15 Milioni di persone come noi

“Shoah” è un termine di origine ebraica, il cui significato è desolazione, disastro ma, soprattutto, catastrofe o tempesta devastante. Attraverso questa parola ricordiamo ogni anno, il 27 gennaio, il genocidio degli ebrei, ovvero lo sterminio e la persecuzione di una razza da parte delle autorità della Germania nazista. Comunemente si preferisce definire quest’atto disumano con tale termine, piuttosto che con “olocausto”, poiché esso definisce un sacrificio necessario ed inevitabile, ma non è così.

Raphael Lemkin, scrittore ed avvocato polacco, aveva definito il genocidio come un piano coordinato ed intenzionale per uccidere uno specifico gruppo individuato nella società come una minoranza, massacrandolo, distruggendolo e sterminandolo.

Il 1900 è stato un secolo ricco di genocidi e sicuramente ci si chiede perché si arrivi a tanto, ma soprattutto come si riesca a rendere un’intera popolazione il principale bersaglio della società. Fondamentalmente un genocidio non comincia mai con il massacro, ma si utilizza un’arma molto più potente: il linguaggio. Può sembrare banale, ma le parole sono armi taglienti e che possono ferire più di ogni altra cosa. Attraverso esse può crearsi il distanziamento sociale, poiché si inizia ad identificare l’altro con termini specifici che lo allontanano dalla massa e dalla comunità, quali “nero”, “ebreo”, “omosessuale” ecc.…

Proprio dal linguaggio inizia, così, la disumanizzazione dell’altro. Si mobilitano, poi, le masse, si sopprimono i diritti civili ed, infine, quando la categoria presa di mira non viene più vista come un gruppo di persone alla pari, ma come inferiori, si passa alla violenza fisica. Anche Hannah Arendt in “le origini del totalitarismo” affermò che prima è necessario disumanizzare l’altro dal punto di vista politico e linguistico e poi lo si può uccidere passando inosservati perché, nel mentre, l’opinione pubblica si sarà anestetizzata.

La parola “Shoah” descrive, purtroppo, una realtà complicata, triste, spaventosa e violenta. Ad ognuno di noi la morte sembra lontana, quasi estranea, finché non ci tocca personalmente, quindi è probabilmente impossibile o comunque molto difficile capire anche solo una misera parte del dolore che tutte quelle persone hanno provato nel momento in cui sono iniziate le persecuzioni.

La Shoah raccoglie i terribili ricordi e le distruttive testimonianze di tutti coloro che, da vittime, hanno partecipato a quell’orrore. Rende viva la memoria della paura provata quando le autorità si presentavano alla porta di casa, della rassegnazione e della tristezza provate sul treno di andata verso un campo di sterminio, delle lacrime versate nel momento della separazione dai propri cari, del dolore provato quando un numero sulla pelle sostituiva l’identità di ognuno dei deportati e della vergogna ed il disgusto nel farsi toccare, rasare, picchiare ed uccidere senza avere nessuna colpa, se non quella di essere nati “diversi”.

Per noi è così impensabile che una tale violenza sia stata compiuta, tanto che nemmeno lontanamente potremmo immaginarci uno scenario del genere nel mondo moderno, ma ciò che noi ora ripudiamo è accaduto in passato. Le grida dei bambini separati dai genitori, i pianti di disperazione di tutte quelle persone che speravano solo di poter tornare a casa sane e salve ma che, in realtà, sono morte proprio lì ed il sangue di tutte quelle vittime innocenti sono ancora racchiusi nella terra, negli edifici, nei crematori e nel filo spinato che delimitava il campo di concentramento.

Oggi più che mai ricordiamo tutte quelle vittime senza colpa che, senza distinzione tra bambini e anziani, uomini e donne, hanno subìto torture indicibili, hanno sofferto ardue ed estenuanti pene e sono state private di ciò che di più caro c’è al mondo: la vita.

Oggi più che mai continuiamo a ricordare, affinché la memoria di tutti coloro che hanno perso la vita in questo modo possa non essere mai tradita e affinché ciò che è successo in passato non accada più in futuro.

 – Rowena Polato, 5BL