Basta!

1069 sono le vittime di mafia dal 1861 a oggi: bambini, anziani, uomini e donne. Alcuni uccisi solo per vendetta, altri perché si sono opposti al regime mafioso. 133 le donne, 115 i bambini. 168 le vittime prima del 1961, 16 le vittime innocenti dell’ultimo anno. Perché tutto questo? Perché deve andare avanti così?
21 marzo. Il ritorno, almeno sul calendario, della primavera, simbolo di vita e rinascita, ma oggi non è solo la rinascita della natura, è anche la giornata in cui ci si impegna in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. “Parlatene della mafia. Parlatene alla radio, in televisione, sui giornali. Però parlatene.” questo diceva Paolo Borsellino, magistrato siciliano che dedicò la sua vita alla lotta contro le mafie insieme al collega e amico Giovanni Falcone, entrambi persero la vita per questo scopo e questa è la mia intenzione: scriverne.
Oggi non si ricorda solo chi, come Falcone e Borsellino, ha perso la vita per sconfiggere le mafie, ma anche
tutti quelli che sono morti con loro a Capaci o in via D’Amelio, quelli che sono morti perché si sono ribellati
al sistema mafioso, quelli la cui unica colpa era essere parente di un nemico della mafia e soprattutto quelli
che di colpe non ne avevano: donne e bambini uccisi da proiettili vaganti. Ma i proiettili non vagano da soli.
Serve sempre qualcuno che spari e, indipendentemente dal motivo, è sbagliato.
Mafia, Camorra, ‘ndrangheta, Cosa nostra, Sacra corona unita, Mala del Brenta… tutti nomi per la stessa cosa: la criminalità organizzata. L’organizzazione è capillare, raggiunge ogni minimo centimetro quadrato dell’area in cui agisce e la non collaborazione si traduce in morte.
Bisogna però saper reagire. Bisogna opporsi.
Non tutti abbiamo lo stesso coraggio dei già citati Falcone e Borsellino o di Antonino Caponnetto, del generale Dalla Chiesa, di Rocco Chinnici. Ma basta poco. Basta il coraggio di opporsi a un torto, magari anche una cosa definita come “cosa da poco”, ma è importante perché è dalle piccole azioni quotidiane che iniziano le grandi rivoluzioni.
Mafia è violenza ma è anche omertà, il silenzio sulle azioni scorrette a cui si assiste. Il problema è che questo fenomeno è troppo diffuso, in particolare tra noi giovani, Facciamo un esempio: per aiutare il compagno, si fa copiare, e chi vede questo, spesso non lo riferisce all’insegnante, diventando “colpevole” tanto quanto chi copia e chi fa copiare. Probabilmente questo atto sarà fine a sé stesso, ma se non si interviene su queste piccole azioni sin da subito la situazione potrebbe peggiorare fino a diventare altra criminalità organizzata. So che è una visione drastica delle cose, ma d’altronde come dalle piccole buone azioni nascono le rivoluzioni, da tutti gli atti di ingiustizia o di illegalità nascono i grandi problemi di questo mondo.
Ultimamente “mafia” è una parola che si è sentita spesso in televisione, grazie al recente arresto di Matteo Messina Denaro che, però, è solo un minuscolo traguardo rispetto all’immensità della mafia. Infatti, lui era uno dei boss di Cosa nostra, ma probabilmente prima dell’arresto aveva già “passato il testimone” all’erede successivo. Però, bisogna continuare a combattere per gli ideali di quanti sono morti difendendo la giustizia per un mondo libero dalla mafia. “Gli uomini passano, le idee restano” diceva Giovanni Falcone, ma oltre che restare, devono restare vive e alimentare l’umanità che è dentro tutti noi. La mafia magari non commette più omicidi eclatanti, le stragi, ma continua a esistere ed esiste in tutto il mondo, non solo in Sicilia o nel Sud Italia. Esiste nel traffico di migranti, esiste nel mercato della droga, esiste nella corruzione politica, esiste.
E questo deve smettere di essere vero.
Bisogna combattere la mafia, magari c’è, tra chi leggerà quest’articolo, qualcuno che un giorno avrà una carriera politica, e in quel ruolo dovrà farsi valere contro la mafia e la corruzione. Ma tutti dobbiamo combatterla quotidianamente, contrastando le ingiustizie e l’omertà.
“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una volta sola” – Paolo Borsellino
I nomi e i numeri si possono trovare nel sito di “LIBERA” https://vivi.libera.it/
Pietro Grosselle, 3BSA

La caduta

Ogni giorno,
ogni volta
Ti sento, ti ascolto.
E ci ricado dentro.


All’inizio la discesa è sempre rosea
lenta,
dolce.
Quasi piacevole.


Ma poi si mostra per ciò che è realmente:
un buco oscuro,
pieno di occhi giudizievoli,
commenti acidi
e cuori agonizzanti.
E lì, il terrore mi investe completamente.


Ogni volta mi perdo nella tua fitta nebbia, nella tua incessante tempesta,

cercando disperatamente un’uscita che mai apparirà.


Ma ormai sto iniziando ad incespicare, sto perdendo le speranze.
Sono stanca.


Stanca di continuare questo cammino che non sta portando a nulla.
Stanca di provare e provare e provare, fallendo ogni volta.
Stanca di questo nulla che ogni giorno mi scava e distrugge il cuore.
Stanca di avvertire quel peso sullo stomaco a causa dell’ansia.
Stanca della solita sequenza di vane medicine che devo ricordare ogni giorno.
Sono stanca di questa lenta e torturante agonia.
Stanca di questo corpo, di questa vita.


Un senso di sfinimento sovrumano sta ormai prendendo il controllo.
Stavolta, non so se avrò abbastanza forza per combattere.
Warr;or

75190

27 gennaio, Giorno della Memoria, conosciuto da tutti, ma capito da quanti?

Accadeva nel 1935, approvata l’emanazione delle Leggi di Norimberga, a partire dalla Germania vennero riconosciute diverse proposte e soluzioni per isolare gli ebrei.

Dopo la perdita della loro cittadinanza, gli ebrei si trovarono costretti a farsi da parte, a nascondersi, a celare le loro origini e il loro stesso essere. Come sostenuto nel “Mein Kampf” scritto da Adolf Hitler tredici anni prima, gli ebrei vennero riconosciuti come il male assoluto e la loro eliminazione dalla società divenne sempre più concreta.

Quest’odio ingiustificato ed eticamente scorretto culminò nella notte tra il 9 e il 10 novembre 1938, la Notte dei Cristalli, l’esistenza ebraica in Germania venne tassativamente rifiutata: oltre mille sinagoghe vennero bruciate, più di settemilacinquecento negozi e proprietà vennero rasi al suolo, la gioventù di Hitler, Hitler-Jugend, prese il sopravvento. Quella notte vennero uccisi migliaia di ebrei, senza distinzione: uomini, donne, bambini.

Ma è questo, essere umani?

Più di trentamila ebrei vennero deportati nei campi di concentramento: orrende strutture che impedivano di avere una vita degna di questo nome. Ombre, come definite da Primo Levi in “Se questo è un uomo”, esseri, non più persone, che lavoravano giorno e notte a ritmi strazianti, senza nulla in cambio se non dolore, ma con la sola speranza, se resisteva nel tempo, che qualcuno potesse liberarli. Paradossalmente non era questo il peggio, dopo ore, giorni, mesi, anni di lavoro forzato e non retribuito lo stato fisico e mentale degli ebrei deportati, a questo punto definibili veri e propri mezzi di produzione, era completamente distrutto. Persone annientate, identità frantumate vennero definitivamente stroncate negli orridi campi di sterminio. Non più in grado di lavorare gli ebrei venivano uccisi uno dopo l’altro, senza le minime reazioni internazionali.

Oltre agli ebrei vennero perseguitati anche gruppi di minoranze etniche, popolazioni slave, afro-tedeschi, portatori di handicap fisici o mentali e omosessuali; pur di difendere quella che era definita la razza ariana.

Fortunatamente nel 1945 migliaia di soldati americani, assieme ai loro alleati, riuscirono a porre fine a questa tragedia, definita Olocausto.

Il termine ebraico Shoah (ovvero “sciagura, catastrofe”) venne attribuito assieme all’appellativo Olocausto a questo evento drammatico che portò alla morte di più di quindici milioni di innocenti. Di fatto, però, il termine Olocausto è errato, poiché presuppone che la morte sia un’offerta per la divinità; questa definizione non corrisponde al termine Shoah che indica, invece, più correttamente, l’omicidio programmatico di una determinata categoria.

Qual è il senso e lo scopo della Giornata della Memoria? È la difficile domanda che ci siamo posti. Oggi, 27 gennaio, ricordiamo questa tragica serie di eventi, ma non ne celebriamo la fine; anzi, confidando in una pace duratura nel tempo, cerchiamo di sensibilizzare tutti il più possibile per far sì che nulla del genere si possa più verificare. Anche se, in questo periodo storico, la pace è ben distante dall’essere reale.

Si cerca dunque di passare il messaggio di anno in anno, di generazione in generazione, ricordando il dolore di milioni di vittime, che persero tutto: la loro casa e i loro averi, i loro cari, ma soprattutto la loro identità e la loro vita, che fino all’ultimo istante di quelle tormentate esistenze, si limitarono ad un semplice numero, proprio come il titolo del nostro articolo.

Andrea Rosato 3CL

Pietro Grosselle 3BSA

La scuola agli antipodi

I vari sistemi scolastici internazionali mi hanno sempre incuriosito. Sarà forse per la mia voglia di confronto, ma trovo un certo fascino nel comprendere come ogni Paese basi e organizzi l’insegnamento e l’istruzione dei giovani. E in fondo, credo che interessi un po’ a tutti, dato la grande mole di argomenti su cui ogni studente, sono sicura, vorrebbe discutere, riguardante il sistema sistema scolastico italiano.

Poco tempo fa, perciò, ho avuto la fortuna di trovare l’opportunità giusta al momento giusto, e grazie al prezioso aiuto di Emma, una mia cara amica, sono riuscita a parlare con Kelly, una ragazza australiana, venuta qui in Italia qualche mese fa e che ora frequenta una scuola italiana. Dalla nostra chiacchierata è nata la breve intervista sotto riportata, e che spero possa interessarvi.

So, Kelly, my first question is: what do you think of the school here in Italy?

I like it, it’s different from my school in Australia, but it’s a great experience. Everybody is so kind, so friendly, but it’s a bit hard beause I don’t speak Italian. In Australia it’s a lot easier because I don’t struggle with the language, but in Italy, for example, sometimes I can’t pay attention because I don’t understand anything.

And do the teachers help you with the language, somehow?

They all do, somebody more than others. There are some teachers who explain in Italian first, and then they tell me what they said in English, and I like it because it is really heplful. I’m learning Italian right now, but I can’t handle an entire lesson yet.

Yeah, and what about lessons? Are they the same as in Australia?

Ok, so in Australia is not exactly the same. We don’t go to school on Saturday, and we have six hours of school every day.

Oh, so you never have lunch at school?

Yes, we have lunch at school. We have a 30 minute lunch break, and the lessons last 50 minutes each.

And what do you study in class? Are the subjects the same as in Italy?

Mh, I think so. We study subjets like maths, P.E. and other subjects that I’m studying now in Italy, in Primary and Middle school. Then we can decide what we want to study next, and I think you do this in Italy too. The only thing that changes is that we have 6 years of primary school, 3 of middle school and 4 of high school. Oh, actually, in Australia I studyed Japanese as my second language, but here I’m learning Spanish, so…

Japanese? Wow, really? Well, last thing (this doesn’t actually matter but I’m curious) do you have classes in Australia where you move in every hour, like in the U.S.A., or is it like in Italy?

We don’t have classes, we only have one, but actually we move to a different class for Japanese or Science lessons sometimes.

Ci siamo divertite a fare questa chiaccherata, io, Kelly ed Emma, che mi ha aiutata quando la mia carenza di vocabolario si faceva sentire. Tra una passeggiata e un cappuccino abbiamo tirato fuori aneddoti che hanno incuriosito entrambe le parti, spesso e volentieri spostando la conversazione su argomenti casuali e poco inerenti al nostro obiettivo principale, cioè quello di informarsi ed informare su una realtà che non ci appartiene, ma che mi auguro tutti vedano come fonte di scoperte ed interesse.

Elena Saielli, 1BL

Grazie soprattutto a Kelly ed Emma.

Sporcizia

L’unico sapore che percepisco è quello della sporcizia, mentre il sangue scivola tra le
fessure dei miei denti. Lo stesso sapore che rimaneva sulla mia lingua quando ero piccola e
sputavo la terra ingoiata durante le mie cadute. Ero indifesa: nella mia maglietta a fiori, i miei
leggins neri, il mio cerchietto con le rose e il lucidalabbra rosso, non sapevo cosa
significasse vivere in questo mondo. In un pianeta dove se sei debole devi venire sopraffatto
e abusato; un pianeta dove, se non sei come gli altri vogliono, devi soffrire per loro mano.
Quando questi anche solo scorgevano la mia presenza, diventavo l’attrazione più divertente
di tutta la scuola. L’accanimento su di me, per loro, era fonte di grosse risate, soprattutto
quando con le loro scarpe sudicie, con cui avevano corso per il cortile, mi calciavano la
schiena, buttando il mio esile corpo a terra. Solo lui ha cercato di sollevarmi, guardandomi
dritta negli occhi quando cercavo di pulirmi lo sporco via dai vestiti, con i brividi lungo la
schiena e gli occhi gonfi di lacrime. Solo lui mi ha raccontato delle sue giornate, senza
ignorarmi come se fossi un mostro disgustoso. Solo lui mi ha invitato a casa sua per studiare
insieme, spostandomi i capelli dal viso quando appoggiavo la fronte al tavolo, esausta dallo
sforzo. Nella mia fragile dormiveglia, lo sentivo spostare le dita sul mio corpo: dalla nuca alle
spalle, dalle spalle alla schiena, dalla schiena ai fianchi, dai fianchi alle cosce. Solo lui mi
sussurrava all’orecchio di essere solo sua e di nessun altro. Me lo ripeteva ogni giorno,
come se fosse una preghiera che dovevo imparare a memoria e tatuarmi nella testa. Me lo
ripeteva anche mentre mi coprivo gli ematomi che mi procurava, picchiettando il correttore
con la spugnetta sui lividi neri. Diceva che provare lo stesso male che provava lui quando mi
vedeva insieme ad altri era l’unico modo per imparare a rispettare le regole che mi dava.
Che fosse mio padre o mio fratello, vedermi vicino ad altri maschi lo faceva ribollire di rabbia
all’interno: lo potevo percepire dal tremolio della sua voce quando mi intimava di non fare
cazzate o avrei dovuto pagarne le conseguenze. Senza nemmeno pensarci però, credevo
ad ogni sua singola parola e cercavo la tonalità di rossetto più scarlatta, chiedendomi se gli
sarebbe piaciuto vedere sulle mie labbra lo stesso colore del mio sangue. Lui era l’unico
uomo che mi meritavo e che potevo permettermi, colui che era destinato ad accompagnarmi
fino alla tomba.
Queste situazioni erano aumentate notevolmente da quando la nostra scuola aveva
annunciato il ballo di fine anno, a cui ovviamente volevo andare. Emozionata dalla nuova
esperienza a cui potevo partecipare, mi ero precipitata a girare per negozi per cercare l’abito
perfetto. Nessun dettaglio tralasciato, massima attenzione per ogni singola caratteristica del
modello. Tutto curato nei minimi dettagli per renderlo felice. Avevo preparato anche un
piccolo regalo per lui, mentre lo aspettavo seduta sul divano a casa, con il cuore in gola per
l’ansia. Non potevo aspettare un minuto in più.
Quando però ho sentito il rumore dei suoi passi sul vialetto di casa e un click metallico alla
porta, che ne indicava l’apertura, un sapore amaro è salito dall’interno del mio stomaco fino
alla gola. Perché sapevo benissimo che mi aveva proibito di comprare abiti di quel tipo, ma
io lo avevo ignorato completamente e lo avevo fatto comunque. Avevo commesso una
sciocchezza. Avevo dato importanza al cuore e non alla mente. Quando il primo schiaffo ha
colpito la mia guancia, infatti, ne ero già a conoscenza. Quello che però non potevo sapere
era che, qualche istante dopo, la persona che avevo più amato in tutta la mia vita e a cui
avevo perdonato ogni peccato mi avrebbe presa e costretta a terra, con la pancia giù e il
bacino alto. Ha messo una mano davanti alla mia bocca, non permettendomi di emettere
nemmeno un gemito, e ha fatto entrare due dita, posizionandole sopra la lingua, così che se
avessi provato a dimenarmi mi sarebbero saliti dei forti e naturali conati di vomito. Il tintinnio
della fibbia che segnalava la cintura caduta a terra mi ha portata a scontrarmi con la gravità
della situazione. Ho provato a mormorare di smetterla, che avrei fatto qualsiasi cosa,
veramente qualsiasi. Ma lui non ha sentito, e ha deciso con un colpo deciso di rompermi il
cuore, dato da un dolore istantaneo che mi ha trafitta dall’interno del mio corpo. Ha
continuato a usarmi come la sua bambola per una quantità di tempo che non saprei
precisare, dato che ogni movimento mi è sembrato durare un’eternità. Un infinito inferno in
cui le mie pareti venivano strappate senza ritegno. Ho capito che aveva finito di soddisfare la
sua indole solo quando sono caduta, con un sonoro schiaffo, sulle mattonelle fredde del
pavimento.
Ed è qui, intrappolata, incollata nel luogo del crimine, ora ricoperto di sangue, sudore e fluidi
appiccicosi che colano dalle mie gambe, che riconosco di avere sbagliato tutto nella mia
vita.
Riconosco di essere stata una stupida.
Riconosco di essere stata ingenua.
So benissimo che ogni speranza è vana. Forse farei meglio a lasciarle volare via da me ed
arrendermi al mio destino che, nonostante cerchi di pensare il contrario, mi sono scelta da
sola.
Ora però devo pensare ad alzarmi, con le mie gambe instabili e la mia debolezza, e lavarmi
di dosso questo miscuglio di schifezze. Avere una mania del pulito è un gran problema a
volte.

Valentina Grigio 2BL

Perché la mamma ha un occhio nero

Mi svegliai con le urla di mia madre,

credendo,

o forse sperando,

fossero urla di piacere.

Rimasi sveglia,

aspettando di confermare nella mia mente

che lei stesse bene.

Che mio padre

non le avesse fatto male.

Di nuovo.

Già due volte andammo via di casa.

Tre anni prima, mio fratello più piccolo aveva qualche mese.

Ci fu un litigio,

era notte.

Mi svegliai con le sue urla,

pungenti,

quelle di un bambino che piange semplicemente perché ha fame.

Non ci feci caso,

mi rimisi a dormire.

Mi risvegliò mia madre,

invogliandomi a fare le valigie per me e mio fratello minore.

Lei stava preparando la sua

e quella del piccolo.

Non capii,

pensai fosse colpa di uno dei soliti litigi.

Mi sentii in colpa,

di solito intervenivo,

li fermavo prima che mio padre si espandesse,

prima che scoppiasse.

Prima che fosse troppo tardi.

Quella fu la prima volta,

di cui sono a conoscenza,

che mio padre,

colui che dovrebbe proteggere la propria moglie,

la propria amata,

le mise le mani addosso.

Vi ricordate le urla di mio fratello?

Scoprii tardi che furono colpa di quell’uomo.

Il litigio ci fu,

accompagnato da un bicchiere d’acqua,

lanciato su quella piccola creatura

e la madre, che lo proteggeva.

Alla prima lamentela,

partì uno schiaffo.

La permanenza a casa di mia nonna durò poco,

forse una settimana,

forse due.

Non ricordo.

Al nostro ritorno, i litigi non cedettero.

Forse,

al contrario,

s’innescarono sempre più facilmente.

Come una piccola scintilla,

che infuocava vite intere.

Passarono i giorni,

in casa sembrava essersi ristabilita una quiete.

La tensione era talmente

normale

che non sembrava esistere.

Quell’uomo non aveva più smesso,

le rimise le mani addosso altre volte,

facendole passare per uno sbaglio,

per un errore non voluto.

L’anta della credenza sulla sua testa.

I lividi sulle sue gambe.

La paura che potesse esplodere da un momento all’altro.

La notte di quelle urla fu lunga.

Straziante.

Di nuovo lo stesso schema,

ma stavolta con la consapevolezza di aver visto.

Feci le valigie,

erano le quattro del mattino.

Di nuovo in macchina,

mia madre, i miei fratelli ed io.

Sentii mia madre chiamare sua sorella, le chiese di ospitarci.

Cominciarono così sei lunghi mesi.

I miei fratelli erano felici,

insomma,

non capita spesso di dormire così tanto dalla zia.

Erano entusiasti.

Ma vedevo nei loro occhi che qualcosa li turbava,

una domanda che avevano paura a fare.

“Perché la mamma ha un occhio nero?”

Erano così piccoli,

all’interno di una cosa tanto grande.

Eppure non era cambiato molto.

La mattina si andava a scuola,

il pomeriggio a casa di quell’atroce uomo,

la sera si tornava dalla zia.

Ogni tanto lui passava,

voleva salutare i suoi figli.

O almeno,

gli unici che si ritenevano ancora tali.

Io non sono sua figlia,

non lo sarò mai.

Spesso dormivo con la zia,

forse per non sentire mia madre piangere,

forse per non condividere un letto singolo con uno dei miei fratelli e poter lasciare mia mamma su un letto,

da sola.

Se era stretto per me, una ragazza di dodici anni,

non immagino per mia madre.

L’ematoma sul suo occhio si espandeva di giorno in giorno,

era gonfio,

il suo colore violaceo era sempre più intenso.

Mi ricordo delle notti passate con mia zia.

Mi ricordo quando si svegliava con il sottofondo dei miei singhiozzi.

Non sono mai stata particolarmente silenziosa durante il sonno, quante volte mi sono messa a raccontare ciò che sognavo.

Eppure,

in quelle notti,

chiamavo solamente quello che era mio padre.

“Io lo amo, io amo quel pazzo”

Questo messaggio mi distrusse.

Ovviamente mia madre non l’aveva scritto a me,

lo lessi di nascosto,

provando a capire se lei volesse divorziare.

Quel discorso arrivò,

io e lei da sole,

nel salotto di mia zia,

in silenzio.

Si sentiva solamente la sua voce tremolante,

il suo pianto.

Il mio no, io non piango.

Non ho mai voluto farlo.

Perché avrei dovuto?

Io lo odiavo,

ero felice che le loro strade si sarebbero divise.

Volevo proteggere i miei fratelli,

mia madre.

Me stessa.

Scoprii che mio nonno era come lui.

Possiamo dirlo?

Tale padre, tale figlio.

Lo scorso anno raccontai questa storia a una professoressa, mi disse che non era possibile.

Mi raccontarono una storia,

mia nonna aveva il braccio rotto,

ovviamente, continuava a lavorare e a sistemare la casa.

Una sera,

al ritorno dal lavoro,

mio nonno voleva avere un rapporto con lei.

Gli disse di no,

aveva troppo male,

non sarebbe riuscita,

non voleva.

Quel rapporto ci fu,

e anche qualche livido.

Fortunatamente,

spero,

che quello considerato mio padre,

non si sia mai spinto a tanto,

eppure mi fa riflettere.

Mia nonna si salvò,

quel mostro morì qualche anno dopo.

Lei nonostante siano passati quasi quarant’anni,

continua a parlare di lui con grande amore.

Mia madre non si è salvata,

a distanza di anni siamo tornati a vivere tutti nella stessa casa.

Proprio così, la casa dove suo marito l’ha picchiata.

Proprio con quel marito,

che dice di non ricordare quella sera,

che cambiò la nostra vita.

Che chiuse il nostro rapporto.

Ad oggi la tensione esiste

ed è forte.

Durante i litigi,

io intervengo ancora.

Se non ho la forza di affrontare quell’uomo,

metto al sicuro almeno i miei fratelli.

Li porto con me,

accendo la musica e li faccio ballare,

sperando non mi chiedano perché i nostri genitori stiano urlando.

Con la paura che mia madre possa ricevere ancora dolore,

provo a salvare gli “effetti collaterali”.

Non mi aspetto niente da loro,

sanno cos’ha fatto,

sanno quanto fa schifo,

ma sono piccoli,

ingenui.

Mi aspettavo molto da mia madre invece,

doveva salvarsi.

Doveva salvarci.

È davvero amore, se rischi la vita?

È davvero amore, mamma?

È davvero amore?

blu, 12

Paura.

L’uomo

Avevo forse 10 anni la prima volta che successe.

Eccomi.

Figura minuta, magra, bambina che mai si sarebbe aspettata ciò dalla sua breve vita.

Sono vissuta in una famiglia difficile.

Ho un fratello più grande di me, una sorella più piccola.

I miei hanno divorziato poiché mia madre tradì mio padre.

Lui però non è mai stato un brav’uomo.

Ha sempre alzato le mani.

Con me.

Con lei.

Sono arrivata al punto di avere paura di qualunque movimento ‘brusco’ tantoché mi capita ancora di cadere a terra e coprirmi il volto con le mani.

Chiudo gli occhi, tremando aspetto che tutto finisca. Sperando che non faccia troppo male.

Non si sono mai amati i miei genitori.

Si sono sposati perché mia madre fu ‘debole’.

Mio padre la obbligò.

Lui non c’è mai stato per me. Ha sempre suscitato grande paura nel mio fragile cuore.

Mi ha portata ad avere il terrore di provare dei sentimenti verso gli altri.

Mi ha portata a non fidarmi, a non parlare.

Solo lui poteva.

Solo lui era.

Solo lui.

Mia sorella è nata per sbaglio.

Dopo un rapporto forzato con mia madre.

Con entrambe non ho mai parlato come farebbe normalmente una figlia e una sorella maggiore.

Non ho mai parlato.

Torniamo all’inizio di questo testo.

Avevo forse 10 anni.

Mi mise le mani addosso.

Mi toccò.

Mi leccò.

Si strusciò con violenza tenendomi saldamente per le braccia.

Obbligando quel povero cucciolo di creatura che ero.

Ha continuato per anni.

Mi picchiava e poi mi obbligava a subire questo continuo abuso.

Tutto mascherato da una semplice frase che per una bambina quale ero io doveva essere rispettata.

‘non dirlo alla mamma’

Non lo dirò.

Fratellone stai tranquillo.

Piangevo ma in fondo pensavo che quello era il mio destino.

Pensavo che quello era ciò che meritavo.

Anni sono passati.

Sono diventata grande.

Il primo ciclo. Avevo paura di rimanere incinta.

La vivevo sempre più male questa violenza.

Il terrore di restare a casa da sola con lui mi accompagna tutt’ora.

Non potevo fare una doccia.

Veniva anche lui.

Non potevo dormire.

Entrava nel mio letto.

Mi picchiava. Mi obbligava. Poi tornati i genitori, a tavola, mi derideva.

Io non aprivo bocca.

Come sempre.

Quando finalmente riuscii a trovare il coraggio di dirlo ai miei, obbligata da quella che era una mia amica in prima superiore, mi venne detto:

‘stai solo complicando le cose. Non abbiamo tempo per te. Stai mentendo, vuoi solo attenzioni.’

Perché non capite?

Lo sapevo che non era il momento adatto per parlare.

Non parlai più dopo quella volta.

Continuai a subire in silenzio ciò che tutt’ora mi rende difficile se non impossibile ogni tipo di rapporto con un ragazzo.

8

PUNTO DI VISTA DI SILAS

Silas era sotto i grandi palazzi del quartiere, non sentiva le mani, il naso faceva male.

Fumava, non capiva più se dalla sua bocca uscisse fumo o vapore per il freddo ma, a quel punto, non gliene importava, così come non gli importava di vivere in un appartamento da nove metri per cinque totali, esattamente come non gli era importato di perdere il lavoro appena due giorni prima. Tutto ciò non perché fosse ottimista o altro, ma perché era semplicemente un menefreghista di natura e in passato aveva perso innumerevoli possibilità di avere rapporti con persone, proprio per questo motivo. Di questo gli interessava, nonostante il controsenso, perché Silas non riusciva a dare; a metterci del suo, e questo lo sapeva e lo feriva ininterrottamente: probabilmente se si fosse potuto permettere una seduta dallo “strizzacervelli”, come lo chiamava lui, gli sarebbe stata diagnosticata l’apatia. Un’altra cosa che non gli importava, perché, alla fine, avere la consapevolezza o meno di questo fatto non avrebbe cambiato le cose. Silas non era sempre stato così; per esempio, durante tutta la sua adolescenza, il suo nome aveva costituito un peso; se solo quel saccente di suo padre fosse stato meno egoista, presentarsi il primo giorno di scuola sarebbe stato più semplice.

Solo a Theo piaceva veramente il suo nome; a Theo piaceva tutto di Silas e, anche se non gliel’aveva mai detto, lui lo sapeva. Avevano stretto amicizia l’ultimo anno di liceo, prima dell’università. Erano sempre stati in classe insieme, ma solo quell’anno si erano decisi a scambiarsi le prime timide parole; Silas si ricorderà per sempre una scena: un sabato sera di dicembre, ad una festa, scoppiò una rissa e i due si ritrovarono fuori dalla porta insieme per non essere coinvolti. Né Silas né Theo erano soliti andare a feste di quel tipo, chissà per quale motivo entrambi quella sera si erano decisi!

Iniziarono così tutti quegli anni di serate e amicizia che finirono con un brutto incidente. Non è stata facile dopo la morte di Theo.

Silas finisce la sigaretta e mette il mozzicone dentro al pacchetto per non buttarla a terra. Sposta lo sguardo e, sospirando, ne accende un’altra. Gli fanno male i polmoni, gli fa male la ferita che si è procurato il giorno prima cucinando la cena a casa dei suoi genitori. Sua madre ancora non sa che l’amato figlio ha perso il lavoro e a breve anche quel buco del suo appartamento. Silas le ha sempre nascosto tutti i suoi fallimenti, fin dai tempi dalla scuola, perché a lei non venisse un colpo. Era debole di cuore, sempre in rosa perla, le unghie sistemate con cura e colorate di bianco e la voce belante. Suo padre, al contrario della moglie, sospettava continuamente che il figlio potesse commettere un passo falso e perdere tutto. Era sempre pronto ad indagare su questo e commiserarlo, rinfacciando gli errori. Si può ben capire perché Silas non apprezzasse andare a far visita ai genitori quella volta ogni due settimane e nelle feste comandate. Lui non voleva figli, si era ripromesso di non compiere quest’atto individualista, l’aveva sempre visto come un gesto egoista imporre la vita a qualcuno.

La terza sigaretta della serata. Aveva quasi finito il pacchetto ma voleva stare ancora fuori in quella fredda sera. Era una cosa che faceva spesso: usciva di casa con il buio e andava in luoghi tranquilli e freddi a pensare. Aveva iniziato a dodici anni circa per scappare ai problemi e trovandola terapeutica aveva deciso di continuare questa sua routine. In quel momento la sua vita non lo soddisfaceva, per cui pensava al passato e ci si rinchiudeva; non gli faceva bene. Theo avrebbe consigliato di leggere ma Silas non era mai stato interessato alla lettura. L’unico libro che aveva letto in vita sua era “Il piccolo principe” e l’aveva apprezzato più d’ogni altra cosa. Dopo quello aveva provato a leggerne altri ma il brivido non era lo stesso per cui aveva deciso di abbandonare la propensione per la lettura.

Quarta e ultima sigaretta. Dopo svariati tentativi di accenderla con il suo accendino, con stampa di un pirata jamaicano, riuscì finalmente a far prendere fuoco. Aspirò e cominciò a tossire. Fece due tiri e si vide costretto a spegnere la sigaretta. Questa la buttò in terra.

Faceva freddo. Il vento gli tagliava le dita.

Era senza fiato.

Non era stato mai più contento.

Tratto da “Allegria” 

NEVE ROSSA

Ci mancava così poco, avremmo sicuramente vinto. Dal mirino non si riusciva a vedere un granché ma l’accampamento dei Rossi era deserto. Il fuoco era spento da almeno qualche ora e le tracce erano sparite perché aveva ricominciato a nevicare, si erano preparati bene quelli là. “Secondo me avevano troppa paura di noi e si sono arresi, scappando come dei codardi” disse Noah mentre metteva a posto il binocolo. “Tu credi?” gli avevo fatto eco. Non era molto plausibile, i Rossi non erano tipi che perdevano facilmente, al massimo avevano cambiato base perché quella non era più sicura. “Sarà, ma qualcuno dovrebbe scendere a controllare. E io mi sono rotto a stare qui, ho freddo!” esclamò lui. Eravamo appollaiati su una delle collinette attorno alla base dei Rossi da quella che sembrava un’eternità. Io iniziavo ad avere il corpo intorpidito e il fatto che continuasse a nevicare non aiutava. Era tutto bianco, dai pini al lago ghiacciato della valle vicino alla base. La montagna d’inverno era bella solo nelle cartoline. Avevano già dovuto soccorrere tre studenti al secondo stadio di ipotermia; eppure, gli arbitri si ostinavano a farci procedere con la competizione. Era già il settimo anno che venivano organizzati questi giochi spietati nella nostra “prestigiosa scuola”. Probabilmente la gente credeva che fossimo dei ragazzi provenienti da famiglie agiate, che andavano in un istituto che li avrebbe aiutati ad ampliare le proprie conoscenze e temprare il loro carattere. In realtà eravamo solo un ammasso di adolescenti viziati in una valle dimenticata da Dio, nella quale prendevamo parte a delle squadre che si sarebbero massacrate a colpi di vernice per tutto l’inverno. Ci veniva consegnata una bandiera per squadra che poteva tenere solo un giocatore per tutta la durata dei giochi; se questo veniva sparato da una squadra avversaria il suo gruppo veniva eliminato, l’unica regola era il fatto che dovesse combattere come tutti in prima linea. Potevamo fare quello che ci pareva: costruire basi, saltare fiumi, fare agguati; valeva tutta l’area della scuola (che si estendeva per cinque montagne e tre valli, roba da pazzi!). Solitamente le squadre che rimanevano erano tre: gli arbitri, i Rossi e i Verdi. Gli arbitri non erano una vera squadra, supervisionavano e basta; erano spietati come pochi e gli unici a conoscere i custodi precisi delle bandiere. Poi i Rossi che erano quelli con maggiore popolarità, quelli con i genitori che acquistavano per loro i fucili da paintball e pure le divise. E poi i Verdi, quelli che si trovavano lì per una borsa di studio, quelli che venivano presi di mira, quelli appassionati di videogame, libri e fumetti, quelli che non avevano un fisico perfetto, quelli che da qualche mese erano diventati la mia “famiglia”. Ci costruivamo da soli le trappole, avevamo scavato la nostra base con le nostre mani, in un punto alto e strategico; avevamo pianificato le strategie e condiviso tutto. Avevamo parlato attorno al falò la notte, avevamo pianto quando ci avevano distrutto una base minore, avevamo riso quando un paio dei Rossi erano caduti nella nostra trappola e si erano riempiti di fango e ora eravamo lì, ad un passo dalla vittoria. “Hey! Sammy sta scendendo a controllare” fece Noah mentre estraeva il fucile. Tutti i Verdi attorno stavano trattenendo il respiro mentre lei si avventurava in guardia dentro la capanna. “Immagina se ci avessero messo una bomba, non sarebbe pericoloso?” disse lui per ingannare l’ansia. “Ma che? No, cioè, non credo lo abbiano fatto!” risposi io mentre mi scappava una risatina nervosa. Poi silenzio. Poi uno sparo. Poi Sammy che cadeva all’indietro con il giubbotto macchiato di sangue. No. Non era sangue. Era vernice rossa. Poi il panico. Dietro di noi partirono degli altri spari che andavano a colpire i nostri compagni uno per uno mentre i Rossi uscivano allo scoperto. Avevano fatto un’imboscata quei maledetti. “Accidenti!” urlò Noah mentre iniziavamo a correre. Ok, per la cronaca, non aveva detto proprio accidenti ma il senso era quello. Forse ero stato eccessivamente fiducioso prima di trovarmi sotto a quella pioggia rossa. Ma il bello doveva ancora arrivare.

Ta-pum!

Vi chiedo di immedesimarvi, chiudendo gli occhi, se vi va, nella seguente storia…

Ta-pum                                                                 Uno sparo secco e sordo ti strappa dal tuo sonno. Sono gli Austriaci. Si sono accampati ad appena qualche centinaio di metri più in là.

Ta-pum, Ta-pum                                                Altri spari solitari risuonano nell’aria gelida della notte invernale. A chi spareranno mai?

Ora puoi dire di essere sveglio, ma non sei sicuro che sia una buona cosa. La fame ti consuma da dentro: I rifornimenti faticavano ad arrivare per colpa della neve alta e da giorni eri costretto a mangiare quello che capitava, a volte addirittura digiunavi. Il freddo ti attanaglia la pelle, ti raggomitoli su te stesso per una parvenza di calore.                                          Accanto a te, un commilitone si lamenta: gli avevano sparato quel pomeriggio, ora aspettava solo di passare a miglior vita. Eppure, ieri a quest’ora era vivo e vegeto. Oh, ha smesso di respirare. Meglio andare da un’altra parte.                                        Cominci a scambiare due parole con un altro soldato, ma, anche se ti sforzi, non riesci a capire cosa ti stia dicendo, poiché viene da un’altra parte d’Italia. Tu arrendi e torni alla tua tenda, ti sdrai vicino al soldato ormai defunto, ma il sonno non arriva facilmente. Da quanto tempo ti trovi lì? Non ricordi, era comunque troppo. Sei solo, abbandonato, perso, impaurito (perché sì, avevi paura, ma non l’avresti mai ammesso, o meglio, non te lo permettevano). Dio, quante promesse infrante: “Tranquillo papà, non mi metterò in pericolo”, “No, mamma, non farò del male a nessuno”, “Prometto che vi scriverò ogni giorno”, “Prometto che starò bene”. Nemmeno al tuo Paese importava di te, non ti avrebbe mandato qui se facesse altrimenti. Sai già troppo bene che la tua vita è appena a un filo, anzi è un miracolo se sei ancora qui, sdraiato nella tua tenda a pensare, e non come il tuo amico in fianco a te.”

Quella che vi ho appena raccontato, poteva essere stata la nottata di un soldato ignoto, di cui non sapremo mai il nome, se riuscì a sopravvivere alla guerra, o se effettivamente esistette.

Tutti noi, almeno una volta nella vita, ci siamo ritrovati a leggere (o, per i più coraggiosi, a studiare) sul nostro caro e vecchio mattone, soprannominato “libro di storia”, un capitolo che, in cima alla pagina, recita: “Prima Guerra Mondiale”. Quante imprecazioni per imparare tutte quelle battaglie e date, per poi recitarle a mo’ di cantilena all’insegnante.                                           Ma ora dimentichiamo per un attimo il lato accademico.

37 milioni di vittime.

Con il libro davanti, si pensa “Grande, un altro numero da ricordare”.       Eppure, quando si realizza che, dietro a quei 37 milioni, si nascondono più di 16 milioni di morti e 20 milioni di feriti e/o mutilati veri, la pelle d’oca non tarda ad arrivare.                                  Persone vere, che respiravano e vivevano la loro vita, se la sono vista togliere. Bambini che forse non sapevano nemmeno cosa significasse vivere in un periodo di pace, e che se lo facevano raccontare dalle madri, o dai fratelli più grandi (sempre che non fossero in trincea). O vecchi che forse la guerra l’avevano già vista e che sapevano cos’era realmente.

“Una vittoria mutilata”, a D’Annunzio piacque definirla così. Non per le perdite di soldati e civili (anche se distinguere questi due è alquanto inutile, poiché i sovrani non combattevano mica), nemmeno per i morti che fece l’influenza spagnola l’anno dopo (65 milioni circa, contando complessivamente anche le vittime di cui parlavo prima), ma per Fiume. Sì, una città. Una città che avremo comunque perso dopo la Seconda Guerra Mondiale.

Purtroppo, la guerra che ci viene presentata a scuola è solo l’ennesimo pretesto per estrapolarci un altro voto. Un ammasso di parole, date e fatti che ci viene pure spiegato in velocità perché “siamo già in ritardo con il programma”. Eppure, la Prima Guerra Mondiale è molto più di un capitolo sul libro: è un capitolo della nostra storia.

Vita d’un soldato (Monte Interrotto, VI, 11 agosto 2022)

Anonimo

2019 – LA NOSTRA GIOVENTÙ

Un suono di sirene. Passi rapidi e scattanti. Questi ormai sono gli unici rumori che riesco a percepire in questa dannata città che quasi sembra morta.

Rombi di motori, risate, sorrisi e solo l’idea di poter ritornare a litigare con i vicini, sembrano esserci lontano anni luce; eppure, ci speriamo. Continuiamo a sperarci. Il desiderio di essere finalmente liberi, poter respirare bene a pieni polmoni l’aria fresca, poter ripopolare quello che la tempesta ci ha portato via…ci asseta. Siamo dei fiori in mezzo ad un temporale, aspettiamo l’apparizione del sole per risbocciare, aspettiamo la primavera, i confini delineati da fiori variopinti, il via vai di una volta.

Avete mai provato a guardare negli occhi uno sconosciuto? Provate a tuffarvici dentro, sprofondateci fino a toccare l’abisso e allora scoprirete una storia nuova; ditegli che la vita è bellissima e piena di sorprese; abbracciatelo, fategli una carezza.

Un altro suono di sirene, altri passi svelti e fruscii interminabili mi riportano alla realtà. Mi sporgo a guardare dal balcone: ancora una volta ombre bianche trascinano l’ennesimo sciagurato sulla loro carrozza d’avorio. È almeno la decima volta che vengono a farci visita, e ogni volta si portano via un uomo malato. In compenso, ci portano ogni giorno cibo e altri beni di prima necessità. Girano giorno e notte, ci sorvegliano come animali chiusi in uno zoo, dormono per strada per quei miseri dieci minuti e neanche una volta li abbiamo visti senza le loro tute bianche. O meglio, tute ormai grigie, consumate dal tempo, dalla strada, dalla stanchezza, dallo sporco, dal sudore. Nonostante tutto, sembrano felici. O forse è tutta un’illusione. Così “felici” da provare angoscia per loro.

L’ennesimo suono di sirene, passi agili e veloci. Solo che questa volta si fermano davanti a casa mia. Metto velocemente la mascherina, prendo tutto il necessario e mi unisco a loro nella tanto sognata carrozza d’avorio. Sono esausti e lo si nota bene, non riesco però a distinguere il liquido che scorre tra i loro occhialini. Gocce grosse come bufali giocano a scivolo sulla loro fronte, gli occhi, le guance; queste gocce di sudore e lacrime si divertono a lasciare una scia umida sulla pelle screpolata a causa del freddo. Innumerevoli minuscoli tagli sulla pelle si fanno sempre più evidenti.

Li guardo negli occhi, mi ci tuffo dentro, così profondi da non riuscire a toccare il fondo, e vado a scoperta della loro storia. Dico che la vita è bellissima e piena di sorprese, li abbraccio mentalmente uno ad uno e li accarezzo. Chissà come sono questi sconosciuti, dietro la loro mascherina. Forse si nasconde un sorriso spettacolare e pieno di vita.

Suono di sirene, rumore di passi familiari, quei passi che mi hanno accompagnata, quasi cullata nei sogni ogni notte. Un rumore sempre più forte. Una distesa di ombre bianche, o meglio SUPEREROI dal manto bianco. Li ringrazio, dico loro ancora che la vita è meravigliosa e vado incontro al mio destino. Posso finalmente raggiungere il mio signore, nell’ospedale di Wuhan e passeremo anche questa soglia insieme, come al solito, proprio come abbiamo fatto per una vita intera. Nevica. Significa che aspetteremo la primavera. Piove. Significa che grazie all’acqua sbocceremo più belli del solito. C’è il sole. Significa che è arrivata la nostra ora di sbocciare. La nostra ora è effettivamente arrivata. Il tempo per noi finalmente si ferma. Significa che voglio bene al mio amato.

PRESSIONE

Quel fatidico giorno mi stavo dirigendo in fioreria, stava per cominciare l’autunno, era l’11 settembre 2001. “Vorrei comprare questo mazzo di rose e, se riesce, può metterci anche dei tulipani?”, questo dissi al fioraio prima di guardare l’orologio e accorgermi che ero estremamente in ritardo. Presi tutto di fretta e lasciai 50 dollari senza pensare al resto e iniziai a correre: faceva freddo. Il vento mi tagliava le dita. Ero senza fiato. Non ero mai stato più contento. Emily era a lavoro, stava per finire il turno di notte e uscire dal lavoro: erano le 8 e mezza. Non riuscivo più a contenermi dalla felicità, avevo preso l’anello perfetto per dichiararmi a lei. Ebbene sì, dopo 4 anni avevo finalmente deciso di farmi avanti e fare il grande passo, un passo che avrebbe totalmente cambiato la mia vita, che ci avrebbe unito definitivamente. Per le 8 e 35 ero all’entrata delle torri gemelle, tutto bello vestito e profumato, il mazzo di fiori nella mano e super agitato. Entro. Un’ immensa sala d’attesa si apre ai miei occhi: alla reception c’era una signora e quindi le chiesi: “Salve, mi scusi lei sa per caso dov’è Emily Smith? Avrei una cosa molto importante da dirle…”. “Sì signore, la può trovare al 23esimo piano, ala destra, camera 109, tra poco dovrebbe finire le sue commissioni.” “Grazie mille”. Corsi, corsi più che potei, ormai quella per me era diventata una questione di vita o di morte arrivare in tempo al suo ufficio. Quando arrivai, lei era già sull’orlo della porta, con la sua valigia in mano pronta ad uscire. “Hey, ciao Joe! Cosa ci fai qui? Non volevi dormire oggi visto che eri molto stanco dopo ieri?” “No, amore, oggi volevo venire a prenderti io dal lavoro e magari andare a fare qualche giro in città” “Aaaahhhh, che carino, quanto ti voglio bene”. Andammo nell’ascensore, per mia fortuna era completamente vuoto, così da avere un po’ di privacy. Esso si chiuse e ormai per me era arrivato il momento cruciale: “Allora, dovrei dirti una cosa, una cosa davvero molto importante… Sai ci ho pensato molto sulla nostra relazione e vorrei chiederti…”, stavo tremando come non mai, “Vorrei chiederti se vuoi essere mia moglie Emily, ti amo all’infinito” “Oddio, sì, sì! Sì che lo voglio, ti amo anche io Joe”. Mi abbracciò fortissimo tanto da farmi quasi perdere il respiro. Udimmo un tonfo fortissimo, Emily si tenne abbracciata a me e io abbracciata a lei, non riuscii a staccarmi da lei. Mi sentii come se stessi levitando, uscendo dal mio corpo per entrare in connessione con il suo, sempre e sempre più in alto fino a che non sentii una grandissima pressione: le sue labbra si erano staccate dalle mie, il suo corpo era diventato molto pesante, più di prima e io quella pressione la provai su tutto il corpo, in particolare nel cuore.

AL FUOCO!

Ispirato alla poesia “Il risveglio del vento” di Rainer M. Rilke

In un ameno borgo dell’Italia Centrale, adagiato sul versante dell’Appennino Toscano come una goccia di rugiada su uno stelo d’erba in un mattino di primavera, si narrava la storia di un anziano signore taciturno, noto per avere la curiosa abitudine di girovagare per i vicoli del paesino durante la notte.

Erano state circa una dozzina gli intraprendenti e gli impavidi che avevano deciso di spiarlo, notando che ogni giorno, verso mezzanotte, si recava alla fontana pubblica, nei pressi del Capitello dedicato alla Vergine Maria, apriva il rubinetto e riempiva con l’acqua un secchio che portava con sé. Dopodiché, s’inerpicava per una stradicciola in salita che si addentrava tra gli alberi, svuotava il recipiente e tornava a casa, dopo aver rivolto alcune preghiere alla Madonna.

Questa sua bizzarra abitudine, come prevedibile, alimentò i pettegolezzi di paese, motivo per il quale “il vecchio”, come era soprannominato, divenne sempre più chiuso e schivo, uscendo di casa soltanto sporadicamente. Molti, vedendolo per strada, lo fermavano, chiedendogli spiegazioni sul suo comportamento, ma ottenevano sempre la stessa risposta: “Al fuoco!”.

Questa peculiare abitudine perdurava ormai da una ventina d’anni, quando in paese nacque un bambino, che fu chiamato Italo. Naturalmente, verso i quattro o cinque anni, venne a sapere della leggenda dello strano signore e, all’età di dodici anni, decise di veder chiaro sulla questione.

Così, una notte, Italo e tre suoi amici si appostarono vicino alla fontana per spiare l’anziano. Quando egli giunse, il ragazzo sbucò dal suo nascondiglio e disse: “Buonasera”. L’interlocutore sobbalzò per lo spavento, ma non rispose. “Buonasera!”, ripeté il ragazzo, a voce più alta. L’altro aprì il rubinetto, e stette ad ascoltare il rumore dell’acqua che riempiva il secchio. “Posso sapere perché lei è qua?” “Al fuoco.” “Non la capisco. Chi è? Io mi chiamo Italo, lei, invece?”.

A quelle parole, il vecchio scoppiò a piangere teneramente. Piangeva, e calde lacrime bagnavano le sue guance rugose; piangeva, e le sue spalle erano scosse dai singulti. Piangeva, e i ragazzi osservavano, attoniti, l’anziano piangere come un bambino, una vecchia pecora gemere come un piccolo agnellino indifeso, nel buio della notte silenziosa, animata soltanto dai grilli e da quel pianto spontaneo, proveniente dal profondo di un cuore spezzato.

“Italo, Italo” ripeteva “Italo, Italo, fratello mio!”. Ci volle una buona mezz’ora per placarne i singhiozzi; poi, il signore misterioso raccontò che andava ogni giorno a svuotare un secchio d’acqua nel boschetto per commemorare il fratello, che si chiamava appunto Italo, morto nel Febbraio di circa trent’anni prima nel tentativo di spegnere un incendio che era divampato proprio lì. “Mi credono pazzo” concluse “ma non mi possono capire e, se lo raccontassi, non mi crederebbe nessuno. Io però continuo a farlo, e non smetterò mai, pregherò per lui e lo ringrazierò sempre di aver aiutato a salvare il villaggio.”.

I quattro ragazzini furono profondamente colpiti da questa testimonianza, ma decisero comunque di non aprir bocca con nessuno per rispetto dell’anziano signore, del quale non conobbero mai il vero nome, e del fratello, venuto a mancare per aiutare il prossimo, per aiutare, tra gli altri, i genitori di quei ragazzi. Dopodiché tornarono a casa in fretta, per evitare di essere scoperti.

Il giorno seguente, Italo accompagnò sua mamma al mercato per fare compere. Alla bancarella della frutta, il ragazzo vide con la coda dell’occhio una persona che lo salutava: era lui, l’anziano. Sorridendo, ricambiò il saluto, agitando la mano. Sua madre lo vide, e disse: “Italo, vieni via, quello lì non è mica normale, non lo riconosci? È quel vecchio strambo che gira di notte e va alla fontana. Guardati da lui, è meglio che lo lasci in pace.”. Il figlio rispose: “Pensi davvero che sia strano?”. La madre disse: “Non lo penso, lo è.” “Ah” rispose lui, sovrappensiero, e continuò: “Eppure, secondo me, qui in paese tutti dovrebbero essere fieri di lui.”.

Poi guardò il cielo, e aggiunse: “E anche lassù.”.

Inizia l’anno col botto!

Eccoci qui, con l’inizio della scuola torniamo anche noi del RompiPagina. Vi siamo mancati, vero?

Ma non è di questo che parleremo oggi, visto che avremo modo di non mancarvi più nei prossimi mesi, potete contarci.

Pensate: ci hanno addirittura chiesto di sponsorizzare il ballo di inizio anno!

Oltre a non indossare più le mascherine a scuola (cosa che non accadeva dal lontano 2020 e che ormai sembrava solo un miraggio), torna, direttamente dal 2019, il ballo di inizio anno. La location è sempre la stessa storica e ineguagliabile: il Calcatonega. Ma, “cosa ci sarà?” vi starete chiedendo.

Le luci, i sassi, Babbo Natal… no, no, questa non è una citazione a un film americano!

Sicuramente, ci saranno un sacco di decorazione di Chiara Faccioli! Unico baluardo rimasto tra i rappresentati d’Istituto, mentre gli altri hanno superato la maturità. Che eroi.

Per quanto riguarda il tema, si passa dalla “piccola” Las Vegas di giugno all’America intera: dal freddo del Minnesota al caldo torrido del Texas, da New York a San Francisco. L’intera America sarà con noi per iniziare l’anno col botto!

Mancano pochi giorni, molte sono le prevendite ancora disponibili presso i vostri rappresentanti, pusher di fiducia, ma le trovate anche in parcheggio a fine lezione o al Konteiner 9.2.

Fonti certe, ossia l’account Instagram del liceo, comunicano che al microfono ci sarà Bruno Marcianò.

Luca Veronese e J&B saranno i nostri sgravatissimi DJ!

Quindi, che dire, correte a prendere le ultime prevendite, scegliete un buon profumo e un outfit adeguato! Lasciate a casa gli occhiali da sole, che tanto è sera e non ci vedete nulla, che ve li portate a fare?

Ah no, la regia ci dice che fanno stile.

D’accordo: portateli, a vostro rischio e pericolo!

Finite gli ultimi ritocchi al vostro vestito, sia che vi vogliate vestire da Statua della Libertà o da Empire State Building, sia che vogliate stare più sul tradizionale vestito elegante, sia che vi vogliate vestire come Zac Efron e Vanessa Hudgens in High School Musical, o come Ezra di All Americans!

Si ringraziano infine: il Calcatonega per lo spazio, Atheste Events per l’organizzazione; e gli sponsor, quelli veri (noi no): Radio Londra e Cartolibreria-Tipografia Apostoli.

Vi aspettiamo al ballo il 17 settembre dalle 22:00, al Calcatonega, per iniziare l’anno col botto!

 

LA REDAZIONE:

Filippo Magaraggia 5AA

Matilde Martinelli 4AC

Grosselle Pietro 3BSA

 

Las Vegas: il ballo di fine anno

Ferrariste e ferraristi, eccoci alle soglie del ballo di fine anno. Letteralmente alle soglie: mancano poche ore. Articolo in ritardo ovviamente, ma d’altra parte chi lo scrive è Sara Bertin, forte dell’esperienza pregressa con lo Space Invader Niccolò Bagno (https://rompipagina.altervista.org/the-nightmare-before-christmas-ballo-natale/), ed Emma Zovi, non più in veste di candidata reginetta né tantomeno di Enzo Miccio, entrambe campionesse di ritardi brevi… quando va bene.

Oggi ci assumiamo l’onere e l’onore di continuare la tradizione dell’articolo pre-ballo, famoso per essere “l’unico articolo del Rompipagina che la gente legge” (la qui presente direttrice, Sara, è felice di dissentire).

Dopo mille questioni su quale dovesse essere il tema del fatidico ballo, i nostri rappre hanno ben pensato di passare dalla New York degli anni ‘80 di The Wolf of Wall Street alla Las Vegas sregolata di Una notte da leoni. Ma soprattutto sono riusciti a riaggiudicarsi La Location, agognata come un sei in matematica a maggio… ritorniamo, dopo quasi due anni e mezzo, a Calcatonega.

Per i novellini, ci raccomandiamo di farsi dare le indicazioni giuste per la nostra Las Vegas di campagna: nessun volo diretto né autostrade ai 200 all’ora, ma una romanticissima stradina in mezzo ai campi vi porterà da noi.

Sulla scia dell’autogestione pazza dell’ultimo giorno, della rassegna teatrale a Rovigo in serata in sostituzione di quella di tre giorni a Domodossola e delle gite di quinta in S.E.S.A., siamo pronti a sgravare anche oggi, ad abbandonarci alla sregolatezza per passare la serata delle serate, la più attesa, la nostra. 

Non temete per la riuscita del ballo, organizzarlo è stato un gioco da ragazzi per i nostri rappre che, sappiamo, vivono ormai da un anno con la Panna alla gola e ne hanno viste di tutti i colori. Hanno le ossa grosse però stasera puntiamo a vederli più finiti di quanto già lo siano. D’altro canto il Rosso, l’Imprenditore e l’Attivista (perchè si, la Bambolina potrà solo guardare le nostre stories dall’Irlanda) non saranno gli unici ad uscirne distrutti: abbiamo grosse aspettative anche nei riguardi di Filippo Polato, che il 15 si sveglierà se non senza un dente, sicuramente senza polmoni.

Ma veniamo al sodo: sappiamo bene perché state leggendo questo articolo… iniziamo con le nomination. Dopo lunghe analisi tecniche e sondaggi che neanche l’Istat, le qui presenti sono liete di svelarvi che, direttamente dalla 3BS, concorrono per il titolo di “reginetto” e “reginetta” il novellino Giovanni Magarotto e la bellezza dai colori baltici Vittoria Masiero. Si fa poi strada fra le leve del linguistico Gaia Rizzo di 3AL e, rimanendo nel settore, la raggiante ballerina Giulia Secchieri di 4AL. Ritornando tra le file dello scientifico, non possiamo non candidare Sofia e Linda Masiero, universalmente conosciute come “Le Gemelle”, e dalla medesima 4BS, il Guinness World Record di uscite geniali e al contempo cringe, Carlo Saffioti. Sempre dell’annata 2004, dalla sede degli artisti, emerge invece Giada Vascon di 4BA. I sondaggi rilevano poi che, tra i più anziani, Francesco Ferraccioli di 5AS avrebbe conquistato tutto il gruppo di teatro, aggiudicandosi la candidatura, salvo poi ritirarsi dopo il terzo incontro. Da ultimi, ma non di certo per importanza, ancora una volta la mascella prorompente Gabriele Gallana e la pazzissima Martina Scordari di 5BS, candidati anche come “Coppia d’Istituto”, senza nessun altro concorrente, sullo stile delle votazioni per i rappre.

E se siete curiosi pure di sapere chi è il dj, fonti segrete ci dicono di non aspettarci Luca Morris o Franchino, ospiti nella zona estense poco tempo fa, ma di volare, volare… sempre più in su, molto più in su… nel budget pare rientrare dj Gue aka Sofia Ferraretto, a cui Lele il Cantante ha passato ufficialmente il testimone. Non ci è dato a sapere invece il genere musicale, ma non ne abbiamo bisogno… con lei siamo sicuri che andrà tutto bene, tanto quanto già a settembre le quinte erano sicure che la Grecia l’avrebbero vista solo in foto :’).

Vogliamo concludere ringraziando il comitato, composto per lo più da maturandi, che, al posto di studiare, ora stanno allestendo la location. Ma ringraziamo anche i rappresentanti d’Istituto (talvolta quelli di classe…), che quest’anno più che mai si sono battuti per il corpo studentesco. E poi ancora i laboratori teatrali di entrambe le sedi, il gruppo musicale, la Notte Nazionale del Liceo Classico, la redazione di Rompipagina, le crociere, l’Aperitivo con l’Arte, Google Meet (che speriamo di non dover ringraziare più), il Bar, soprattutto i tramezzini, che sono i più farciti del Triveneto, e tutto ciò che noi ora ci stiamo dimenticando, ma che rende il nostro Liceo un luogo da vivere appieno.

Ci vediamo questa sera carichi a bomba…

un saluto, Sara ed Emma.

World Art Day

Il 15 aprile 1452 in un piccolo borgo nei pressi di Firenze, nacque, da una relazione illegittima, come leggenda e storiografia narrano, Leonardo da Vinci.
Questa data, da allora, è diventata importantissima, perché quel giorno venne al mondo uno dei geni assoluti della storia dell’uomo, colui che meglio incarnò il sapere universale e integrale. Per questo motivo e per il valore simbolico di Leonardo in quanto prodigio, l’International Association of Art ha deciso di istituire il 15 aprile Giornata Mondiale dell’Arte, World Art Day.
Oggi, per trattare l’argomento, procederemo per domande, perché è proprio attraverso le giuste domande che possiamo trovare le risposte che stiamo cercando.
Ne approfitto per ricordare tutte quelle persone che, sfortunatamente, non possono vivere una vita serena per colpa della guerra, in Ucraina come in altre parti del mondo, in Etiopia, in Siria, la guerra c’è e permane. Dobbiamo esserne consapevoli, per riuscire a dire no all’insensatezza della violenza. Detto ciò, vi auguro una buona, coscienziosa, lettura!

“Cos’è l’Arte?”
Stando a ciò che riporta l’enciclopedia Treccani:
“In senso lato, capacità di agire e di produrre, basata su un particolare complesso di regole e di esperienze conoscitive e tecniche, e quindi anche l’insieme delle regole e dei procedimenti per svolgere un’attività umana in vista di determinati risultati.”

Quindi possiamo dire che, ogni qualvolta che si fa qualcosa con un fine, e lo si fa in maniera
impeccabile, si è in presenza di Arte. Ma andiamo ancora più in profondità.
Da sempre l’uomo ha sentito l’esigenza di rivelarsi, di comunicare e di concretizzare la propria idea di estetica, di cultura, di vita. L’Arte, in questo senso, è stata ed è ciò che le parole non potevano e non possono esprimere. Infatti, la potenza mediatica di un’immagine, di un edificio, di una statua, è raramente riproducibile con altri mezzi. Noi dobbiamo molto all’Arte, per questo è giusto ricordarla.
L’Arte è il riflesso delle idee di ogni epoca, degli artisti e dei committenti. È un sospiro di ammirazione impresso sulla tela e sulla pietra, è il desiderio, che si tramuta in sogno, che diventa realtà, o dolce illusione. L’Arte è tensione e stasi, ricerca del sublime tanto quanto dell’ordinario, del caos tanto quanto del modulo. È soggettività che urla attraverso la convenzionalità di una linea retta. È oggettività impressa in una forma irrazionale. L’Arte richiede attenzione, passione, dedizione; non se la prende se la ignori, ma ti corrisponde, se la ami.
Però non è solamente ideali, perché l’Arte al servizio dell’uomo diventa legittimità, celebrazione, musa cantatrice delle virtù dello Stato, della Repubblica, di un partito; mezzo di affermazione sociale, di iconolatria, di protesta, di libertà, di diritto.
L’Arte è dunque un fenomeno complesso che non si può ridurre a qualche parola o a un concetto unico, perché il suo ruolo nel corso della storia varia proprio in funzione della storia stessa e delle persone che fanno Arte.
A tal proposito, due sono le domande fondamentali che mi sono posto:
“Cos’è per me l’Arte? Qual è il rapporto che mi lega a Lei?”.
Ritengo, però, che il bello dell’Arte sia l’emozione estremamente soggettiva che essa suscita; il rapporto personale, non universale, ma intimo e relativo che ognuno di noi ha con questa disciplina, è ciò che mi interessa davvero. Per cui ho fatto le stesse domande a tutti i professori dell’Istituto che trattano una qualsiasi materia che ha a che fare con l’Arte, e ho chiesto anche ai miei compagni di classe.

“Cos’è per voi l’Arte?”
L’idea di Arte che ognuno di noi ha, è la somma delle emozioni che tale disciplina ci trasmette. Per alcuni è una continua scoperta, un’avventura, è la capacità di meravigliarsi quotidianamente, è il giusto appagamento per la dedizione e la fatica che un artista impiega per realizzare un’opera. Altri vedono nell’Arte un criterio di ordine e di equilibrio necessari non solo al processo creativo, ma alla vita stessa. Altri ancora sostengono che l’Arte è puro disordine e istinto. C’è chi, quando pensa all’Arte, si emoziona e non smette più di parlare e di scrivere al riguardo, perché Arte può essere un brivido che corre lungo la schiena di fronte a un’opera. Ma l’Arte è anche divertimento!
Diversi sono i modi con cui le persone entrano in contatto con questa disciplina, ed è proprio questo approccio che modifica la percezione di cosa è artistico e di cosa non lo è. Ma vediamo direttamente alcune risposte:

“L’Arte è tutto ciò che ci circonda, è la nostra vita e tutto ciò in cui essa scorre. L’Arte ci permette di vedere, sentire e toccare un mondo che per ognuno di noi è di un colore e di una forma totalmente diversa, e comprenderlo dalla prospettiva di un altro essere umano: l’Artista! L’Arte ci riempie il cuore, i pensieri, ci da un motivo per sfogare il nostro io”
Chiara Faccioli, 4^AA

“L’Arte è una forma di libertà con la quale ognuno esprime l’intero mondo che ha dentro di sé”
Gaia Livio, 4^AA

“A livello percettivo il nostro cervello classifica le cose in maniera ordinata, gode delle proporzioni tra le cose e cerca di semplificare ciò che gli viene mostrato.
‘Less is more’ diceva l’architetto e designer Mies van Der Rohe.
E Less is more è la mia idea di Arte.
Quando vedo delle linee perfettamente dritte, su di un foglio bianco perfettamente squadrato, con i caratteri perfettamente allineati e le immagini disposte su una griglia modulare, il mio cervello mi ringrazia e dice che quella è Arte”
Prof.ssa Emanuela Tamburello

“L’Arte è l’espressione massima di bellezza e talento umano. L’Arte è gioia, ma allo stesso tempo profondo dolore; ed è questo il bello: riesce sempre a essere meravigliosa, anche quando chi l’ha creata provava, dentro di sé, un tormento agonizzante.
La parte più intima e sensibile dell’uomo, l’Arte ne è impregnata, se ne nutre voracemente, per poterla restituire in una forma elegante, leggibile agli occhi dei più scrupolosi”
Angelica Carbonaro, 4^AA

“Qual è il rapporto che vi lega a Lei?”
È probabilmente la domanda più intima dell’articolo, perché, sapete, pensare a che cosa sia l’Arte è una cosa, ma chiedersi che rapporto si ha con Lei, è tutt’altro.
Ebbene, anche in questo caso le risposte sono estremamente varie e valide, l’Arte è una garanzia, è una passione profonda, ma non solo. Tendiamo a vedere questa disciplina come un semplice passatempo, senza renderci conto della responsabilità che un’opera può avere. Pensiamo alla propaganda in un manifesto, a un edificio o a un quadro che diventano simboli del potere, oppure più semplicemente alla pubblicità. Ecco, nuovamente, alcuni pensieri delle gentilissime persone che hanno partecipato:

“Ci sono tre cose senza le quali penso non potrei vivere: gli affetti, la natura, l’Arte. Non riesco a concepire la mia vita senza questi tre elementi, e tutti implicano un rapporto di fedeltà. Posso forse stare con mia moglie, i miei figli, i miei amici, abbandonandoli? Posso amare il mondo e le sue bellezze senza rispettarlo? E infine, posso essere un artista senza dedicare all’Arte il mio tempo e la mia energia? Le risposte sono tre secchi no, ovviamente. E per poter mantenere un rapporto di fedeltà con ciò che si ama ci vuole dedizione”
Prof. Sandro Freddo

“L’Arte come responsabilità è la risposta a tutto. In un mondo sempre più caotico, bombardato da immagini, colori e scritte, io penso che il senso di responsabilità di chi fa Arte, in tutte le sue infinite declinazioni, sia quello di portare un pò di ordine e decoro, al fine di creare una sensazione di benessere e un’esperienza sensoriale appagante, rendendo la mia idea di Arte un tutt’uno con ciò che mi lega a Lei”
Prof.ssa Emanuela Tamburello

“Il Nostro rapporto è per lo più l’infanzia, c’è una particolare sensazione che mi viene in mente quando ci penso, ovvero l’odore del legno dei pastelli e delle matite, ho sempre amato disegnare ed era il modo che avevo per cercare di dare una mia interpretazione della realtà, per far vedere ‘i colori’ che avevo dentro. È un legame che c’è da quando ho imparato a tenere in mano una matita”
Angelica Carbonaro, 4^AA

“Come scrive John Berger nel libro Sul disegnare: ‘Il farsi di un’immagine comincia interrogando le apparenze e tracciando dei segni. Ogni artista scopre che il disegno – quando è un’attività necessaria – è un processo a doppio senso. Disegnare non è solo misurare e annotare, è anche ricevere. Quando l’intensità dello sguardo raggiunge un certo grado, diventiamo consapevoli che un’energia altrettanto intensa viene verso di noi, attraverso l’apparenza di quello che stiamo scrutando. […]
Non do nessuna spiegazione a questa esperienza. Credo semplicemente che pochissimi artisti ne negheranno la realtà. È un segreto professionale’
L’Arte è un rapporto reciproco”
Prof.ssa Alessandra Locatelli

Ma per rispondere personalmente alla domanda che vi ho fatto, per me l’Arte è come una sorella. Nei momenti bui è sempre stata al mio fianco, è un faro.
L’Arte si racchiude nei dettagli unici, per chi li sa apprezzare, per chi li sa osservare. Cerco nell’Arte una bellezza che è chiaramente idealizzata, utopistica, ne sono consapevole, ma non per questo meno degna di essere considerata, anzi, è proprio in questa bellezza che trovo il sentimento. Perché più volte ho creduto che una statua di Michelangelo, di Bernini, di Canova, provasse emozioni più pure, più vere rispetto a quelle umane. Perché un quadro può essere la sintesi migliore del dolore che perplime l’essere umano, che lo rende succube, ma può essere anche la massima espressione della leggerezza e della gioia che vive e lotta nei nostri cuori. Per me è la ricerca della purezza che manca sempre di più, è l’ideale mondo in cui si potrebbe vivere, ma è anche, concretamente, esempio di virtù e di verità, con tutto ciò che ne consegue. La verità non sempre ci fa bene.
Io ci credo nell’Arte, non mi ha mai tradito, e non c’è sensazione più bella della consapevolezza che, comunque andrà, Lei sarà con me. Il Nostro rapporto, è di fedeltà.

“Perché l’Arte?
“Per sopravvivere, per respirare, per vivere.”
Prof.ssa Licia Bevilacqua

Filippo Magaraggia 4AA
Un ringraziamento speciale per tutti quelli che hanno partecipato!

Aprire gli occhi verso il mondo e avvicinarsi a realtà diverse

Credo sia fondamentale per la nostra crescita personale essere aperti verso
nuovi mondi, culture, lingue, mentalità.
Noi giovani siamo curiosi di scoprire cosa c’è al di fuori del nostro piccolo
paesino, nel quale siamo nati e cresciuti. Allo stesso tempo però, il pensare
che ci sia qualcosa di diverso fuori dalla nostra quotidianità, dalla realtà in
cui siamo abituati a vivere e l’avvicinarsi a questo mondo inesplorato ci
spaventano.
Proprio per questo, ho deciso di intervistare le prof.sse Datz e Salvo:
entrambe si sono trasferite in un’età giovane in posti completamente
diversi rispetto al loro luogo d’origine.
Le loro esperienze sono un’utile testimonianza e una spinta per noi che
prima o poi conosceremo ed affronteremo le molteplici difficoltà
trasferendoci all’estero.

Ecco a voi l’esperienza della prof.ssa Salvo:

Dove è nata e cresciuta?

Sono nata e cresciuta a Messina, dove ho frequentato il liceo classico
“F. Maurolico”. Dopodichè mi sono iscritta all’Università per studiare
Lingue e Letterature Straniere (Tedesco e Inglese).

Quando si è trasferita all’estero? In quale occasione?
All’età di 20 anni mi sono trasferita in Germania, esattamente a
Tübingen, grazie al progetto “Erasmus”, un programma di mobilità
studentesca dell’Unione Europea che dà la possibilità a studenti
universitari di effettuare un periodo di studio in una università
straniera.
Dopo questa esperienza meravigliosa durata un anno, ho deciso di
rimanere in Germania, trasferendomi a Köln, Colonia, dove ho avuto
l’opportunità di lavorare per sei anni come insegnante di lingua
italiana in un liceo tedesco.

E’ stata la sua prima esperienza al di fuori del proprio paese di
nascita?
Prima dei 20 anni ho avuto la fortuna di fare tante piccole esperienze
all’estero. In particolare, ogni estate trascorrevo due o tre settimane
all’estero (Inghilterra, Irlanda, Austria, Germania) ospitata in college
o presso famiglie straniere. Durante questo periodo studiavo la lingua
e allo stesso tempo scoprivo la cultura del posto.

Aveva già studiato la lingua del paese in cui si è trasferita? In
generale, quanto tempo ci è voluto per impadronirsi della lingua?
Sebbene avessi già delle conoscenze della lingua tedesca, non è stato
subito facile comprendere e farsi comprendere dagli abitanti del posto.
Un conto è studiare la grammatica e il lessico sui libri, un altro è
utilizzare tutto il bagaglio linguistico in forma attiva e immediata in
contesti reali. Solo col tempo e con la pratica sono riuscita ad entrare
sempre più in confidenza con la lingua straniera e a sentirla sempre
più mia. Tuttavia, sono convinta che non si finisce mai di imparare
una lingua!

E’ stato difficile ambientarsi? E’ stata ben accolta dalle persone del
posto? Quali sono state le sue prime impressioni?
Con il trasferimento sono andata incontro a delle difficoltà che, a mio
parere, sono inevitabili e da mettere in conto se si fanno determinate
scelte di vita. Ero psicologicamente pronta a vivere una nuova
situazione in un ambiente diverso, ma trovarsi poi a viverla nella
realtà è un’altra cosa. Tuttavia, sebbene fossi partita da sola e non
conoscessi nessuno, la mia voglia di mettermi in gioco e la mia
curiosità verso l’altro mi hanno spinta a conoscere e a farmi conoscere
sempre di più dalle persone del posto. Si pensa che i tedeschi siano
molto freddi e distaccati, ma in realtà hanno solo bisogno di tempo per
conoscerti sempre di più e una volta conquistata la loro fiducia sono in
grado di aprire le porte del loro cuore e ad accoglierti calorosamente.
Così è stato per me.

Ha riscontrato difficoltà nell’accettare le diversità tra i due paesi?
Quando sono partita con una valigia in mano, consapevole che avrei
lasciato alle spalle la mia terra d’origine per un periodo molto lungo,
mi sono portata con me anche le parole della mia cara professoressa
d’inglese del liceo, la quale sosteneva che “conoscere, accettare e
accogliere le differenze culturali diventano la chiave per rendere
un’esperienza proficua e significativa”. Forte di questo pensiero, mi
sono effettivamente scontrata sul posto con la diversità culturale, in
ogni aspetto della vita quotidiana, ma proprio lo “scontro” mi ha fatto
capire che aprirsi a nuovi modi di pensare permette di tener conto che
esistono diverse soluzioni e punti di vista e possiamo imparare
qualcosa anche da altre culture, così come apprezzare ancora di più la
nostra.

Come si è sentita essendo così lontana da casa? Ne aveva nostalgia?
Ritornava spesso?
La lontananza da casa si è sicuramente fatta sentire. Lasciare la
famiglia e gli amici per avventurarsi in un paese nuovo e straniero non
è mai semplicissimo. Quindi avevo sì nostalgia di casa, soprattutto nei
momenti più difficili. Ma ho sempre superato questi momenti
pensando che comunque non ero sola. Grazie alla tecnologia potevo
sentire in qualsiasi momento le persone che avevo lasciato in Italia e
allo stesso tempo sapevo che avevo attorno a me nuovi amici e nuovi
affetti che mi hanno aiutato a gestire anche i momenti di sconforto e
di stanchezza. Inoltre, circa 3 volte l’anno riuscivo a tornare a casa per
ricaricarmi ed essere così pronta per ripartire con il giusto
entusiasmo.

Consiglia a noi giovani di fare esperienze all’estero?
Consiglio assolutamente a tutti i giovani di fare più esperienze
possibili all’estero. Sono pienamente convinta che tali esperienze
siano ciò che permettono alle persone di mettersi veramente in gioco,
di crescere e formarsi caratterialmente e di conoscersi e riscoprirsi
giorno dopo giorno. Venire a contatto con le diversità, imparare ad
ascoltare altri punti di vista e a rispettarli, conoscere nuovi usi e
costumi, scoprire posti nuovi…sono tutti modi utili per aprire la mente
e rendersi conto che non esistiamo solo noi, ma che siamo solo una
piccola parte di un qualcosa di più grande e meraviglioso che si chiama
“mondo”. Inoltre, solo uscendo dal nostro guscio possiamo davvero
affrontare le nostre paure e trovare così la chiave giusta per
superare una difficoltà, così da guardare avanti con più fiducia e
maggiore consapevolezza di sé.

Ora passiamo la parola alla prof.ssa Datz la quale con un’esperienza
altrettanto importante, ci racconta cosa l’ha spinta a trasferirsi in una
grande città come Padova. Spoiler: l’amore ha giocato un grande
ruolo;)

Dov’è nata e cresciuta?
Sono originaria dell’Alto Adige, più precisamente sono cresciuta nel
paese di Caldaro, a circa 15 km da Bolzano.

Com’è stato per lei crescere in una provincia bilingue? Come mai non
aveva imparato l’italiano fin da piccola?
L’Alto Adige è una zona bilingue, nei paesi però è predominante il
tedesco. Nel mio paese per esempio all’epoca c’erano solo i carabinieri
di lingua italiana e le scuole (elementari e medie) erano solo in lingua
tedesca. Solo al momento delle superiori che si trovano nelle città
avrei avuto la possibilità di fare la scelta se frequentare la scuola
italiana o tedesca. Avendo fino ad allora fatto tutte le scuole in lingua
tedesca non me la sarei mai sentita di scegliere in quel momento il
liceo in lingua italiana. Peccato che la scuola in Alto Adige non sia
bilingue e che si debba scegliere tra la scuola in lingua tedesca oppure
in lingua italiana. Ho iniziato a studiare l’italiano sin dalla seconda
elementare ma sempre come seconda lingua, quasi come una lingua
straniera e purtroppo con scarsi risultati. Ho sempre avuto paura di
parlare italiano e questo certo non ha aiutato. Non pensavo che questa
lingua in futuro sarebbe diventata così importante nella mia vita.

Cosa l’ha spinta a trasferirsi nel Veneto e lasciare il suo luogo
d’origine?
Ebbene sì, l’amore mi ha portata qui nel Veneto, a Padova. Mi sono
innamorata di un italiano del sud trasferitosi al nord da piccolo, nella
città padovana.

Ha riscontrato problemi nell’imparare la lingua? Quanto ci è voluto
per comprendere e farsi comprendere?
Non è stato facile all’inizio, ritrovarsi in una grande città
comprendendo circa il 30% della lingua parlata era un’insicurezza per
me. Temevo il giudizio degli altri su questo, avevo ansia da
prestazione, essendo italiana pareva strano che io non conoscessi
bene l’italiano. Ho iniziato comunque a lavorare: ho sempre avuto la
passione per la musica e mi è sempre piaciuto cantare. Arrivata a
Padova un’altra opportunità di lavoro mi è parsa davanti:
l’insegnamento della lingua tedesca. Ho dovuto quindi scegliere tra la
mia passione e una cosa abbastanza nuova per me. Col passare del
tempo ho però coltivato un grande amore per questo mestiere che mi
permette di essere in costante contatto con la mia lingua di origine ma
soprattutto di praticarla.
Comunque, capii di aver acquisito un buon livello di italiano solo
quando iniziai a sognare in questa lingua, cosa che mi parve tanto
strana.

Come ha affrontato la differenza tra il posto in cui è cresciuta
rispetto alla grande città in cui si è trasferita? Come le sono sembrate
a primo impatto le persone del posto?
Innanzitutto avevo solamente 21 anni quando mi trasferii a Padova.
Ero una ragazza giovane che voleva lasciare il suo luogo d’origine
perché era spinta da un’immensa voglia di scoprire il nuovo.
Trasferirsi da un paesino in una città multiculturale come Padova fu
un grande passo per esaudire questo mio desiderio. Mi affascinava, e
mi affascina tuttora, la vita di città: andare al cinema, a teatro, vivere
il centro erano tutte cose nuove per me.
D’altra parte però mi sono dovuta abituare alle usanze del posto. Mi
ricordo ancora quanto mi faceva innervosire quando al momento del
salutarsi si diceva “andiamo” per poi stare a parlare per un’altra
mezz’ora… non ero sicuramente abituata!
A differenza degli abitanti del mio paese, le persone conosciute a
Padova sono state fin dall’inizio super aperte e per questo è stato
molto facile per me integrarmi e fare nuove amicizie.

Torna spesso a casa?
Sì, quando ce n’è l’occasione prendo e vado! Mi mancano tantissimo i
paesaggi immersi nel verde, la natura… ma soprattutto la vita nel
paese, dove tutti si conoscono. Si è come una grande famiglia, infatti
non ci si ritrova mai da soli, tutte cose che da giovane mi davano
fastidio e che ora invece vedo diversamente e apprezzo.
Perciò cerco sempre di tornarci per almeno 1 settimana, tempo che mi
basta per ritrovare la mia lingua e la mia cultura!

Consiglia a noi giovani di fare esperienze del genere?
Certamente, credo che bisogna sempre cercare di uscire dalla propria
realtà per scoprire il nuovo. Immergersi nelle diversità aiuta anche a
capire i propri gusti, a scegliere cosa ci piace. Conoscere più cose dà un
senso di consapevolezza di cosa ci gira intorno!

Valentina Chatziantonis 2BL

La prima volta al di là della cattedra

La maggior parte di noi almeno una volta nella vita ha riflettuto sulla professione dell’insegnante:

estate libera, possibilità di decidere le valutazioni degli studenti, domenica tranquilla e meno di venti

ore alla settimana di lavoro (ai prof che leggeranno quest’articolo: lo so, lo so, non è completamente

vero, ma per il momento facciamo finta che lo sia J). Qualcuno ha mai pensato, però, che cosa si

prova ad insegnare per la prima volta in tutta la vita in un liceo come il Ferrari, rinomato e conosciuto

proprio per le abilità e le competenze degli studenti in ambito umanistico, scientifico, linguistico e

artistico? Beh, proprio per far emergere le emozioni di chi si trova al di là della cattedra, ho deciso

di intervistare la professoressa Carafa, entrata da poco nel mondo di questa scuola…

 

 

Linda: Innanzitutto vorrei iniziare con una breve presentazione… da dove viene e perché ha deciso

di traferirsi a Este?

Prof.ssa Carafa: Mi chiamo Alessandra Carafa, vengo da un piccolo paese distante 30 km da Lecce,

la meravigliosa città barocca del Sud Italia, pertanto sono Salentina! Ho deciso di intraprendere la

strada dell’insegnamento proprio ad Este (e ringrazio l’IIS G.B. FERRARI per avermi accolta) perché

qui ho parte della mia famiglia e perché ho avuto modo, negli ultimi dieci anni, di visitare spesso

questa bellissima città, da cui sono rimasta affascinata.

 

 

L: Quale scuola secondaria di II grado ha frequentato quando aveva la nostra età?

P.C: Alla vostra età ero una studentessa del Liceo Classico “F. De Sanctis” di Manduria, terra del

famoso vino primitivo, a 15 km dal mio paese. Questo liceo mi ha insegnato tanto e spero di aver

lasciato anch’io un segno. Ogni mattina prendevo il treno da San Pancrazio Salentino, il mio paese,

sino a Manduria. La stazione era distante 2.5 km da scuola, ed il Comune non aveva fornito a noi

studenti un bus che ci accompagnasse fino al liceo, per cui io ed altri miei compagni, a volte con gli

zaini colmi di libri, ogni giorno percorrevamo quei chilometri sia per andare a scuola sia per tornare

a casa. I primi tempi eravamo tutti molto scoraggiati, perché quella strada pesava molto, soprattutto

nelle giornate fredde ed uggiose, tanto che qualcuno di noi, proprio per tale motivo, ha scelto di

ritirarsi da scuola. Solo successivamente abbiamo iniziato a comprendere quanto quei 5 km fossero

nulla in confronto a ciò che la scuola poteva offrirci, sia culturalmente che umanamente, ragion per

cui, col passare del tempo, quelle lunghe camminate di prima mattina diventavano sempre meno

stancanti, perché con noi e con i nostri zaini c’era tanta forza di volontà e tanta voglia d’imparare.

 

 

L: Quali erano le materie in cui si distingueva maggiormente o che le piacevano di più quando era al

liceo?

P.C: La materia che preferivo tra tutte era latino; mi piaceva sia la grammatica che la letteratura.

Trovavo grandi stimoli nelle versioni da tradurre (ogni volta i compiti in classe prevedevano una

versione ed io mi mettevo in competizione con me stessa, per superarmi rispetto alla volta

precedente) e trovavo grandi stimoli anche nello studiare il pensiero e le opere degli autori latini,

non a caso la mia tesi di laurea magistrale si è incentrata sullo studio della visione che Tito Maccio

Plauto aveva della donna romana.

 

 

L: Ha sempre voluto fare l’insegnante? Se sì, il suo obiettivo erano le Lettere Antiche o l’idea è

cresciuta con il passare degli anni?

P.C: Ho sempre voluto insegnare materie umanistiche, grazie ai miei docenti che mi hanno

trasmesso l’amore per queste discipline. Questa vocazione si è accentuata negli ultimi anni perché,

per ragioni economiche, ho dovuto alternare lo studio con il lavoro (tutt’altro lavoro!), il che ha reso

ancora più chiaro il mio scopo precipuo.

 

 

L: Quali sono state le sue prime impressioni una volta ottenuto il lavoro qui al Ferrari? Ma

soprattutto… quali sono state le sue prime impressioni una volta conosciuti gli studenti?

P.C: Le mie prime impressioni circa l’IIS G.B. FERRARI sono state e sono (poiché faccio parte di questa

grande famiglia ancora da poco) assolutamente positive. Il personale scolastico ed amministrativo

con cui ho avuto modo di interfacciarmi è stato fin da subito accogliente, attento e assolutamente

disponibile ad aiutarmi e chiarirmi qualsiasi dubbio. Ho percepito stima, collaborazione ed affetto

tra i colleghi. Le impressioni circa gli studenti hanno, con tutta sincerità, superato le mie aspettative.

Ho da subito conosciuto ragazzi “puliti”, dagli occhi vispi, smaniosi di apprendere, di studiare nuove

materie e di accrescere il loro spessore non solo culturale, ma anche umano.

 

 

L: Quali sono le sue paure o i suoi timori riguardo questo nuovo inizio?

P.C: La paura riguardo a questo nuovo inizio? Credo che ogni inizio generi, in tutti noi, la paura del

“non essere all’altezza”. Ho imparato, però, con gli anni, che tutti noi siamo all’altezza di ciò che

vogliamo fare, occorre solo trovare la giusta via per arrivarci, senza mai demordere. Il mio principale

timore è quello di non riuscire a far comprendere a voi ragazzi quanto sia importante studiare,

appassionarsi alle materie, essere curiosi, iniziare a creare il proprio pensiero critico. Sono certa,

però, che il rapporto che si sta instaurando con voi studenti e la vostra vivacità intellettiva consentirà

a noi di viaggiare sulla stessa lunghezza d’onda e perseguire insieme questo scopo.

 

 

L: Secondo lei, riuscirà a trasmettere qualcosa ai suoi alunni?

P.C: Spero che riuscirò a trasmettere qualcosa. L’amore per questo lavoro e la voglia di fare bene mi

guideranno sicuramente.

 

 

L: Crede che rimarrà per molto tempo in questa scuola o l’idea di viaggiare la attrae maggiormente?

P.C: Il clima che avverto in questo istituto mi piace molto, per cui, se potessi scegliere, rimarrei molto

volentieri.

 

 

L: Vorrebbe cambiare qualcosa riguardo al modo di interagire con gli studenti? Dibattiti, attualità,

pensieri e quant’altro?

P.C: Essendo ancora alla mia prima esperienza ed ai miei primi giorni qui, so che il mio modo di

interagire con gli studenti maturerà giorno dopo giorno, conscia che il tempo che trascorreremo e

le lezioni che condivideremo, mi aiuteranno in questo ed aiuteranno anche loro.

 

 

L: Per finire, un’ultima domanda… preferisce trovarsi a scuola nel ruolo di studente o di docente?

P.C: Memore dei miei tanti sacrifici per conseguire la laurea, posso dire che preferisco essere una

docente, perché questo rappresenta il coronamento del mio sogno. Ho voglia, però, di fare un

appunto e dire che anche noi docenti continuiamo ad essere “studenti” … studiamo costantemente,

ci formiamo, ci mettiamo sempre in discussione per cercare i modi migliori non solo di impartirvi

nozioni, ma anche e soprattutto di farvi capire l’importanza dello studio per la vostra formazione

culturale ed umana. Noi professori impariamo costantemente da voi … e miglioriamo!

Ad maiora semper, ragazzi!

 

 

Linda De Checchi IAC