Scleranthus

“Per coloro che soffrono molto per l’incapacità di decidere fra due cose, considerando
giusta ora una ora l’altra, in particolare quando sono posti di fronte a due alternative
contrarie; per coloro che manifestano una carenza di equilibrio, data dalla loro
costante incertezza, celando notevoli conflitti interiori.”

Non credo sia veritiero affermare che da tutte le cadute ci si può rialzare. Può accadere di scivolare e poi alzarsi tranquillamente, dimenticandosi dell’accaduto, oppure di ammaccarsi un gomito, di sbucciarsi un ginocchio, di rompersi una gamba. Tutte ferite che con il tempo e con la cura possono cessare d’esistere, come è risaputo. Colui che si è scalfito dunque, anche se prova una dolorosa fatica, cerca in qualche modo di tirarsi su come gli è possibile e di raggiungere i soccorsi il prima possibile.

Se invece però si sprofonda in una stretta gola vertiginosa, soffocante e tetra da far perdere il senno, nulla si può fare per migliorare la situazione se non lasciarsi sopprimere dall’atmosfera di disperazione generale. Aspettando, in un primo momento con riluttanza, che qualcuno s’affretti ad accorgersi della scomparsa.


Quando nessuno si presenta, la realizzazione della scomoda verità viene alla luce e scalfisce come una lama affilata, che si ritorce nel petto mossa dal rancore. Prima appare rimorso, poi viene oppresso dal terrore, dalla paura di non riuscire a sopravvivere con le proprie forze, di non respirare mai più l’aria esterna che sa di
libertà. Così il corpo inizia a fremere, a sudare, a contorcersi in preda all’angoscia, perché viene al corrente del fatto che ogni tentativo è vano, che nemmeno graffiando le pareti di roccia fino a staccare le unghie si riuscirebbe a risalire da quella pozza di sconforto che dimostra la sua superiorità naturale. Si fanno grandi respiri, si cerca di calmare la mente sferzata dalla follia riportandola alla lucidità del riposo, eppure ciò è
impossibile da ottenere, in quanto l’irritante idea della speranza è sempre presente e non abbandona mai nessuno di noi. Si è divisi da due sentimenti contrastanti, da due correnti opposte che con la loro voce creano un frastuono tale da portare a desiderare un’infinita quiete che possa durare in eterno. Non sempre queste due emozioni sono qualcosa di intollerabile, spesso si associano a concetti semplici, come l’impegnarsi o il riposarsi, la perfezione e l’imperfezione, l’audacia e il timore.


Quelli che conosco meglio personalmente sono il vuoto e il pieno.


Il tutto e il niente, la presenza e l’assenza.


Il vuoto è una sensazione incredibilmente subdola, che si insinua all’interno dell’anima come una serpe indiavolata e inizia a nutrirsi di ciò che trova, riducendo al minimo ogni risorsa, privando d’ogni ricchezza interiore. L’attimo in cui ci si fa sopraffare da questo è quello in cui la negativa leggerezza lascia un quesito spinoso al nostro cervello. Che significato ha una vita senza un contenuto da elaborare, senza una base solida dalla quale partire? La risposta viene ricercata nel ripristino immediato ed avido della materia, temendo questa possa sparire come ha fatto in precedenza.
Eppure, una volta sazi, l’effetto tanto atteso non si presenta, anzi, lascia solo una gravosa pesantezza che si riflette sulla propria percezione. Ancorati al presente da un fardello insormontabile, cancellabile solo tramite la sua eliminazione totale.
Il cerchio ricomincia, ripetendo in successione questi due stati contrastati che lasciano solo una continua pena, la quale sembra non terminare mai. Ed i tormenti della mente prima o poi si proiettano su quelli della carne, coinvolgendola inevitabilmente nella propria afflizione. Nasce anche dalla frequente e banale noia, dalla sottile preoccupazione di non avere un vero e proprio significato in un mondo vasto e vario, dove vivono tante personalità forti dai numerosi talenti. Per colmare il buco s’ingerisce voracemente tutto ciò che si trova senza criterio, senza distinzione, spinti dall’unico desiderio di sentirsi pieni e realizzati. Tuttavia le conseguenze non si possono evitare, e neppure ignorare. Il peso ingente limita in ogni suo lato ed occupa con egoismo tutto lo spazio possibile, accumulandosi sempre di più ed occludendo anche le vie che dovrebbero essere lasciate libere. Arriva allora la necessità di lasciarsi cedere, di svuotarsi, di infilare due dita in bocca e farle scendere il più possibile giù per la gola, di rigurgitare il tutto, di rigettare non solo l’eccesso, ma anche l’essenziale. Infine, solo l’infelicità di una volontà tesa e in procinto di rottura a causa di due forze dalla stessa natura distruttiva.


Basterebbe solo raggiungere una stabilità, un equilibrio adatto tale da soddisfare, anche solo in minima parte, la fame umana di compiacimento personale. Malgrado ciò, anche l’armonia indica uno stato di staticità controproducente.


Nemmeno la sazietà potrà portarci alla pace interiore.


Non ce ne libereremo mai.


Non me ne libererò mai, e consumerò in eterno nel fondo di quella gola.

– Valentina Grigio, 3BL