ragazzi quanto sia importante studiare,

appassionarsi alle materie, essere curiosi, iniziare a creare il proprio pensiero critico. Sono certa,

però, che il rapporto che si sta instaurando con voi studenti e la vostra vivacità intellettiva consentirà

a noi di viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda e perseguire insieme questo scopo.

 

 

L: Secondo lei, riuscirà a trasmettere qualcosa ai suoi alunni?

P.C: Spero che riuscirò a trasmettere qualcosa. L’amore per questo lavoro e la voglia di fare bene mi

guideranno sicuramente.

 

 

L: Crede che rimarrà per molto tempo in questa scuola o l’idea di viaggiare la attrae maggiormente?

P.C: Il clima che avverto in questo istituto mi piace molto, per cui, se potessi scegliere, rimarrei molto

volentieri.

 

 

L: Vorrebbe cambiare qualcosa riguardo al modo di interagire con gli studenti? Dibattiti, attualità,

pensieri e quant’altro?

P.C: Essendo ancora alla mia prima esperienza ed ai miei primi giorni qui, so che il mio modo di

interagire con gli studenti maturerà giorno dopo giorno, conscia che il tempo che trascorreremo e

le lezioni che condivideremo, mi aiuteranno in questo ed aiuteranno anche loro.

 

 

L: Per finire, un’ultima domanda… preferisce trovarsi a scuola nel ruolo di studente o di docente?

P.C: Memore dei miei tanti sacrifici per conseguire la laurea, posso dire che preferisco essere una

docente, perché questo rappresenta il coronamento del mio sogno. Ho voglia, però, di fare un

appunto e dire che anche noi docenti continuiamo ad essere “studenti” … studiamo costantemente,

ci formiamo, ci mettiamo sempre in discussione per cercare i modi migliori non solo di impartirvi

nozioni, ma anche e soprattutto di farvi capire l’importanza dello studio per la vostra formazione

culturale ed umana. Noi professori impariamo costantemente da voi … e miglioriamo!

Ad maiora semper, ragazzi!

 

 

Linda De Checchi IAC

死神 – Shinigami

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皆さん、 こんにちは (Mina-san, konnichiwa. Buongiorno a tutti!) Cari lettori di Rompipagina,
come avrete notato, vi saluto in lingua giapponese, per permettervi di immergervi sin dalle prime
righe nell’atmosfera della storia che vorrei raccontarvi quest’oggi, che viene proprio dal lontano
Paese del Sol Levante. Il titolo di questo racconto è 死神 (shinigami), che si traduce come “dio della
morte”. Gli shinigami sono creature che hanno fatto il loro ingresso nella secolare mitologia
giapponese in tempi abbastanza recenti, probabilmente nel periodo Meiji (1868-1912) e, più che
essere simili a divinità, sono assimilabili a degli yōkai malvagi (creature soprannaturali, spettri o
demoni). Inoltre, c’è chi pensa che gli dei della morte non siano nemmeno originari del Giappone,
in quanto lì non vi sarebbe mai stato un vero e proprio culto della morte e nel Kojiki, la più antica
cronaca giapponese che si occupa di mitologia, non c’è traccia di essi. Gli shinigami sarebbero stati
importati dunque dalla Cina o dall’Europa e a causa delle loro origini incerte non si sa molto di queste
creature. Riconoscibili dalla loro carnagione grigio scuro, gli shinigami nascono e crescono in luoghi
dove si sente particolarmente la presenza del male, come zone dove si sono consumati delitti o
suicidi, e amano perseguitare gli umani facendo risuonare nella loro testa pensieri negativi. Si
possono considerare come degli psicopompi, dei traghettatori alla stregua del Caronte dantesco,
che portano con sé le anime dei vivi nell’aldilà.

 
Sarà forse questo alone di mistero che li avvolge ad aver incuriosito svariati autori di anime e di
manga fino al punto di portare gli dei della morte persino dentro alle loro opere, grazie alle quali
oggi sono conosciuti anche dal giovane pubblico occidentale. Io per primo ho conosciuto gli
shinigami attraverso il celebre manga intitolato Death Note, tuttavia, appassionandomi piano piano
alla cultura giapponese, ho capito che gli anime e gli stessi manga, seppure molto apprezzati in tutto
il mondo, sono, come si suol dire, la punta dell’iceberg. Alla base ci sono secoli e secoli di storia,
arte, credenze, usanze e tradizioni che hanno contribuito ad alimentare il mito del Giappone, queste
isole che ai nostri occhi sembrano quasi sfumare nelle dorate nebbie della lontananza. Tra gli aspetti
culturali più curiosi ritengo doveroso citare il teatro, anche perché è proprio da qui, per la precisione
dal genere 落語 (rakugo, letteralmente “parole cadute”), che arriva la storia di cui vi parlavo. Questo
genere consiste in un monologo comico in cui il rakugo-ka (il narratore) racconta una storia dai
caratteri farseschi sedendo sui talloni e inossando un semplice kimono. Affinché possiate godervi
meglio il racconto, vi chiedo, se volete, di immaginare che io sia il vostro rakugo-ka, pronto a narrare
in un meraviglioso teatro tradizionale di rakugo la storia. Fatto? じゃあ、 始めましょう (Jaa,
hajimemashō. Allora iniziamo!)

 
C’era una volta a Tōkyō un uomo. Niente lavoro, niente soldi, soltanto debiti, tanti debiti e una
moglie che non faceva altro che tormentarlo. “どうしよう。死にたい” (Dō shiyō. Shinitai. Che
cosa dovrei fare? Voglio morire!). A quel punto una voce lugubre irruppe dall’oscurità:” Se vuoi ti
spiego io come fare…Ma credo che sia inutile voler morire soltanto perché si è dei falliti. Gli umani
non possono morire a loro piacimento: devono prima aspettare che la loro vita si esaurisca e io, che
sono uno shinigami, posso dirti che la tua, di vita, è ancora molto lunga. Perché non ti trovi un lavoro,
invece? Che ne dici di diventare un dottore, per esempio?”. Stupito e indeciso, il pover’uomo disse
di non avere esperienza, che fare il medico è una responsabilità troppo grande per lui. Il dio della
morte, però, lo incoraggiò:” Quando una persona è malata, c’è uno shinigami nascosto vicino ai suoi
piedi o vicino alla sua testa. Io farò in modo che tu, umano, lo possa vedere, ma ricorda: se lo
shinigami è vicino ai piedi, tu potrai scacciarlo e far guarire i tuoi simili da qualsiasi malattia; se
invece si trova vicino alla testa, non potrai fare niente, perché significa che la loro vita è ormai giunta
al termine. In questo caso bada di non interferire con quel dio della morte, capito?”. “分かった 分
かった (Wakatta wakatta. Capito, capito)” – rispose l’uomo – “ma come faccio per far sparire lo
shinigami?”. Con un ghigno sinistro la creatura sussurrò:” Ti serve questa parola magica:
ajarakamokuren tekerettsu no paa! E poi ricorda di battere due volte le mani”. E allora l’uomo:” 簡
単ですよ (Kantan desu yo. È facile!)”. Divertito, ripeté la formula magica e in quell’istante lo
shinigami sparì: aveva funzionato.

 
Passarono un po’ di giorni e finalmente arrivò il primo paziente, che si portava dietro un simpatico
dio della morte vicino ai suoi piedi. Il novello dottore, compiaciuto, pronunciò l’incantesimo e fece
guarire il suo cliente e questo, non avendo mangiato per giorni a causa della malattia, dopo aver
pagato profumatamente il suo salvatore, si spazzolò un’intera porzione di tenpura. Miracolo! Anche
per le strade della città giungeva voce di quella guarigione prodigiosa e più che nuovi pazienti, si
recavano dal nostro “dottore” sempre più donne innamorate di lui, o meglio…del suo portafoglio.
Purtroppo, però, le cose non possono andare sempre per il verso giusto: i soldi prima o poi
spariscono e con loro le donne. Come se non bastasse, poi, tutti i malati che si rivolgevano a lui
avevano uno shinigami seduto vicino alla loro testa e quindi non aveva speranze di guadagno.

 
Una sera, improvvisamente, si presentò il servitore di un ricchissimo signore del posto che chiedeva
di guarire il suo padrone da una grave malattia; in cambio avrebbe dato al medico mille monete
d’oro. Il dottore accettò quell’offerta spropositata ma quando arrivò alla residenza del signore,
scoprì che c’era un dio della morte seduto vicino alla testa del malato. Non poteva fare nulla, ma
era talmente estasiato dall’idea di guadagnare così tanti soldi, che gli venne un’idea geniale. Dopo
aver aspettato per tutta la notte che gli occhi scintillanti dello shinigami si chiudessero per la
stanchezza, fece immediatamente ruotare il letto del paziente, che ora si trovava la creatura seduta
ai suoi piedi. E a quel punto un grido:” Ajarakamokuren tekerettsu no paa!”. Così, dopo aver battuto
due volte le mani, lo shinigami sparì in un grido sinistro che riecheggiava per la stanza. L’uomo
sentiva già il tintinnio delle mille monete d’oro e dopo aver realizzato di essere in grado di ingannare
a suo piacimento gli dei della morte scoppiò in una risata fragorosa, che venne interrotta soltanto
da un cupo “なぜ笑っている? (Naze waratteiru? Perché ridi?)”. Era il primo shinigami che
quell’uomo incontrò. “お久しぶり、 死神さん (Ohisashiburi, shinigami-san. Da quanto tempo,
signor shinigami!)” – rispose quello sorridente. Il dio della morte, al contrario, non sorrideva
affatto:” Mi sembrava di averti detto di non interferire per nessun motivo con uno shinigami seduto
vicino alla testa del malato. Così hai giocato con la durata vitale altrui! Pensi forse che voi umani
siate così speciali da poter giocare a fare gli dei? 一緒に来い (Isshoni koi. Vieni con me)”.
Nonostante il dottore, impaurito, non volesse seguire il dio, si trovò improvvisamente in un luogo
buio, illuminato da una miriade di candele. “Ogni candela” – spiegò lo shinigami – “è la durata vitale
di un umano”. Meravigliato, l’uomo notò immediatamente una candela che stava per spegnersi,
ormai con pochissima cera a disposizione, e chiese al dio se per caso fosse di un anziano che stava
per morire. “Invece è proprio la tua” – rispose – “Sai, prima la tua candela era quella lì dietro, bella
lunga e ancora piena di cera, ma quando hai fatto girare il letto del signore, hai fatto a cambio con
la sua, che è quella che hai ora. Hai venduto la tua vita per mille misere monete d’oro! Divertente,
vero?”. “Non voglio morire! No! Non voglio morire! Ti prego, restituiscimi la mia candela! Ti
supplico! Non voglio morire!”. “E va bene imbecille” – rispose scocciato lo shinigami – “Prendi
questa candela: se la accenderai con la tua vita, questa rappresenterà la tua nuova durata vitale. Ma
se la fiamma muore, tu morirai con lei”. “Nessun problema! Ora la accendo! Guarda qua, signor
shinigami! Ora lo faccio eh…”. “Oh guarda, si sta spegnendo”. “No, ti dico che ce la faccio!”. “Dai,
dai che si spegne!”. “No, no, guarda!”. “Sì, si spegne!”. “E invece no, ti dico, la sto accendend…”.”消
えた (Kieta. Si è spenta)”. Nell’esatto momento in cui dalla bocca dello shinigami uscì quella parola,
l’uomo che aveva giocato a fare il dio, cadde per terra senza vita in un tonfo sordo.

 
終わり(Owari. Fine). ここまで読んでくれて ありがとうございました (Koko made yonde kurete
arigatō gozaimashita. Grazie per aver letto fin qui).

 
Per chi fosse interessato, lascio due link per approfondire questo argomento:
– Esibizione del rakugo-ka Kyotaro Yanagiya: https://www.youtube.com/watch?v=P4PCds4tlT4
– Canzone del cantante Kenshi Yonezu: https://www.youtube.com/watch?v=8nxaZ69ElEc
またね (Matane. A presto!)

 

 

Filippo Fontan, 5AC

Respiro d’arte

Personalmente preferisco quelle opere artistiche a diretto contatto con gli spettatori. La gamma di produzione artistica dei nostri giorni raggiunge picchi ormai altissimi – e con arte intendo qualsiasi produzione creativa fatta per essere vista o consumata da un pubblico. Navigare in questo mare di tutto e di niente può essere sempre più fuorviante, e si finisce per immergersi ed uscirne con la testa riempita di così tante storie e immagini, che ormai l’unica cosa che ci rimane è l’indifferenza.

Motivo per il quale ho pensato di risparmiarvi la faticosa nuotata e di poter condividere oggi un singolo artista che possa accompagnarvi per la prossima settimana. Perché, diciamocelo, a chi non piace guardare qualcosa di bello?

Magari stimolare la curiosità con qualche “pizzicotto” d’arte contemporanea. Visto che non sono un critico e su Rompipagina non posso nemmeno condividere gli sticker di Sgarbi (ne ho almeno tre su Whatsapp, se volete) cercherò di portarvi solamente quello che ha attirato negli ultimi giorni i miei occhi assetati di cose belle.

 

Luo li Rong

La mélodie oubliée, Lui Li Rong
La mélodie oubliée, Luo Li Rong

Luo Li Rong, nata nel 1980 in Cina, ha studiato presso l’Accademia delle Arti Changsha. All’età di venti anni si è laureata con il massimo dei voti e la lode alla Beijing Central Academy of Art di Pechino. Dal 2005 si è trasferita in Francia e attualmente lavora e risiede stabilmente a Bruxelles, in Belgio. Alcune delle sue sculture sono state esposte ai giochi Olimpici di Pechino del 2008.

Quello che vi propongo oggi è “La mélodie oubliée” (letteralmente “La melodia dimenticata”), una scultura in bronzo realizzata nel 2007. L’arte di Luo li Rong si ispira a quella rinascimentale e barocca, in commisto alla purezza e semplicità della tradizione orientale.

Le sue opere artistiche sono l’emblema della bellezza e sensualità femminile. I soggetti assomigliano a fate e ninfe dei boschi, con i capelli mossi da una brezza leggera, gli sguardi fieri e le vesti rese estremamente realistiche, a riproporre il tulle accarezzato dal vento.

Rappresenta un punto d’incontro importante tra l’arte occidentale e orientale: da una parte il realismo e la tradizione classica dei nudi femminili, dall’altra la semplicità, la bellezza, la grazia tipiche delle stampe e dei disegni del lontano Oriente.

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È impossibile non rimanere estasiati dalla gentilezza delle forme e della composizione, dalla “melodia dimenticata” che sembra venir trasportata via dal vento. La sentite?

La mia assomiglia a flauti fauneschi, cinguettare d’uccellini e il lontano scroscio di un ruscello, ma chissà, questa musa potrebbe essere benissimo in grado di suonare le sinfonie più impensabili, e chi ci dice che dietro a quel volto grazioso e risoluto non si nasconda in realtà un’anima spietata e assassina alla Red Sparrow?

Se volete fare un viaggio tra fiabe e sogni dove le protagoniste sono donne danzati, vesti soffiate dal vento che si aprono a ventaglio, figure sospese in una lontana dimensione, allora le opere di Luo Li Rong sono proprio quello che vi serve – soprattutto quando la vita pesa incredibilmente sulle nostre spalle e abbiamo proprio bisogno di un po’ di sana leggerezza.

 

Nausika Celnikasi, 5Ac

Nintento: qualità trascurata, causa ingordigia

Ah, la grande Nintendo: una delle case produttrici di videogiochi migliori (forse anche LA migliore), madre dell’italiano baffuto conosciuto in tutto il mondo.
Ultimamente, però, le sue scelte di marketing sono molto discutibili: la grande N è convinta che, non importa il prezzo o la qualità del prodotto, le persone continueranno a comprare i loro giochi semplicemente perché quel determinato franchise fa parte della loro vita da molti anni e perciò ha un valore molto simbolico per tante persone.
Lasciate quindi che vi mostri il problema alla radice:

Super Mario 3D-All Stars

Super Mario 3D All Stars, la recensione: la rimasterizzazione non rende giustizia a tre giochi immortali | DDay.it

Super Mario: probabilmente il franchise più conosciuto di tutto il mondo e anche il più vecchio, che infatti ha raggiunto di recente i 35 anni. E appunto, per celebrare questa soglia, hanno deciso di fare una collezione dei tre 3D platformers più rinomati del franchise: Super Mario 64, Super Mario Sunshine e Super Mario Galaxy.
Le prime speculazioni su questo gioco risalgono a maggio 2020, con l’annuncio ufficiale nel settembre dello stesso anno, perciò i fan erano estasiati all’idea. Ciò che non ha altrettanto entusiasmato i fan sono stati il prezzo elevato e la produzione limitata al 31 marzo 2021, per non parlare della qualità: ovviamente si penserebbe che ci sarebbe dovuto essere un “rewamp” a tutti i giochi, come risoluzione migliore e risoluzione di molti dei bug presenti nei vari capitoli. Ebbene, la qualità è solamente migliorata di poco. La cosa che si può subito notare sono le proporzioni: mentre Super Mario Sunshine e Galaxy hanno proporzioni adattate per la Switch (16:9), 64, invece, no (rapporto 4:9), e sempre una risoluzione minore per quest’ultimo (Super Mario 64 a 720p, mentre Galaxy e Sunshine a 1080p); questi sono elementi che si potrebbero trascurare, perché alla fine 64 è un titolo abbastanza vecchio, ma comunque, con gli strumenti che la Nintendo possiede, avrebbero potuto fare di meglio. Altra cosa frustrante la troviamo in Super Mario Sunshine, nel quale, durante i primi mesi dopo l’uscita del gioco, non erano supportati i controlli del controller del Gamecube, consolle originale di Sunshine. Fortunatamente il problema è stato risolto dopo una patch del 16 Novembre, ma ciò non nasconde la frustrazione iniziale dei fan.
Tutto sommato il gioco non è male ed è un richiamo nostalgico per i fan più veterani o per far riscoprire un po’ di cultura videoludica ai più giovani aspiranti nerd, ma qui arriva il problema numero uno: il prezzo. Infatti il gioco costa 59,99 euro, ma quei soldi non li vale, perché ci sono stati davvero pochi cambiamenti (derivati solo dal porting per la Switch); più che un porting sembra più un’emulazione (cosa che la Nintendo stessa lotta contro da anni)!
Per darvi un’idea: altre collezioni di giochi, come Spyro: Reignited Trilogy o Crash Bandicoot: ‘Nsane Trilogy, hanno fatto un lavoro eccellente, trasformando in tono molto moderno giochi vecchi di vent’anni e tutto questo per 20 euro in meno di Super Mario 3D-All Stars! Questa è una prova che la Nintendo sfrutta i sentimenti che i fan provano per questi giochi per fare più soldi, tutto ciò anche enfatizzato dall’uscita limitata del gioco che mette pressione sul comprarlo il prima possibile.

Pokémon Spada e Scudo

Pokémon Spada e Scudo — Storia di una comunicazione tragica (e di un paio di bugie) - NintendOn

Pokémon è un altro franchise molto conosciuto, con una community altrettanto attiva. I giochi della linea principale sono stati più o meno tutti ben accolti. Quello che probabilmente non è stato quasi per niente ben accolto dalla community è di sicuro l’ultimo: Pokémon Spada e Scudo. Quello che ha fatto agitare così tanto i fan è stato il taglio di Pokémon e l’assenza di un Dex Nazionale che dovrebbe così prendere tutte le 898 specie di Pokémon. La scusa iniziale è stata l’impotenza della Switch di tenere quell’enorme quantità di Pokémon (che poi venne smentita dall’introduzione dei due DLC che aggiunsero fino a 820 Pokémon), ma non accettata dalla fan-base, perché il Nintendo 3DS, consolle portatile di generazione inferiore rispetto alla Switch, riusciva a tenere ben più di 750 Pokémon. La seconda scusa della Gamefreak è stata una concentrazione più sul miglioramento della qualità delle animazioni.
Qui vi lascio il link di un video che può parlare da sé:
https://youtu.be/I1mBKVcmASw

Questo video paragona le animazioni di Pokémon Colosseum (uno spin-off di un’azienda diversa dalla Gamefreak per Gamecube) e di Pokémon Scudo, che hanno una differenza di ben 16 anni d’età, e sono lontane ben 3 generazioni di consolle.
Se avete visto il video e siete ritornati qui, adesso io vi chiedo: secondo voi, erano di maggiore qualità quelle di Pokémon Colosseum o di Pokémon Spada/Scudo?
Vedete, quindi, come la Gamefreak ha pigramente messo insieme degli elementi minimali e li ha definiti come un miglioramento di qualità delle animazioni, lasciando un senso di “fatto in velocità all’ultimo momento” e la Gamefreak ha contato solo sull’amore dei fan per questo franchise e sul fatto che comprerebbero tutto ciò che la compagna della Nintendo produce.

 

Cristian Cavallaro