Scleranthus

“Per coloro che soffrono molto per l’incapacità di decidere fra due cose, considerando
giusta ora una ora l’altra, in particolare quando sono posti di fronte a due alternative
contrarie; per coloro che manifestano una carenza di equilibrio, data dalla loro
costante incertezza, celando notevoli conflitti interiori.”

Non credo sia veritiero affermare che da tutte le cadute ci si può rialzare. Può accadere di scivolare e poi alzarsi tranquillamente, dimenticandosi dell’accaduto, oppure di ammaccarsi un gomito, di sbucciarsi un ginocchio, di rompersi una gamba. Tutte ferite che con il tempo e con la cura possono cessare d’esistere, come è risaputo. Colui che si è scalfito dunque, anche se prova una dolorosa fatica, cerca in qualche modo di tirarsi su come gli è possibile e di raggiungere i soccorsi il prima possibile.

Se invece però si sprofonda in una stretta gola vertiginosa, soffocante e tetra da far perdere il senno, nulla si può fare per migliorare la situazione se non lasciarsi sopprimere dall’atmosfera di disperazione generale. Aspettando, in un primo momento con riluttanza, che qualcuno s’affretti ad accorgersi della scomparsa.


Quando nessuno si presenta, la realizzazione della scomoda verità viene alla luce e scalfisce come una lama affilata, che si ritorce nel petto mossa dal rancore. Prima appare rimorso, poi viene oppresso dal terrore, dalla paura di non riuscire a sopravvivere con le proprie forze, di non respirare mai più l’aria esterna che sa di
libertà. Così il corpo inizia a fremere, a sudare, a contorcersi in preda all’angoscia, perché viene al corrente del fatto che ogni tentativo è vano, che nemmeno graffiando le pareti di roccia fino a staccare le unghie si riuscirebbe a risalire da quella pozza di sconforto che dimostra la sua superiorità naturale. Si fanno grandi respiri, si cerca di calmare la mente sferzata dalla follia riportandola alla lucidità del riposo, eppure ciò è
impossibile da ottenere, in quanto l’irritante idea della speranza è sempre presente e non abbandona mai nessuno di noi. Si è divisi da due sentimenti contrastanti, da due correnti opposte che con la loro voce creano un frastuono tale da portare a desiderare un’infinita quiete che possa durare in eterno. Non sempre queste due emozioni sono qualcosa di intollerabile, spesso si associano a concetti semplici, come l’impegnarsi o il riposarsi, la perfezione e l’imperfezione, l’audacia e il timore.


Quelli che conosco meglio personalmente sono il vuoto e il pieno.


Il tutto e il niente, la presenza e l’assenza.


Il vuoto è una sensazione incredibilmente subdola, che si insinua all’interno dell’anima come una serpe indiavolata e inizia a nutrirsi di ciò che trova, riducendo al minimo ogni risorsa, privando d’ogni ricchezza interiore. L’attimo in cui ci si fa sopraffare da questo è quello in cui la negativa leggerezza lascia un quesito spinoso al nostro cervello. Che significato ha una vita senza un contenuto da elaborare, senza una base solida dalla quale partire? La risposta viene ricercata nel ripristino immediato ed avido della materia, temendo questa possa sparire come ha fatto in precedenza.
Eppure, una volta sazi, l’effetto tanto atteso non si presenta, anzi, lascia solo una gravosa pesantezza che si riflette sulla propria percezione. Ancorati al presente da un fardello insormontabile, cancellabile solo tramite la sua eliminazione totale.
Il cerchio ricomincia, ripetendo in successione questi due stati contrastati che lasciano solo una continua pena, la quale sembra non terminare mai. Ed i tormenti della mente prima o poi si proiettano su quelli della carne, coinvolgendola inevitabilmente nella propria afflizione. Nasce anche dalla frequente e banale noia, dalla sottile preoccupazione di non avere un vero e proprio significato in un mondo vasto e vario, dove vivono tante personalità forti dai numerosi talenti. Per colmare il buco s’ingerisce voracemente tutto ciò che si trova senza criterio, senza distinzione, spinti dall’unico desiderio di sentirsi pieni e realizzati. Tuttavia le conseguenze non si possono evitare, e neppure ignorare. Il peso ingente limita in ogni suo lato ed occupa con egoismo tutto lo spazio possibile, accumulandosi sempre di più ed occludendo anche le vie che dovrebbero essere lasciate libere. Arriva allora la necessità di lasciarsi cedere, di svuotarsi, di infilare due dita in bocca e farle scendere il più possibile giù per la gola, di rigurgitare il tutto, di rigettare non solo l’eccesso, ma anche l’essenziale. Infine, solo l’infelicità di una volontà tesa e in procinto di rottura a causa di due forze dalla stessa natura distruttiva.


Basterebbe solo raggiungere una stabilità, un equilibrio adatto tale da soddisfare, anche solo in minima parte, la fame umana di compiacimento personale. Malgrado ciò, anche l’armonia indica uno stato di staticità controproducente.


Nemmeno la sazietà potrà portarci alla pace interiore.


Non ce ne libereremo mai.


Non me ne libererò mai, e consumerò in eterno nel fondo di quella gola.

– Valentina Grigio, 3BL

Convivere con un mostro

Mi sveglio, mi alzo dal letto e come ogni mattina mi dirigo verso il bagno. Mi guardo allo specchio e mi faccio schifo; tiro fuori la bilancia, non sono ancora arrivata al mio obiettivo. Mi vesto, salto la colazione e vado a scuola, mi gira la testa ma ormai è abitudine, la pancia brontola da vuoto ma è una sensazione bellissima. A merenda mi nascondo in bagno, non voglio che nessuno mi veda mentre mangio il frutto. I sensi di colpa iniziano a farsi sentire, devo muovermi. A casa salto il pranzo, studio e cammino, ho male i piedi ma non posso fermarmi, devo anche andare in palestra. Torno da palestra, vado a letto e so che il giorno dopo sarà uguale. I medici sono preoccupati, non mi interessa, si stanno sbagliando, io sto bene, posso spingermi oltre. La dietista mi ha dato i nutri drink e spero che mamma non si accorga che li butto. Va tutto bene fino a che un giorno svengo a scuola e mi risveglio in ospedale con il sondino e le flebo. Non posso muovermi, mi sposto con la sedia a rotelle. In camera ho una ragazza che ha il problema contrario al mio, sono tanti anni che è dentro a questa malattia. Mi dispiace è una persona così dolce, le voglio bene, è speciale. Uscita dall’ospedale mi mandano in comunità, ci sto per tanti tanti mesi, non vedo i miei genitori mi mancano tanto però so che mi sostengono e che ogni mio piccolo traguardo è per loro una felicità enorme. In comunità conosco Niki, è una ragazza che soffre di anoressia nervosa atipica, è normopeso e quindi non è stata presa in considerazione per troppo tempo; i suoi esami sono critici, lei sta male. Un giorno vengo a scoprire dalle infermiere che Niki non ce l’ha fatta; il mio dolore è talmente forte che torno a isolarmi, continua ricadute, tentati suicidi, tagli sulla pelle, non voglio più vivere. Il peso scende, mi rimettono il sondino, smetto di bere, sto lasciando alla malattia di prendersi tutto di me. Torno a casa dopo mesi e scopro che anche la ragazza che era con me in ospedale non ce l’ha fatta. Capisco che così non posso continuare, oggi inizia la mia rinascita.

I disturbi alimentari non hanno un peso, si può stare male a qualunque BMI, però purtroppo si prendono in considerazione solo le persone sottopeso. I DCA sono malattie mentali e come tali non hanno un aspetto estetico, ci vuole tanta forza e un lavoro d’équipe per poter andare contro alla patologia. Non sono i numeri di ricoveri, l’avere o no il sondino, l’aver perso tanto peso o avere continue abbuffate per determinare la gravità di una persona. Tutti sono importanti e hanno bisogno di attenzione e di un percorso strutturato in maniera soggettiva. I casi sono in continuo aumento, ma le liste di attesa per la prima visita sono lunghissime; purtroppo l’ignoranza a riguardo è ancora tanta e troppo spesso le persone con DCA sono considerate capricciose. Non è così anzi, il disagio psicologico che è dentro ogni persona con disturbi alimentari è tanto e a volte anche un solo “ti sono vicina” è importante. C’è bisogno di un cambiamento, di una presa di coscienza e di vicinanza verso coloro che ogni giorno si svegliano e soffrono in silenzio. Il 15 marzo è la giornata del fiocchetto lilla ossia la giornata di prevenzione per i disturbi alimentari. Di DCA si può morire, facciamo in modo che non accada più, riduciamo le liste di attesa, siamo più vicini a coloro che soffrono, sosteniamoli, solo così possiamo fare la nostra parte.

– Giada Gambalonga, 5AL

Vale la pena immaginare la bellezza della vita, anche quando è buia

Nel bel mezzo della mia esistenza, ho danzato tra le ombre del tempo, un’illusione eterea che sfugge alle mani avidamente tese dell’eternità. La mia vita è un dipinto sospeso nel crepuscolo, un’eco fuggente nell’infinità. Sono nato tra le note di un breve rintocco, un sospiro effimero nel grande concerto della vita. I giorni si srotolano come fili d’argento in una tela tessuta con la delicatezza dell’effervescenza. Ogni risata, ogni lacrima, sono frammenti di un sogno sfuggente. Le stagioni si alternano come attori di una pièce celeste, e io, un protagonista di passaggio, sento il mio respiro come un sussurro sottile tra le pagine di un libro aperto al vento dell’oblio. Le mie mani tentano di trattenere le stelle, ma esse scivolano via come sabbia dorata tra le dita. Nella fugacità della mia esistenza, ogni incontro è un riflesso di un amore che si dissolve nell’aria come nebbia mattutina. Le strade che percorro sono sentieri effimeri, tracciati con l’inchiostro dei giorni che si dissolvono nell’oceano dell’inesorabile. Eppure, in questa illusione di vita breve, trovo bellezza nell’effimero, nell’arte di essere danza nell’abisso del tempo. La mia esistenza è un’ombra giocante sulla parete del destino, un’illusione incisa nell’anima di chi ha occhi per vedere la magia di un istante. Così, mentre la mia vita si scioglie come petali al vento, resto un viandante consapevole della meraviglia di ogni passo, un’illusione di vita che afferra la bellezza nel fugace abbraccio dell’eternità.

– Francesco Ferlito 1BS

27/01

Non poter uscire, non poter andare a scuola, non poter fare ciò che si vuole, non poter dire ciò che si vuole o ciò che si pensa, vivere divisi dal resto del mondo, con un segno distintivo come una stella, essere deportati ed essere separati dai propri cari, essere torturati e uccisi.

Il tutto perché? Perché arrivare a questo genere di barbarie? Perché arrivare ad uccidere milioni di persone? A separare famiglie, amici, vite.

Ne sono passati di anni dallo sterminio degli ebrei e pensiamo di essere migliorati, il che è vero, ma a volte vediamo episodi di discriminazione o violenza contro persone diverse da noi, ma non per questo meritevoli di ciò, e semplicemente non facciamo nulla.

Con questa piccola riflessione, proviamo tutti ad aprire un poco la mente, per evitare di ripetere errori simili.

 – Francesca Picelli, 1AL

I…

I’m tired, but I’m Jewish

I’ve got a family and children, but I’m Jewish

I’m a good citizen, but I’m Jewish

I’m a person that respects law, but I’m Jewish

I’m a mum, but I’m Jewish

I’m a dad, but I’m Jewish

I’m a child, but I’m Jewish

I’m a brilliant person, but I’m Jewish

Now I’m dead, but I’m happy that someone can remember me not as a deported but as a person with values and a heart.

 – Matilde Malaman, 1AL

15 Milioni di persone come noi

“Shoah” è un termine di origine ebraica, il cui significato è desolazione, disastro ma, soprattutto, catastrofe o tempesta devastante. Attraverso questa parola ricordiamo ogni anno, il 27 gennaio, il genocidio degli ebrei, ovvero lo sterminio e la persecuzione di una razza da parte delle autorità della Germania nazista. Comunemente si preferisce definire quest’atto disumano con tale termine, piuttosto che con “olocausto”, poiché esso definisce un sacrificio necessario ed inevitabile, ma non è così.

Raphael Lemkin, scrittore ed avvocato polacco, aveva definito il genocidio come un piano coordinato ed intenzionale per uccidere uno specifico gruppo individuato nella società come una minoranza, massacrandolo, distruggendolo e sterminandolo.

Il 1900 è stato un secolo ricco di genocidi e sicuramente ci si chiede perché si arrivi a tanto, ma soprattutto come si riesca a rendere un’intera popolazione il principale bersaglio della società. Fondamentalmente un genocidio non comincia mai con il massacro, ma si utilizza un’arma molto più potente: il linguaggio. Può sembrare banale, ma le parole sono armi taglienti e che possono ferire più di ogni altra cosa. Attraverso esse può crearsi il distanziamento sociale, poiché si inizia ad identificare l’altro con termini specifici che lo allontanano dalla massa e dalla comunità, quali “nero”, “ebreo”, “omosessuale” ecc.…

Proprio dal linguaggio inizia, così, la disumanizzazione dell’altro. Si mobilitano, poi, le masse, si sopprimono i diritti civili ed, infine, quando la categoria presa di mira non viene più vista come un gruppo di persone alla pari, ma come inferiori, si passa alla violenza fisica. Anche Hannah Arendt in “le origini del totalitarismo” affermò che prima è necessario disumanizzare l’altro dal punto di vista politico e linguistico e poi lo si può uccidere passando inosservati perché, nel mentre, l’opinione pubblica si sarà anestetizzata.

La parola “Shoah” descrive, purtroppo, una realtà complicata, triste, spaventosa e violenta. Ad ognuno di noi la morte sembra lontana, quasi estranea, finché non ci tocca personalmente, quindi è probabilmente impossibile o comunque molto difficile capire anche solo una misera parte del dolore che tutte quelle persone hanno provato nel momento in cui sono iniziate le persecuzioni.

La Shoah raccoglie i terribili ricordi e le distruttive testimonianze di tutti coloro che, da vittime, hanno partecipato a quell’orrore. Rende viva la memoria della paura provata quando le autorità si presentavano alla porta di casa, della rassegnazione e della tristezza provate sul treno di andata verso un campo di sterminio, delle lacrime versate nel momento della separazione dai propri cari, del dolore provato quando un numero sulla pelle sostituiva l’identità di ognuno dei deportati e della vergogna ed il disgusto nel farsi toccare, rasare, picchiare ed uccidere senza avere nessuna colpa, se non quella di essere nati “diversi”.

Per noi è così impensabile che una tale violenza sia stata compiuta, tanto che nemmeno lontanamente potremmo immaginarci uno scenario del genere nel mondo moderno, ma ciò che noi ora ripudiamo è accaduto in passato. Le grida dei bambini separati dai genitori, i pianti di disperazione di tutte quelle persone che speravano solo di poter tornare a casa sane e salve ma che, in realtà, sono morte proprio lì ed il sangue di tutte quelle vittime innocenti sono ancora racchiusi nella terra, negli edifici, nei crematori e nel filo spinato che delimitava il campo di concentramento.

Oggi più che mai ricordiamo tutte quelle vittime senza colpa che, senza distinzione tra bambini e anziani, uomini e donne, hanno subìto torture indicibili, hanno sofferto ardue ed estenuanti pene e sono state private di ciò che di più caro c’è al mondo: la vita.

Oggi più che mai continuiamo a ricordare, affinché la memoria di tutti coloro che hanno perso la vita in questo modo possa non essere mai tradita e affinché ciò che è successo in passato non accada più in futuro.

 – Rowena Polato, 5BL

Fiamme

Il corridoio non era mai stato così vuoto prima d’ora, cosa che creò una parvenza di sgomento dentro il cuore del Dottor V. Solitamente, tra qualche chiacchiera cordiale fatta insieme ai colleghi e piccoli discorsi pieni di irrequietezza dei pazienti, quel tratto dell’ospedale non cessava mai non solo d’essere abbastanza rumoroso, ma anche brulicante di persone, le quali entravano con il viso teso, consapevoli che non né sarebbero uscite né sollevate né serene. Quando si rese conto di quanto quelle mura dall’intonaco ormai rovinato potessero mettere in soggezione, deglutì della saliva che gli si era accumulata appena sotto la lingua ed affrettò il passo, cercando comunque di mantenere la sua classica imperturbabile apparenza distaccata. Nonostante ciò, non riuscì a tenere la testa alta e scrutarsi intorno come era solito fare, limitandosi ad appoggiare un piede dopo l’altro con una strana e non necessaria velocità. Sotto le suole delle scarpe, che si muovevano rapidamente, le mattonelle del pavimento parevano scorrere come se stessero ricoprendo una strada costante e infinita. All’estremità del corridoio, la grande finestra dai rivestimenti in legno di vecchia data che illuminava lievemente l’entrata di alcune stanze era socchiusa, sicché alcuni spiragli d’aria fredda erano riusciti ad insinuarsi all’interno ed a raggelare l’ambiente. Quella mattina le previsioni del tempo avevano previsto una meravigliosa giornata di sole, accompagnata da una identica serena serata; eppure, ormai giunto l’imbrunire, fuori dall’edificio il cielo si faceva sempre più minaccioso. Grandi e voluminosi banchi di nuvole grigie e tetre, cariche di pioggia, si aggiravano nei dintorni insieme ad un forte vento. Questo improvviso cambiamento incutè ulteriore timore nell’uomo, che ora tentava di non rabbrividire a causa della temperatura troppo bassa, in quanto sembrava quasi che la natura stessa si stesse sfogando contro il mondo. Il suo cuore iniziò a pompare sangue con più intensità, battendo con un’energia spaventosa all’interno della sua cassa toracica, quasi nel tentativo di scapparne. Il ritmico susseguirsi frenetico dei suoi battiti venne interrotto dal colpo secco di qualcosa che cadde a terra in un singolo istante. Girò gli occhi e notò un lungo bastone dalla terminazione ricurva e alcune venature scure sulla sua lunghezza, che doveva sicuramente essere l’artefice di quel fulmineo rumore. Qualche secondo dopo, una mano rugosa venne protesa alla ricerca del manico, che afferrò saldamente, portando a sé l’intero oggetto con una certa tranquillità. Si trattava di un signore con pochi capelli, che indossava una semplice giacchina di lana dai colori smarriti con dei pantaloni di materiale rigido, che probabilmente gli erano di difficoltà nel movimento vista l’età. L’anziano non appariva né vigile né tantomeno spaventato; una volta recuperato il suo attrezzo, né appoggiò la punta a terra per testare che fosse ancora ben saldo dopo la caduta, e dopo essersene accertato, avanzò con qualche passo insicuro, senza però dimostrare tempestività nel volersene andare da quel luogo. Probabilmente si sarebbe diretto calmamente verso la sua stanza per riposare, per bere una bevanda calda osservando la tempesta. Prima di sparire dalla vista del dottore, gli fece un breve cenno di saluto con il capo. Quest’ultimo si chiese se fosse veramente l’unico a percepire l’alone di sciagura che si aggirava in quel momento nell’ospedale, e come fosse possibile che tutto potesse scorrere in modo tal normale da essere altrettanto agghiacciante. L’uomo trasse un respiro profondo e tentò di calmare i nervi solo quando realizzò di essere finalmente giunto di fronte alla stanza corretta, dentro la quale si trovava l’ultima paziente che gli era stata assegnata per il giorno.

La camera riportava un cartellino di riconoscimento direttamente fissato al di sopra del capostipite della porta, che recitava “Numero 2511”.

Quando varcò la soglia dell’entrata in un unico, veloce movimento, intuì con precisione la fonte dello sconforto generale della natura. Davanti ai suoi occhi, sbigottiti e afflitti da tale raccapricciante scena, giaceva quello che gli appariva un cadavere. Il dottor V si portò al volto una mano tremolante e con i polpastrelli si stropicciò le palpebre chiuse non una, ma ben due volte prima di concedersi un secondo sguardo. Ora ciò che gli si presentava davanti era diverso rispetto a quanto osservato in precedenza, ma solo di qualche lieve sfumatura, come il fatto che il corpo, posizionato sopra ad un misero e gelido lettino di metallo, ancora riuscisse a muovere irregolarmente il petto secondo il proprio ritmo respiratorio. Se non fosse stato per la sua ampia esperienza in ambito medico, avrebbe probabilmente vomitato all’istante, nemmeno dando il tempo al cervello di processare le informazioni appena viste e rigettando copiosamente a terra con conati strozzati. Fortunatamente per lui, non era il suo primo contatto con un individuo in condizioni così rischiose. Si trattava di una donna, sicuramente di giovane età, dal corpo esile e di media altezza; ma dell’energia, della gioia, della bellezza della gioventù nulla era ancora visibile dentro a quella carne. Un misero lenzuolo di cotone, macchiato di sangue rappreso, le copriva il busto a malapena grazie ai suoi bordi rovinati, quasi stracciati, sotto i quali si potevano vedere dolorose bolle dal colore giallastro sulla superficie della pelle violacea, tendente al marrone. Queste continuavano ad espandersi, sempre più ripugnanti, per tutta la lunghezza delle gambe e verso le spalle, dove improvvisamente scomparivano per lasciare spazio ad una fascia di cute completamente carbonizzata. Le braccia, lasciate stendersi in maniera molle accanto ai fianchi, erano ancora celate da degli esigui residui di stoffa bruciata; nell’incavo presente tra una spalla e l’altra, piccole gocce di sangue vivo cadevano una dopo l’altra, dopo essere colate giù dalla guancia sinistra, dove era presente un profondo taglio che percorreva la linea dello zigomo. Nonostante ormai la carne fosse ridotta ad un infelice ammasso bruciato, ancora continuava a scorrere imperterrito, a dimostrazione che non fosse stata ferita in quel modo una ormai carcassa, senza speranze, ma un essere umano ancora capace di provvedere alla propria sopravvivenza. Quando quella meschina mano si era avvolta attorno al suo minuto collo, lasciandoci quella impronta rossa che ancora era visibile tra le ustioni, era consapevole; anzi, desiderosa di privare quella innocente anima d’una esistenza che avrebbe potuto prosperare meravigliosamente, ch’ora, come un campo arido e sterile, giaceva inerme nella sua incapacità di poter continuare a produrre nuovi frutti, di poter far rinascere il bocciolo della vita all’interno di sé. Eppure, nascosta nelle profondità più oscure dell’organismo di quella ragazza, ancora una fievole speranza combatteva per continuare a farla respirare anche un singolo istante ancora, aggrappata saldamente alla fragile stabilità di cui poteva godere per il momento. Però il Dottor V poteva vedere benissimo il modo in cui l’anima stava cercando di ritirarsi sempre di più, vergognosa, desiderosa di nascondersi dall’occhio altrui a causa dell’infamia ricevuta. I suoi piccoli occhi immobili guardavano un quadro appeso alla parete, bagnati da grosse lacrime che era impossibile da constatare se fossero di dolore, di tristezza o di rabbia. Dentro la cornice, al centro d’una scena cupa e lugubre che solo un letto di morte può avere, un’entità minacciosa vestita di nero si abbassava il cappuccio scuro, rivelando un volto lucente, dai tratti angelici, e tendeva la mano alla malata che, spaventata, si ritraeva con terrore. L’uomo si domandò se stesse implorando il fato d’essere affetta dalla stessa sorte.

Dolce e serena scorreva l’acqua dal limpido aspetto. Più tempo passava, più la sua temperatura continuava ad abbassarsi, ed il suo piacevole tepore si dileguava per lasciare posto ad un freddo innaturale. Le sue lievi oscillazioni non erano nemmeno degne d’essere notate, così deboli che la loro forza poteva essere considerata totalmente trascurabile, tanto calma da non riuscire nemmeno a spostare il corpo che si trovava ormai quasi sommerso in essa. Il liquido trasparente, muovendosi lentamente e con imprecisione, andava a coprire e lavare il sangue e lo sporco dalla pelle nuda della giovane, la quale non aveva altra scelta se non sprofondare sempre di più verso l’abisso che si trovava sotto di lei, sebbene nessuna corrente d’aria la stesse trascinando con la sua furia distruttiva. Si lasciò trasportare dal corso del bacino finché il livello dell’acqua non ebbe quasi raggiunto le sue narici; in un attimo fulmineo, quasi ad indicare l’attimo decisivo, una serie di strazianti ricordi le attraversarono la mente uno dopo l’altro. Memorie che per quanto vicine potessero essere sembravano distare miglia dallo spiacevole presente, ombra d’una vigorosa realtà passata, quando dentro di lei ancora ardevano l’impeto e il fervore d’una ragazza che mai avrebbe potuto aspirare ad altro se non il proprio bene. La sua unica ma fatale colpa, quella di desiderare una vita spensierata, contornata dalla tranquillità e dall’amore che ogni individuo merita di ricevere. Il momento stesso in cui la scura sostanza irritante s’era accesa, e lei era riuscita a cogliere il ghigno maligno sul volto dell’infame aggressore, in cenere non erano andati solo i semplici vestiti, che tanto facilmente si erano lasciati incendiare, ma con loro anche l’entusiasmo che solo una determinazione forte può conservare. Insieme a sogni, aspirazioni e promesse andate in fumo, si era spenta la sua volontà, ridotta in brandelli dalle spietate fiamme, lasciandola sola ad annegare in un gelido pozzo di triste acqua stagnante. Immobile si lasciò togliere il respiro, abbandonandosi ad un destino che avrebbe potuto essere combattuto con delle energie e una speranza che non le appartenevano più. Affondò, portando con sé quello che era stata e che non avrebbe mai potuto essere nuovamente, senza un minimo di rimorso per la sua scelta.

Valentina Grigio, 3BL.

SIMBOLOGIA, ASPETTI e RIFERIMENTI

  1. Dottor V: la lettera V, se osservata, può indicare sia i genitali maschili che femminili, così che il protagonista della storia si trovi in una posizione neutrale.
  2. L’ambientazione: serve ad aiutare il lettore ad entrare nell’ottica corretta ed iniziare a sospettare della sciagura che verrà in seguito.
  3. L’anziano: rappresenta il modo in cui la massa non bada alle gravi situazioni se non se le trova di fronte. A confronto con il protagonista, rappresenta la stoltezza e il menefreghismo della società.
  4. Numero della stanza “2511”: data della giornata contro la violenza sulle donne.
  5. Quadro alla parete: ispirato all’opera “L’angelo della morte” di Horace Vernet e rivisitato in chiave da rispettare l’andamento della storia.
  6. Il pozzo d’acqua: il luogo astratto che ospita l’anima della giovane morente in contrapposizione con il fuoco (sia materiale che effimero).
  7. Climax crescente e decrescente: il climax della lunghezza del testo è decrescente, in quanto inizialmente si dilunga in dettagli per poi compattarsi alla fine. Quello dell’intensità contenutistica invece parte scarsamente e finisce con pesantezza.

Cara la mia ragazzina

Sei ancora piccola cara la mia ragazzina, i primi avvertimenti: “stai attenta, guarda dove vai, non parlare con gli sconosciuti!”

Generali regole di vita, per femmine e per maschi

Cresci, “non indossare quello, sei sicura di volerti vestire proprio così?”

Ti affacci alla società, non ci dai molta importanza però, non ne comprendi la gravità, è giusto.

Notizie alla TV, “povera ragazza, lui va punito”, un normale crimine, omicidio, uno come tanti.

Cresci ancora, “mamma, ma perché sono uccise così tante donne? Cos’è lo stupro?”, come possono essere questi i discorsi di una ragazzina di appena 11 anni?

Bellissima questa età: esci con le amiche, incontri il tuo primo amore, pensi che duri per sempre e ti senti grande.

Ti stai formando, le tue prime curve! Ne sei così felice, sei DONNA!

Non lo noti solo tu, ma anche loro.

Un fischio di là, un altro di qua, tutto normale, succede sempre, cosa vuoi che sia?

Cara la mia piccola ragazzina, hai scoperto cos’è una molestia.

Non lo capiscono, è un concetto astruso e difficile comprendere un semplice “NO NON VOGLIO, NON MI PIACE!”

La tua volontà, la nostra non conta, se “la carne è carne” si è giustificati.

“Ultime notizie: donna uccisa dal fidanzato! Donna stuprata da un ragazzo!”

Diventano tutti attivisti, tutti ne parlano; telegiornali, politici, giornalisti, ma dopo un mese il rumore è più silenzioso.

Tanto casino, tante frasi che si ripetono uguali da anni. Mai una volta però che siano ascoltate e capite da tutti: si commettono sempre gli stessi errori.

“Anche lei comunque ha colpa, lo ha provocato, come si era vestita? SE L’È CERCATA!”

Ho sempre una domanda, la stessa domanda quando sento qualcuno dire ciò: sul serio pensate che cambi le cose il modo in cui ci vestiamo?

Siamo noi stesse colpevoli di ciò che non vogliamo per un vestito troppo attillato, o una gonna troppo corta?

Una volta ero in bici, sudata fradicia, tornavo da un’uscita, era inverno.

Dei ragazzi mi fischiano.

Come spiegate adesso? Secondo voi avevo un vestito addosso? una gonna corta? profumavo?

No

Non deve esserci UNA giornata contro la violenza sulle donne, ma ogni giorno dovrebbe esserlo.

Il caso di Giulia è l’ennesima dimostrazione che la società non funziona, non è diverso dagli altri, la sostanza è sempre quella: una donna è stata uccisa per la possessività e per l’ossessione dell’ex compagno.

“Non sono tutti così”

è vero, ma aiutami, dimmi di chi mi posso fidare, ti prego, AIUTO! Ormai non lo so più e non lo sai neanche tu.

Cari ragazzi, pensate prima di agire. E non con gli ormoni, ma con la testa, non siamo oggetti, siamo persone.

Ed ecco, cara la mia ragazzina, questa è la società patriarcale in cui viviamo.

“Mamma, ma io non voglio più crescere”

Purtroppo, però, alcune volte, neanche quando siamo piccole siamo al sicuro

Eppure devi sempre essere fiera di essere donna

“Perché?”

Perché da secoli lottiamo, ma non ci arrendiamo mai.

– Anonimo

490 anni e 0 cambiamenti

<<NO!>> Un rifiuto, una negazione, un impedimento, una semplice parola, ma che molte volte viene ignorata, non ascoltata e minimizzata. Una barriera, uno scudo, un riparo che viene infranto e un limite che viene spesso oltrepassato. Una bolla di cristallo frantumata in mille pezzi da oppressione, gelosia, manipolazione e mai più
riparabile, nemmeno con il perdono.
L’amore non è possesso, non è restrizione e non è una prigione, ma purtroppo non tutti lo comprendono. Fin da tempi remoti esistono le cosiddette “relazioni tossiche”, dalle quali, purtroppo, molte donne non riuscirono a liberarsi. Donne che hanno subito e tuttora subiscono violenza di tipo fisico e psichico, donne che hanno
vissuto e vivono nell’ombra della paura, e purtroppo donne alle quali è stata tolta la libertà di vivere.
Barbara, Sofia, Francesca, Teresa, Giulia sono solo pochi nomi dei centocinque casi di femminicidio che solo nel 2023 coprirono poco a poco l’Italia di terrore e che videro molte donne come loro spegnersi per sempre.
Donne considerate come un oggetto, un qualcosa da raggiungere a qualsiasi costo, costrette in questo modo alla perenne fuga da atteggiamenti di soffocamento, prepotenza e costrizione, caratteristiche di una storia che negli anni si ripete e si ripete, ma non cambia mai, e che negli uomini colpevoli di tali atrocità sono tutte presenti.<Non esci vestita cosi!>>,<<Fammi vedere il telefono!>>,<<Dove credi di andare?>>.
In poche parole non riuscire a ricevere un rifiuto alle loro richieste, non essere in grado di vivere una relazione paritaria, senza prigionie e divieti, senza violenza, senza minacce non appartiene a questi ultimi, che di essere chiamati umani non ne hanno il merito.
Moltissime ragazze e donne nel corso della storia fino ai nostri giorni si trovarono a fuggire, cercare riparo da quello che, nonostante fosse definito tale, non era AMORE.
Perché uno schiaffo non corrisponde ad una carezza, un pugno non è un bacio e un’offesa non significa “ti amo”.

– Anonimo

Colpevole di amare

Né più tornerai a casa tu, colpevole di amare,

né troverai la fiamma accesa del camino,

né altri troveranno il biglietto in cui scrivesti

“Ti voglio bene” prima di uscire.

Nei tuoi occhi il sole, la luce:

una maschera rossa li ha coperti,

una mano sola è bastata a serrarli.

Bambina mia, chi ha fatto questo?

La tua sedia è fredda,

il tuo letto è impolverato,

la mensola da cui prendesti un libro quel sabato mattina è vuota,

il silenzio urla.

Bambina mia, dove l’hai lasciato quel libro?

Dove l’hai lasciato, che lo rimetto al suo posto?

Bambina mia, perché ti sento piangere?

C’è uno scatolone in camera tua,

e tanti vestiti in esso:

rosso, rosso e ancora rosso,

il tuo colore preferito, ti si addice.

Anche il tuo collo è rosso,

i tuoi occhi pesti,

e le mani tremano come foglie.

I calzini minuscoli che portavi da piccola sono ancora là,

se mai vorrai venire a riprenderteli.

È da tanto che non ti vedo, bambina mia,

dove sei?

– Anna Desolei

25 novembre

Stop violence: break the silence
No màs violencia: rompe el silencio
Stopp die Gewalt: brecht das Schweigen


Il giorno 25 novembre viene ricordato ciò che non bisognerebbe mai dimenticare.
La Treccani definisce la violenza come tendenza abituale a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale.
Spesso le donne sottovalutano quei segnali tipici di violenza, tanto fisica come psicologica.
Ne sono un esempio le numerose vittime, che ogni giorno vivono con il timore dell’uomo che hanno accanto.
“Mi fa piacere che sia un po’ geloso, vuol dire che ci tiene”: Domenica Caligiuri, accoltellata a 71 anni dal marito per gelosia.
“Non sto più bene con lui, voglio separarmi”: Nadia Zanatta, uccisa a 57 anni perché aveva intenzione di separarsi.
“Sono solo delle sue paranoie, gli passeranno”: Valentina Di Mauro, uccisa a 32 anni dal marito per accuse di tradimento.
“Mi dispiace che abbiamo litigato, però mi fa paura, ho bisogno di chiamare i carabinieri”: Silvana Arena, trovata a 74 anni dai carabinieri in fin di vita con delle ferite alla testa.
“Papà dormiamo insieme oggi?”: Laura Russo 11 anni, uccisa dal padre a coltellate nel sonno.
“Mi ha tradita, adesso gli parlo io”: Giulia Tramontano, uccisa dal ragazzo con 37 coltellate, cerca di sbarazzarsi del corpo e lo nasconde dietro un muro. Incinta di 7 mesi.
“Mi dispiace che il mio ex stia male per me”: Giulia Cecchettin, uccisa a 22 anni dal suo ex ragazzo.
Queste tragiche fini avvengono e sono avvenute in tutte le epoche.
Riportiamo l’ esempio di Artemisia Gentileschi, una pittrice italiana seicentesca della scuola di Caravaggio, la quale è stata abusata da Agostino Tassi, artista amico del padre.
Tutto ciò per dire che è da tempo che le donne combattono in favore dei loro diritti, al fine di limitare la violenza di genere.
La denuncia è sicuramente il metodo più efficace.
Tuttavia non è sempre facile dichiarare a viso aperto ciò che si prova, spesso per paura di non essere credute o di non essere aiutate o per vergogna. Sicuramente però parlarne è indispensabile.


Die Gewalt ist nicht die Lösung.
“No” no es solo una palabra.
¡Cuando es no es no!

True love doesn’t humiliate, trample or betray.
True love doesn’t scream, beat or kill.

Frammenti di un cuore violentato

“Ormai queste sensazioni si sono radicate nella sua mente come una filastrocca:
il rombo del motore mentre la macchina si parcheggia,
il suono della porta d’ingresso che si chiude,
il ritmo dei suoi passi…
Guarda furtivamente attraverso lo spioncino:
non è un ospite o uno sconosciuto, peccato…
È una persona familiare,
eppure non capisce quanto mi faccia soffrire.
Vorrei che trovasse il coraggio di rispondere, ma sembra incapace anche di fuggire…
Lei, con un cuore impotente e vile come il mio, non merita tutto ciò,
inizio a sentire anche io la pelle bruciare, nonostante sia protetto dentro di lei,
nascosto dietro il suo corpo vestito di lividi.
Perché sento anch’io le ferite? Sono state così profonde da raggiungermi…?
È arrivato. Ora devo farle fare la brava, altrimenti soffrirò ancora.”


25 Novembre, Giornata contro la violenza sulle donne
La giornata internazionale contro la violenza sulle donne è celebrata il 25 novembre di ogni anno. Questa giornata ha l’obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica riguardo alla violenza di genere e promuovere azioni concrete per combatterla.
La storia di questa giornata risale al 1981, quando le attiviste del movimento femminista delle Repubblica Dominicana hanno proposto di dedicare una giornata per commemorare le sorelle Mirabal, tre donne attiviste che sono state assassinate il 25 novembre 1960.
Nel 1999, l’assemblea generale delle Nazioni Unite ha ufficialmente designato il 25 novembre come la giornata internazionale contro la violenza sulle donne.
La giornata serve ad evidenziare la necessità di porre fine a tutte le forme di violenza contro le donne, comprese violenze domestiche, stupri e molestie sessuali.
La storia della giornata internazionale contro la violenza sulle donne ci ricorda che la lotta per i diritti delle donne e contro la violenza di genere è ancora in corso, motivata da continui avvenimenti odierni. È un momento per unire le forze, far accrescere la consapevolezza e lavorare insieme per costruire un mondo in cui tutte le donne possano vivere in sicurezza, libertà e rispetto.
– Rigotti Angelica 3ASA

Silenzio

Silenzio.
Femminicidi.
Cosa succede?


11 anni sono passati…
Quando mi guardo allo specchio
vedo una ragazza con tanta forza,
con la forza di aver parlato.


Mi guardo e dico: “brava, ce l’hai fatta!”
Aver raccontato a mamma cosa mi era successo
di quei giorni da bambina infranti,
di quelle parole e di quei gesti,
abuso,
famiglia…


25 novembre,
“giornata mondiale contro la violenza sulle donne” sì,
ma non solo quel giorno.
tutti i giorni bisogna ricordalo,
ricordare di non toccare mai una donna.


viviamo in una società bigotta e di mente medioevale,
dove la donna è ancora soggetta a stupri,
omicidi,
violenze
di qualsiasi tipo.


Stereotipi ignoranti,
che pensano tutti allo stesso modo,
che pensano l’uomo più forte.


No, non è più forte,
nessuno dei due è più forte dell’altro:
siamo tutti alla pari.
La legge dovrebbe eguagliarci,
ma non fa altro che distinguerci invece,
ogni giorno.


La paura di camminare da sole,
per strada,
ovunque.


11 anni fa,
una bambina di 6 anni
abusata,
fisicamente e verbalmente,
da un familiare.


Paura di parlare,
di non essere compresa,
di essere presa per bugiarda,
quello che succede quasi ogni giorno.


Certi uomini non accettano la divisione,
non sanno stare da soli.


Un insulto costante è violenza psicologica.


Schiaffi,
urla,
litigi
e infine?
Omicidio.


Cosa risolvi?
Una vita in meno per aver fatto cosa?
Perché sei stato lasciato?


Paura costante,
commenti fuori posto per strada,
fischi come ai cani,
stupro.


Paura di denunciare,
di parlare,
di avere giustizia.
Perché già si sanno le conseguenze
e giustizia non viene fatta.

– Deborah Zagolin 4CA

Donne

Donne,

Allora?

Un altro femminicidio?

Quanti sono stati?

105 in tutto nel 2023.

Più del 2022

e di molti anni passati.

Vergogna!

Dov’è la giustizia?

Donne violentate,

donne picchiate,

donne uccise

ma da chi?

Da uomini che non accettano cosa?

Una separazione,

un rifiuto.

Donne che hanno paura

di andare in giro da sole,

di sentirsi seguite,

di dire di no.

Giulia…

Un’altra anima,

adesso?

Un’altra donna verrà uccisa?

Dov’è la giustizia?

Dov’è la ragione?

Non solo femminicidi,

anche stupri

e violenza di ogni tipo.

Siamo stanche.

un minuto di silenzio?

MAI PIÙ SILENZIO!

Ci vuole voce!

Dare voce a ciò che accade!

Riuscire a parlare!

Parlare di ciò che sta succedendo

qualsiasi cosa sia.

Fare il concreto, non il superficiale!

Capire che tutti siamo coinvolti.

L’indifferenza è la peggior cosa.

Giustizia!

Per le povere donne vittime.

Giustizia!

per mettere l’uguaglianza prima di tutto.

Questo dimostra che l’articolo 3 della costituzione non si legge abbastanza. Non lo si applica.

Ricordiamocelo.

105 donne.

Cos’altro ci dobbiamo aspettare?

Per favore basta!

È una vergogna,

lo sappiamo tutti.

Giustizia!

– Deborah Zagolin 4CA

25

Fa che sia l’ultima

Non è amore se alza le mani: la violenza non fa parte dell’amore.

Amore è colui che ti protegge, colui che ti tiene per mano e ti porta in un luogo lontano e migliore di questo, colui che ti accarezza per asciugare le lacrime durante un periodo buio, colui che ti ama e deve amarti ogni giorno della sua vita. La violenza è una malattia da debellare, non bisogna accontentarsi di stare accanto ad una persona che non ci piace per paura di rimaner soli. Se quella persona non vuole che ci vestiamo scollate, non vuole che usciamo con le nostre amiche, non vuole che parliamo con una persona, non vuole che parliamo in un certo modo, non vuole che facciamo qualcosa per urtarla,

allora forse non è la persona giusta per noi.

Oggi è la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.

Non può però bastare un giorno di memoria. C’è bisogno di agire ogni giorno, ovunque, per sconfiggere questo crimine odioso frutto di una cultura misogina. Uguaglianza di genere, riconoscimento dei diritti e dei ruoli nelle comunità, nei luoghi di lavoro e di produzione.

Mi sorge però un dubbio,

come sono cresciuti questi uomini che si permettono di mancare di rispetto, di usare violenza o addirittura di uccidere le donne che gli sono accanto? Le donne che li hanno amati, le madri dei loro figli. Cosa hanno insegnato loro le madri? E i loro padri?

Ecco, partiamo da qui. Partiamo dall’educazione in famiglia, partiamo dall’educazione dei figli. Insegniamo loro il rispetto, l’amore, insegniamo loro che una persona non ci appartiene solo perché l’amiamo, spieghiamo loro cos’è la libertà, la costruzione di un rapporto, la parità in un rapporto, l’impegno.

Molti ragazzi al giorno d’oggi ritengono che i femministi siano coloro che privilegiano la donna, come se fosse matriarcato. Il femminismo è movimento che mira all’uguaglianza sociale dei diritti, di entrambi i sessi.

“Noi non viviamo più in un mondo maschilista, sei tu che ti monti la testa e pensi di essere sottovalutata”.

Qualche giorno fa un ragazzo mi scrisse questo messaggio. Quotidianamente mi sento sopraffatta da discorsi fatti da giovani adolescenti che sottovalutano le donne pensando che sia “divertente”.

Ogni anno in Italia le donne vengono assassinate, molestate e stuprate. Vengono uccise per mano di uomini che volevano possederle fino a volerle addirittura cancellare dalla faccia della terra: “o con me, o con nessun altro”.

Lo Stato italiano non fa nulla per evitare ciò, anzi, identifica questo fenomeno con la parolina ‘emergenza’. Sì esatto, la chiamo un’emergenza, eppure mi sembra che nessuno si sia mai mosso per fare veramente qualcosa di concreto, mi pare che nessuno si sia allarmato all’ultima notizia su un femminicidio.

La chiamano emergenza, ma nessuno si preoccupa mai della denuncia che sporge una donna sotto molestie.

La chiamano un’emergenza sui giornali, ma nella pagina dopo scrivono casi di cronaca sui delitti passionali. È un’ emergenza, come quando non ti aspetti che succeda.

Ma ditemi davvero, voi non ve l’aspettate un altro femminicidio nei prossimi giorni?

Qualche giorno fa è venuta a galla la notizia di Giulia Cecchettin, giovane ragazza di 22 anni che frequentava la facoltà d’ingegneria all’università Ca’ Foscari di Venezia. Giulia, uscita con l’intento di chiarire con l’ex ragazzo Filippo, scompare la sera del 13 novembre. Vengono rinvenute delle tracce di sangue di fronte al marciapiede di una fabbrica. Filippo, un semplice ragazzo di 22 anni, stava per laurearsi anche lui nella facoltà d’ingegneria, un ragazzo malato o magari troppo geloso? È proprio questo il dubbio che sorge in tutti noi, Giulia ha avuto qualche segnale? Giulia è stata avvisata prima di questo comportamento possessivo e maniacale da parte dell’ex fidanzato? Purtroppo non possiamo darci una risposta concreta, possiamo solamente essere certi che, nonostante le speranze da parte di tutta Italia che i due fossero fuggiti da questa società intrinseca, il 18 novembre è rinvenuto il corpo della giovane ragazza; abbandonata giù da un cavalcavia nei pressi del lago di Barcis, dopo essere stata accoltellata ben 20 volte e avvolta tra sacchi neri. Ma Filippo Turetta è davvero un bravo ragazzo come lo descrive il padre? Per quale motivo 20 volte? Che cosa ha fatto questa giovane per meritarsi questo?

Nella speranza che sia l’ultima, nella speranza che giovani donne possano aprire gli occhi e mollare prima la presa.

A Giulia un grande abbraccio ad un’amica ed una compaesana, ti è stata tolta la possibilità di diventare una donna meravigliosa e realizzare i tuoi sogni.

La mia dedica da donna a tutti coloro che leggeranno questa lettera, qualunque sia il vostro carattere, il vostro vissuto e la vostra vera essenza, vi sono vicina oggi non più di tutti gli altri giorni dell’anno.

– Mariavittoria Castaldelli 3BL

Giulia

There was a girl a couple of years older than me
She was killed by her boyfriend last week
And I’ve been awake since I knew about it
Cause it hurts even if I didn’t know her


She was gentle, pretty and sweet
Just like an angel fallen from the sky
She was about to finish her degree
But he shattered all her dreams


How can someone who says to love you so much hurts you so hard, it’s something I’ll never understand
How can someone take your life when you just don’t feel fine, does love turn us into monsters?
And I feel so blue for all the pain she’s been through
Hope she feels better in heaven light as feather
Wish we could’ve save you


He took her to a place where no one could find them
Stabbed her so hard to vent all his anger
Then drove thousands miles trying to escape
From the ghost he left in that lake


How can someone who says to love you so much hurts you so hard, it something I’ll never understand
How can someone take your life when you just don’t fell fine, does love turn us into a monsters?
And I feel so blue for all the pain she’s been through
Hope she feels better in heaven light as feather
Wish we could’ve save you


Why did we make these mistakes?
Was our mind built in the wrong way?
Why do we think we have so much power
On women who are just trying to escape?
From all the control we crave
From the abuses we make
From all the damage we create
As a men I feel so ashamed


If you’re not feeling safe
It’s not wrong to run away
If you think this is just a phase
Just know that this is not how love is supposed to be
I feel so blue for all the pain she’s been through
I’m sorry I couldn’t save you


– Edoardo Cogo 5AC

25/11

Sembra capiti a pennello il tragico evento di Giulia, in modo da farci aprire gli occhi: la giornata di oggi è ancora fondamentale e dovrebbe essere ricordata ogni giorno.

“Non tutti gli uomini”,

però tutte le donne.

<<Molestia>> pungente sensazione di disagio, tale da alterare le normali caratteristiche di uno stato, di un’azione o di un comportamento, provocata da fattori o agenti interni o esterni, oggettivamente ostili o sentiti come tali.

Tutte le mie amiche sono state molestate, così come la mia parrucchiera, mia mamma, le zie e probabilmente anche la panettiera sotto casa tua. così come io lo sono stata.

È una parola sconveniente detta da uno sconosciuto sui mezzi pubblici, un uomo che, guardandoti mentre stai in piedi di fronte a lui, finisce a masturbarsi sul tram, un signore di mezza età che commenta le tue forme e le apprezza esplicitamente davanti a te.

<<Violenza >> qualsiasi atto che provoca, o può provocare, danno fisico, sessuale o psicologico, comprese le minacce di violenza, la coercizione e la deprivazione arbitraria della libertà, sia nella vita pubblica che privata”.

È una stretta troppo forte al braccio durante una litigata, il tuo ragazzo che ti proibisce di vestirti in un certo modo o di uscire in certi posti, uno schiaffo, un linguaggio disdicevole.

Non tutti gli uomini sono così, ma tutte le donne sono o saranno vittime.

non è una guerra contro gli uomini, non si deve fare di tutta l’erba un fascio.

Con questa giornata si vuole combattere contro il patriarcato e contro questa “cultura” del possesso e dello stupro.

È davvero importante educare.

Educate voi stessi e poi insegnate agli altri.

A quel tuo amico troppo possessivo con la fidanzata, a quello che fa sentire troppo a disagio le tue compagne di classe quando scrivono alla lavagna. Non ci si può girare dall’altra parte quando il problema è qui di fronte a noi, nella quotidianità.

Tutti possono essere vittime di violenze e molestie; purtroppo e per fortuna però, i numeri non sono paragonabili: la violenza contro le donne è un fenomeno sistematico nella nostra società.

Chiedi a un tuo amico, ad esempio, se qualche donna lo ha mai fissato in autobus, fino a sbavare con un sorriso compiaciuto. o se mentre ballava con gli amici in discoteca, una ragazza ha mai cominciato ad insistere fino a toccarlo in parti intime e private.

domandagli se ha mai dovuto rinunciare ad andare a bere qualcosa in compagnia, solo perché c’era un lungo tratto nascosto e poco illuminato da percorrere a piedi.

Non è colpa degli uomini, ma del patriarcato.

Dobbiamo educare le generazioni vecchie, nuove e future: la donna non è un oggetto, non Va posseduta, scartata, usata, ripresa e dimenticata.

La violenza non è solo fisica, ma anche verbale.

L’abuso non è solo sessuale, ma anche psicologico.

Una donna non è cosa. e soprattutto non è cosa tua.

La violenza spesso nasce non perché una persona sia particolarmente disturbata, ma proprio perché è convinta di trovarsi davanti ad un oggetto.

Di poterlo possedere e decidere per questo.

Questo deve cambiare e dovremmo aiutarci ogni giorno a capirlo.

– Matilde Martinelli 5AC