La salute mentale

Durante questa pandemia, sia nel nostro piccolo sia a livelli più alti come quelli governativi, si è finalmente compreso l’importanza che la salute ricopre nelle vite di ognuno di noi. Purtroppo ciò che non è stato compreso è cosa sia la salute.

Quando andiamo dal medico o quando stiamo a casa da lavoro o da scuola o anche semplicemente parlando tra amici, trattando il tema salute si intende sempre qualcosa di evidente, di fisico. Questo aspetto si nota perché per riferire di essere malati la società ci ha abituati a fornire prove evidenti di ciò che affermiamo ed ovviamente ciò non riguarda direttamente la nostra salute mentale, almeno agli inizi. E proprio questo è il problema.

La salute mentale deve essere presa in considerazione e tutelata sin dal principio e non quando già è stata enormemente danneggiata. Essendo qualcosa di più astratto devo dire che, nonostante io consideri la sua tutela fondamentale, è molto più difficile da comprendere rispetto a quella fisica, dato che siamo, per nostra sfortuna, abituati ad una società materialistica che non ci fa vedere oltre il nostro naso. Ciò nonostante credo che una parte della società italiana ne abbia capito l’importanza e pure la politica (anche se non tutta), tanto che con grande sorpresa e, come sempre, ritardo era stato proposto da alcuni parlamentari (i senatori Caterina Biti, Vanna Iori, Eugenio Comincini e la deputata Laura Boldrini) il cosiddetto “bonus psicologo”. Questo provvedimento sarebbe stato introdotto nella legge di bilancio dell’anno 2022 e i parlamentari avevano richiesto una cifra (a mio parere anche molto bassa rispetto al problema) di 50 milioni di euro. L’euforia che si era diffusa ha purtroppo giocato un brutto scherzo, infatti dopo l’approvazione del decreto si è scoperto che questo bonus era stato scartato per mancanza di fondi (chissà come mai però si sono trovati 850 MILIONI che sono stati aggiunti al budget del Ministero della Difesa, che raggiunge quasi quota 26 miliardi). Ma non dobbiamo preoccuparci, possiamo sempre andare alle terme o cambiare i rubinetti del nostro bagno. Evidentemente questi geni non hanno dato ascolto (avevamo dubbi?) né ai giovani né agli scienziati e gli psicologi che da anni, e soprattutto con l’inizio della pandemia, denunciano un aumento esponenziale di letti occupati legati alle malattie mentali che raggiungono stadi avanzati, visto che non è stato dato nessun supporto precedente.

Purtroppo i medici possono controllare solo i casi gravi, cioè con evidenze fisiche, che arrivano in ospedale, ma dietro a questi ci sono migliaia di invisibili che necessitano aiuto non solo economico (ostacolo che si voleva eliminare col bonus) ma anche sociale, personale. Spesso l’andare dallo psicologo è visto come sintomo di pazzia ed è questo che molte volte ci impedisce di farci aiutare. Vorremmo tutelare la nostra salute mentale, ma la figura dello psicologo ci appare come qualcosa di estremo, da folli e per questo tendiamo ad allontanarcene: non vogliamo essere visti come i problematici o disadattati in un certo gruppo sociale.

Questo era tutto ciò che pensavo fino a qualche anno fa. Non a caso appena ho fatto coming out con i miei genitori, alla proposta di consultare uno psicologo ho reagito malamente, bruscamente. Credevo che lo stessero facendo per farmi passare da “malato” (e forse era vero ahahah) o che l’esperto avrebbe dato ragione a loro e per questo ho rifiutato. Riflettendoci ora credo che non sarebbe stata una brutta decisione andarci, anzi, forse avrebbe aperto di più la mente ai miei genitori e a me stesso.

Con l’avvento della pandemia e del lockdown non credo di essere stato l’unico a provare un forte stress ed una solitudine abnorme, di avere avuto quei giorni proprio negativi in cui pensi al peggio perché non riesci più a sopportare la situazione e non hai nessuno con cui parlare e soprattutto che ti ascolta. Il gravoso ruolo di ascoltare e comprendere lo scarichiamo sempre su qualche amico che magari non sa come aiutarci: è per questo che una persona un po’ più esperta e di sicuro paziente ad ascoltarci nei nostri “sfoghi isterici” non farebbe male qualche volta all’anno. Alla fine lo psicologo fa questo. Non ci aiuta in modo mistico, ma ci fa buttare fuori tutto ciò che sta ribollendo dentro di noi.

Noi a scuola siamo fortunati, abbiamo la possibilità di usufruire dello spazio CIC. Anche se per poco tempo, anche se in una modalità non adeguata sfruttiamo al meglio ciò che abbiamo per iniziare pian piano a migliorarci.

 

 

 

Riccardo Alfonso 4BL

 

Achille – un poliziotto in gabbia

Da Cremona a Este Achille primo cane addestrato in forza alla Polizia Locale - Cremonaoggi

 

Ad oggi si leggono costantemente articoli che parlano di campagne e movimenti contro l’odio, la discriminazione, la diversità e via così, ma purtroppo si trascurano spesso altre questioni di grande importanza e che dovrebbero essere messe sullo stesso piano delle precedenti. Una di queste è proprio la violenza sugli animali, l’odio nei confronti di chi non può difendersi da solo e può riservarsi solamente la condizione di subire gli abusi di potere dettati da chi è più forte.

 

Molti saranno a conoscenza di un fatto che qualche settimana fa ha smosso tantissime persone di Este e dintorni, rattristate e deluse per un’ingiustizia avvenuta a discapito del corpo della polizia. Achille, un rottweiler poliziotto di 6 anni e in servizio da 3, è stato rinchiuso in una gabbia al canile senza un apparente motivo, cosa che ha suscitato l’interesse di moltissime persone pronte ad aiutarlo nel ridargli la libertà. Una di queste, nonché protagonista iniziatrice del movimento noto come “#achilleliberosubito”, è l’ex sindaca della città di Este. Lei prima di tutti ha tentato di attirare l’attenzione di più persone possibili sui social, condividendo le foto di Achille e dei suoi accompagnatori, l’elenco dei suoi successi e le ragioni per cui la decisione di allontanarlo dal corpo della polizia fosse sbagliata.

 

Achille è un abilissimo aiutante a quattro zampe, istruito ed addestrato come cane antidroga, impiegato nell’eliminazione dello spaccio e delle sostanze stupefacenti, ma anche nella ricerca di persone scomparse e nella difesa dei propri colleghi. Negli ultimi anni ha totalizzato un gran numero di successi e si è guadagnato la stima di moltissime persone intorno a lui. È stato coinvolto in indagini importanti e perquisizioni, ha aiutato a svolgere controlli antidroga per i quali, come già citato precedentemente, è stato addestrato, ha presenziato nelle scuole per il progetto di sensibilizzazione “Tavolo contro le dipendenze” e infine ha dato un aiuto fondamentale nel ritrovare due persone scomparse. In questi ultimi giorni il suo nome e la sua storia sono stati nella bocca di tutti e ciò ha comportato evidenti e inevitabili fraintendimenti e la diffusione di informazioni false sul suo conto.

 

Il nuovo capitano della polizia locale di Este, in accordo con il sindaco della città, aveva preso la decisione di mandare via Achille fin dal primo momento in cui l’aveva visto e apparentemente nulla sembrava potergli far cambiare idea. La questione è rimasta per un po’ silenziosa e le sue intenzioni non sono state rese note almeno fin quando, due giorni fa, uno dei due poliziotti accompagnatori di Achille, impossibilitato ad accudirlo per alcuni giorni, si è dovuto assentare dal lavoro. È stato allora che sono stati firmati di immediato i documenti per farlo andare via e rinchiuderlo in canile. Negli articoli adesso si possono leggere testimonianze che affermano che Achille sia un cane pericoloso e in procinto di “pensionamento” per l’età avanzata (età che spesso viene sbagliata: Achille ha 6 anni, non 8) e che, vista l’impossibilità di uno dei due poliziotti di occuparsi di lui, non sia sicuro permettere ad una sola persona di badargli.

 

Ovviamente, vista la rivolta nata nell’ultima settimana, cercare scuse per giustificare le proprie azioni sembra la mossa migliore, ma c’è chi non si ferma e continua a lavorare per far riottenere la libertà al rottweiler. L’avvocatessa Laura Massaro che ha preso a cuore la storia di Achille si è impegnata nella causa e ha trovato una soluzione che, a queste condizioni, è certamente la migliore. Achille, dopo essere rimasto per molte ore in gabbia, è stato liberato. Adottato dal suo istruttore e addestratore, il cane ha abbandonato la sua carica e riserva il resto della sua vita a correre felice nella più totale spensieratezza.

Dopo la sua liberazione, il mondo ha ottenuto un successo e all’animale innocente è stato dato l’adeguato riconoscimento per il servizio che ha offerto.

Purtroppo cose di questo genere accadono tutti i giorni e non sempre si riesce a farsi ascoltare, a totalizzare vittorie e soddisfazioni come queste, ma adesso, grazie al nostro aiuto, Achille è finalmente di nuovo libero e pronto per una nuova avventura.

 

 

Rowena Polato 3BL

Oceano Mare – Locanda Almayer

<<Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare  nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.

Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia , impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.

Il cavalletto è ancorato con corde sottili a quattro sassi posati nella sabbia. Oscilla impercettibilmente al vento che sempre soffia da nord. L’uomo porta alti stivali e una giacca da pescatore. Sta in piedi, di fronte al mare, rigirando tra le dita un pennello sottile. Sul cavalletto, una tela. È come una sentinella – questo bisogna capirlo – in piedi a difendere quella porzione di mondo dall’invasione silenziosa della perfezione, piccola incrinatura che sgretola quella spettacolare scenografia dell’essere. Giacché sempre  è così, basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda, per il semplice e infinito potere di quell’uomo che è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà – proprio come sono i passi di quella donna che avvolta in un mantello viola, il capo coperto, misura lentamente la spiaggia, costeggiando la risacca del mare, e riga da destra a sinistra l’ormai perduta perfezione del grande quadro consumando la distanza che la divide dall’uomo e dal suo cavalletto fino a giungere a qualche passo da lui, dove diventa un nulla fermarsi – e, tacendo, guardare. L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame, le setole si tingono di rosso carminio, e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Esse lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere. “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare”. – ed è un pensiero che dà i brividi. Si potrebbe stare ore a guardare quel mare, e quel cielo, e tutto quanto, ma non si potrebbe trovare nulla di quel colore. Nulla che si possa vedere.

La marea da quelle parti, sale prima che arrivi il buio. Poco prima. L’acqua circonda l’uomo e il cavalletto, se li piglia adagio ma precisa, e loro due rimangono lì, impassibili, come un’isola, o un relitto in miniatura. Poco prima del tramonto, ogni sera, una barchetta viene a prenderselo che l’acqua gli è già arrivata al cuore. Plasson, il pittore. E ora che se n’è andato, non c’è più tempo. Il buio sospende tutto. Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero. >>
Alessandro Baricco, Oceano Mare, 1993

Vorrei dirvi che queste parole che avete appena letto le ho scritte io, sarebbe bello. Ma non è così. Questo era il primo capitolo (leggermente modificato) di “Oceano Mare” di Baricco, per l’appunto. Baricco è uno scrittore italiano classe 1958. I suoi libri sono abbastanza famosi,  eccessivamente, ma hanno comunque ispirato varie opere teatrali e il suo capolavoro “Novecento” ha ispirato Giuseppe Tornatore per il film “La leggenda del pianista sull’oceano”. Ebbene sabato 22 Gennaio Baricco ha annunciato, tramite i social, di avere una leucemia. Quando ho letto il messaggio sono diventato cupo, stavo tornando a casa. Non capivo il perché. Certo, una leucemia non fa piacere, ma Baricco non è un mio parente, non l’ho mai incontrato, non sono nemmeno un suo lettore accanito, ho letto solo due romanzi e un breve saggio. Poi la sera, ripensandoci, ho capito che forse ci ero rimasto male perché “Oceano Mare” mi aveva regalato emozioni contrastanti, l’avevo amato ma al contempo non è il libro migliore che abbia mai letto, né dal punto di vista soggettivo, né dal punto di vista oggettivo. Eppure pagina dopo pagina, questa storia surreale, dai toni onirici, narrata in maniera barocca, a tratti snob, mi toccava. Non ho capito se mi stesse accarezzando, o mi stesse prendendo a pugni, ma la sentivo da qualche parte dentro di me. E quindi, mi sono messo a riflettere e a ricordare, le piccole cose che Baricco mi ha donato, pur non conoscendomi. Forse ho trovato qualche risposta e qualche altra domanda. Non le condividerò. Il tutto diventerebbe, lungo, noioso e non potrebbe essere capito da nessuno, se non da me. Ciò che posso dirvi è di leggere. Perché forse anche voi avrete tante domande senza risposte. Forse avete anche voi una gran confusione nel cuore. Se alle superiori non avete queste due cose, beh sappiate che vi invidio. Leggere forse vi aiuterà a trovare delle risposte, o delle nuove certezze. Forse stravolgerà completamente il vostro modo di vedere, vi cambierà, non mi è dato saperlo (per fortuna), posso rispondere solo per ciò che mi riguarda. Così come voi potrete rispondere di ciò che riguarda voi stessi, e forse, se siete molto bravi, qualche altra persona che amate. Non so se ho raggiunto lo scopo che mi ero prefissato, ma poco importa. Ora che ho messo per iscritto i miei pensieri, mi sento meglio.

Possiate vivere molteplici vite in mezzo a sterminate pagine.

Che questa lettura abbia inizio.

Rimettiti presto, Alessandro.

Stefano Piva 4AL, amante di buona musica, buon cinema e buoni libri.

Intervista ai Kennediani

L’anno scorso, l’ex direttrice Sara Boscolo ha intervistato un ragazzo del Lazio per confrontarsi sulla gestione scolastica durante la pandemia e sulla loro percezione della vecchia situazione; ho trovato la sua iniziativa così interessante che ho pensato di riproporla quest’anno.

La prima intervista-chiacchierata vede come protagonisti tre miei amici del J. F. Kennedy: Federico, Tommaso e Asja (dei quali scoprirete in seguito qualcosa in più), che non hanno esitato a darmi una mano e si sono resi disponibili il sabato pomeriggio dopo scuola. Mi hanno raccontato come l’Istituto, in vista del Covid, si è organizzato per poter garantire la sicurezza generale e dunque lo svolgimento delle lezioni in presenza; ma non solo questo, hanno anche fornito informazioni generali sulla scuola che potrebbero rivelarsi nuove ed inaspettate.

 

 

Presentazioni:

F. Mi chiamo Federico Marcolin, vengo dall’Istituto Kennedy di Monselice e frequento la terza A PROD Agraria (“PROD” sta per produzione e trasformazione). Sono appassionato di cinema; mi piacciono i videogiochi e i fumetti manga. Abito a Campagnola di Brugine.

T. Sono Zabeo Tommaso e frequento la terza PROD Agraria al Kennedy; mi piace disegnare ed abito a Campagnola di Brugine.

A. Allora io sono Asja, Asja con la “J” precisiamo, sennò morirete tutti. Abito a Bovolenta, un paesino famoso per le inondazioni. Sono una ballerina di hip hop, il ballo è la mia vita e mi piacciono i videogiochi, il teatro e basta… Sono nella stessa classe degli altri due, qui dietro.

T. Ah, e, posso aggiungere una cosa? Okay, Zabeo Tommaso, alto un metro e ottanta.

J. Questa informazione serve per rimorchiare?

T. Assolutamente sì.

 

 

J. Bene… direi di passare alle domande.

J. Ragazzi spiegate com’è strutturata la scuola, edificio, s’intende.

A. Il Kennedy è costituito da due edifici: la sede centrale e la nuova sede dell’Agrario.

T. L’ Agrario è figo: è fatto a semicerchio, sembra un castello e dal piano inferiore vedi il piano superiore. Tra la sede centrale e l’agrario c’è un passaggio dove stanno costruendo un’aiuola che curiamo durante il laboratorio di produzioni vegetali.

A. Abbiamo due palestre, una nuova ed una vecchia, e abbiamo anche un campo di atletica.

T. E le piscine, ma non ci andiamo…

J. Per via del Covid?

T. No, perché non vogliamo.

 

 

J. Okay, passiamo oltre. Date un parere su com’è l’istituto che frequentate e diteci cosa vi piace e non.

F. Ragazzi, la nostra scuola è assurda perché non ci sono le macchinette per il mangiare e perché sono tutti abbastanza irascibili. Insomma, calmatevi! Cioè non so… Cosa c’è di buono?

A. Il servizio psicologico e i laboratori.

T. Non ci andiamo, quindi…

F. Sì, insomma, non venite qua.

T. Ci sono delle belle serre, il frutteto, laboratori spaziosi anche se non abbastanza perché comunque le classi sono tutte numerose quindi non ci stanno dentro. Il personale è di scarsa qualità e…

J. Intendete l’ATA o…?

T. No, i professori. Sono tutti preparati, solo che, come dappertutto, ci sono i più e i meno bravi; per esempio quelli delle materie d’indirizzo sono molto competenti, gli altri un po’ meno. Ah, e poi sono sempre incavolati anche se stiamo buonissimi. Voto: una stella.

J. Ovviamente noi prendiamo in fiducia le parole di Tommaso dove afferma che sono tutti buonissimi e procediamo…

 

 

J. Bene, arriviamo alla parte clue dell’intervista: come sta vivendo il periodo Covid il Kennedy? Quindi restrizioni, mascherine, regole, se volete darci delle informazioni, se sapete… beh, ovvio che sapete, ci andate a scuola!

T. Io no.

J. Beh, se avete regole particolari, per esempio nei laboratori, dato che voi ne avete più di noi del Ferrari.

A. Allora, penso che ci siano delle regole in comune anche con voi, come per esempio le entrate scaglionate in diversi orari, l’obbligo della mascherina e di igienizzarsi le mani. Le aule vengono arieggiate a ricreazione, che svolgiamo in classe. Per quanto riguarda i laboratori le classi numerose vengono dimezzate.

T. Sì, anche l’anno scorso era così, però c’era il professore che mostrava come fare: noi non facevamo niente e non imparavamo nulla.

 

 

J. Passiamo ad una domanda che riguarda in particolare i ragazzi delle terze, delle quarte e delle quinte: i programmi PCTO e i crediti come ve li danno?

T. Non sappiamo nulla, non ci hanno spiegato niente. Sappiamo che abbiamo 400 ore di alternanza Scuola Lavoro…

A. Non erano 350?

T. Ci hanno consigliato di farle per lo più in terza e quarta e di finirle prima della quinta, così da poter studiare per l’esame.

A. Ma non erano 380? Sapete che se sbagliamo è colpa nostra.

F. Va beh, comunque ne abbiamo molte da fare.

 

 

J. Per quanto riguarda i progetti scolastici, ne farete? Gite? Incontri culturali?

F. Non ci mandano in gita perché tutti i professori ritengono che non siamo dei bravi studenti e che abbiamo un pessimo comportamento, anche se non è vero.

 

 

J. Ultima domanda: consigliereste ai giovani di venire al Kennedy?

T. Bello il Kennedy, anzi no! No, scherzo.

F. Di base è una bella scuola, quindi vi consiglio di almeno andarla a vedere… però, sinceramente viene pubblicizzata troppo bene.

A. Sono d’accordo.

J. Perfetto, ragazzi io vi ringrazio per il tempo che mi avete dedicato.

 

 

Inutile che vi dica che mi sono divertita molto a parlare con i tre compagni di classe, nonostante non siano gli argomenti che di solito trattiamo. È stato interessante conoscere certi particolari del Kennedy: per esempio l’esistenza delle serre, o la struttura dell’agrario, cose che, se non fosse stata per l’occasione, credo non avrei mai scoperto.

Comunque, sentendoli parlare delle loro regole e fornendoci le loro opinioni, mi sono sentita rassicurata dal fatto che le complicazioni e le regole ci sono per tutti quanti, e che possono rivelarsi pesanti, poco pratiche e a volte difficili da seguire, ma comunque necessarie per la salvaguardia comune.

Le mie speranze, condivise anche dai ragazzi, sono quelle di poter restare stabili in questa nuova normalità (basata sulle restrizioni accettabili almeno per noi giovani), soprattutto in inverno, dove di solito si alzano di molto il numero dei contagiati. Speriamo anche di tornare alla vecchia normalità, anche se, come è ormai evidente più o meno a tutti, la nostra vecchia realtà non tornerà più.

 

 

Jo, Giorgia Lazzaro 3CS

 

Centonove

Documento 31_2

Disegno di Matilde Bonaldo IAL

 

Sono 109 le donne uccise dal primo gennaio a oggi in Italia. Una media di un femminicidio ogni 72 ore, ogni tre giorni, due volte alla settimana; la maggior parte di loro sono state assassinate dal proprio partner o da colui che non lo era più ma non lo accettava. Il resto da parenti, conoscenti, sconosciuti. Il 5% delle donne ha subito uno stupro nella propria vita e quasi la totalità è stata protagonista di almeno una molestia. Sono dei dati sconcertanti, nonché la prova del nostro fallimento come umani e come società.

Li sentiamo al telegiornale, li leggiamo negli articoli sui quotidiani o sul web, ci appaiono nelle home dei social; li vediamo, ma raramente ce ne interessiamo sul serio. I giorni precedenti a questa orribile ricorrenza del 25 novembre, la Giornata Internazionale Per L’Eliminazione Della Violenza Contro Le Donne, notiamo un susseguirsi di notizie, statistiche, spot e uno strano improvviso interesse dell’opinione pubblica sull’argomento; il resto dell’anno è una notizia come un’altra accompagnata dalla solita frase “numeri in aumento”, ma oltre a quello non c’è molto. Non si parla mai di prevenzione, non si parla di deresponsabilizzazione, non si parla delle cause, non si parla degli effetti psicologici e men che meno si parla di tutte le altre forme di violenza contro le donne.

Non ce ne rendiamo conto ma tutto questo è un tabù. Se lo si affronta in un contesto scolastico, si finisce per parlare delle solite cose senza una vera informazione aggiornata, utile ed efficace: si dice che la violenza è sbagliata, non si deve uccidere, si deve denunciare subito, ma poi è finita lì. Se se ne si parla in famiglia, la maggior parte delle volte si ricade nel vecchio detto “le donne non si toccano neanche con un fiore” e il discorso si chiude. Se se ne si parla sui social, ci si ritrova davanti un muro fatto di “Basta con questi discorsi, hanno stufato. La violenza contro le donne è poca, perché di quella contro gli uomini non si parla? Ormai si sa che basta fare una denuncia e il problema si risolve”.

È davvero così facile denunciare? Prendi il telefono, chiami i carabinieri, spieghi la tua situazione e lasci che la giustizia, o anzi, l’umanità, faccia il suo corso, oppure ti rechi in un centro antiviolenza e ti fai aiutare. Semplice, no? Sì, nelle fiabe. Prima di riuscire a denunciare, la vittima deve fare da sola un percorso psicologico per capire che sta subendo una violenza, per realizzare che non è pazza, per comprendere che non ha colpe, per racimolare tutta la sua forza mentale e fisica e uscire dalla sua stessa casa con la consapevolezza di tornare come una donna diversa, per condividere il suo dolore con degli sconosciuti che dovrebbero essere lì per aiutarla. In un Paese civile, quest’ultimo punto, l’aiuto, verrebbe preso seriamente, ma l’Italia non è un paese di cui andare fieri, perché sottovalutiamo, minimizziamo, diciamo di parlarne con il partner, di avere delle prove perché la sola testimonianza non è sufficiente (e a volte nemmeno i segni sulla pelle, le contusioni, le fratture e le cicatrici bastano), di tornare se ricapita un’altra volta, di provare la terapia di coppia, di sopportare. Non ci prendiamo le nostre responsabilità. Parlo di “noi” come società, perché se 109 donne sono state uccise la colpa è di tutti coloro che possono fare qualcosa ma non fanno in realtà nulla.

La nostra società riconosce che c’è un problema e che bisogna fare qualcosa subito, ma quando davvero si arriva a parlarne sembra tutto molto lontano, inutile e senza importanza e le statistiche lo dimostrano: un italiano su quattro crede che l’atteggiamento e l’abbigliamento di una donna influiscano sulle sue probabilità di essere violentata, tre persone su dieci credono che uno schiaffo alla partner per gelosia o altre motivazioni futili non sia violenza, un italiano su tre crede che forzare la compagna ad avere un rapporto sessuale senza che lei ne abbia voglia non sia una violenza sessuale. C’è davvero bisogno di spiegare perché abbiamo fallito?

Ci rattristiamo, ci indigniamo, vogliamo condannare gli assassini, ma non pensiamo mai a come sia possibile che così tante persone siano tranquillamente riuscite a far sparire più di un centinaio di vite.

Crediamo davvero che quattro uomini su delle poltrone in televisione siano una voce autorevole sul tema della violenza contro le donne? O che Alfonso Signorini in un programma spazzatura abbia abbastanza voce in capitolo per parlare di aborto con una disarmante superficialità? O che la scuola faccia abbastanza? O che se ne parli troppo? O che sia facile vivere in una società del genere, dove se ho i capelli rossi sono brava a offrire prestazioni sessuali, se mi vesto attillata sono una prostituta, dove se mi gridano “bella gnocca” mentre cammino devo sentirmi lusingata, dove uno schiaffo non è nulla e chi mi dovrebbe proteggere sottovaluta le mie denunce, dove la mia stessa nonna, cresciuta in un ambiente ancora più radicalmente patriarcale, non indossa i pantaloni perché sono da uomo e da “donna di strada”, dove Rete 4 manda in onda uno spot in cui Michelle Hunziker dice che se nascondiamo il fatto che subiamo violenze per paura diventiamo complici del nostro carnefice?

Tutto questo è solo la punta di un enorme iceberg: la pressione psicologica, i ricatti, le violenze subdole che rappresentano un problema enorme di cui pochi si preoccupano e che viene ignorato da molti.

La violenza contro le donne può essere psicologica, fisica, economica, sessuale. Può essere definita stalking, catcalling, discriminazione o disparità di genere. Può essere troppe cose.

Le denunce ai centri antiviolenza non sono mai state così tante e questa è una sconfitta. Qualcuno direbbe che è un bene, che finalmente le donne hanno la forza e il coraggio di denunciare. Ma tutto ciò non è altro che una schifosa disfatta. Finché ci sarà anche solo una denuncia sarà vergognoso e non potremo definirci come una civiltà avanzata e basata sull’uguaglianza. Le scuole dovrebbero fare informazione, dovrebbero spronarci a conoscere la nostra società, dovrebbero formarci come persone e non solo su questo argomento, ma su tanti temi che vengono completamente ignorati e su cui dobbiamo crearci una cultura da soli. Si dovrebbe riformare la giustizia e creare leggi efficienti e messe davvero in atto. Si dovrebbero sensibilizzare correttamente le persone: meno programmi che parlano delle stesse cose negli stessi giorni e più varietà di informazioni corrette, ospiti competenti e temi contemporanei utili.

Rendiamoci conto di quello che ci accade intorno, informiamoci, comprendiamo.

Una delle più recenti ferite che ci dimostra per l’ennesima volta che bisogna cambiare riguarda il 21 novembre, quando la ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti, ha discusso la mozione contro la violenza sulle donne davanti a 8 deputati su 630 che avrebbero potuto essere lì.

Cos’altro serve per dire che c’è un enorme problema sociale?

La Giornata Internazionale Per L’Eliminazione Della Violenza Contro Le Donne è un reminder annuale delle nostre responsabilità, ma sta a noi scegliere se iniziare a cambiare le cose e smontare questa società patriarcale per formarne una paritaria o se ignorare tutto questo e continuare a fare la faccia triste quando parlano di nuovi femminicidi per dimenticarcene un minuto dopo.

Basterebbe solo un briciolo di umanità.

 

Virginia Marchetto IVAC

Intervista a Gianni

Oggi ho intervistato Gianni Simonato, l’operatore scolastico che segue la manutenzione della palestra della Scuola. Due motivi mi hanno portato a farlo: il primo è che Gianni è una delle persone più gentili e disponibili che io conosca all’interno dell’Istituto. Il secondo è che spesso abbiamo una visione limitata dell’ambiente scolastico: conosciamo solo la nostra classe, i nostri professori, il nostro programma scolastico (forse); ma non sappiamo molto di tutte le altre classi, degli altri professori oltre ai nostri, del personale del bar, del gruppo teatrale, di quello musicale, dei rappresentanti, dei coordinatori, del personale scolastico… e con quest’intervista voglio appunto far conoscere meglio una persona che con umiltà, impegno e gentilezza, fa molto per la nostra Scuola.

 

Sara: Ciao Gianni, be’ mi hai detto che posso darti del tu quindi… innanzitutto come stai?

Gianni: Bene, sisi tutto bene.

 

S: Quanti anni hai?

G: Sono un giorno più giovane di Gianfranco – si riferisce al docente di educazione fisica- esattamente 11/12/61, SESSANT’ANNI COMPIO A DICEMBRE!

 

S: Dove abiti?

G: Io abito al Tresto di Ospedaletto Euganeo.

 

S: Hai mai praticato sport?

G: Sì.

S: Cos’hai fatto?

G: Sport non competitivo: mi piace camminare e mi piace il ciclismo. Mi piace fare escursioni in montagna, in particolare nella zona di Braies, l’Alta Pusteria al confine con l’Austria.

 

S: Da quanti anni lavori nella nostra scuola?

G: Non spaventarti… dal 1985.

S: Coooosa?!? Quanti sedi hai cambiato?

G: Be’ quando sono arrivato io c’era il palazzetto dello sport vicino al cinema Farinelli, poi all’epoca avevamo la succursale di fronte alla biblioteca comunale di adesso, la sede centrale e un’altra succursale a Monselice.

 

S: E la palestra com’era?

G: Io non lavoravo in palestra all’epoca… io lavoravo nei vari piani.

S: Ti piace di più lavorare in palestra o…?

G: Sì sì, mi piace di più in palestra, nonostante ci sia più da lavorare; mi piace lo sport di conseguenza mi piace la palestra.

 

S: Fra quanto andrai in pensione?

G: Allora attualmente, il 31 di Agosto, sono 39 anni e 5 mesi… e devo arrivare a 42 anni e 10 mesi per andare in pensione.

 

S: Pensi ti mancherà il lavoro, passati questi ultimi anni?

G: Eh insomma… zè un ciclo dea vita. Nella vita c’è un momento in cui si lavora e dopo si entra nella terza età, nella quale, dicono, si possa fare tutto ciò che non si è potuto fare prima.

S: Quindi hai un po’ voglia di andare in pensione?

G: Ci sono tante cose che non ho fatto in questi anni e che ho voglia di fare… girare l’Italia per esempio! E mi piacerebbe fare tutto l’Appennino con lo scooter.

S: Con lo scooter?!?

G: Sì, tutto l’Appennino fino a Roma.

S: Bellissimo! Corajo però

G: Eh sì mi piacerebbe, spero di stare bene e di poterlo fare… è un desiderio.

S: Bello, non è scontato avere desideri del genere!

 

S: Cosa ti è sempre piaciuto di questa scuola?

G: Be’ il Liceo è sempre stato un punto di riferimento per le scuole di Este… i ragazzi che sono qua hanno voglia di studiare e sono rispettosi verso le altre persone, cosa che non sempre si trova negli altri istituti.

S: E cosa cambieresti?

G: Be’ cambiare non è compito mio: c’è un dirigente scolastico e un DSGA – acronimo per Direttore dei servizi generali e amministrativi. È compito loro cambiare le cose, io non posso esprimermi su cosa si potrebbe cambiare o meno.

 

S: Un aneddoto divertente della tua vita professionale qui al Ferrari?

G: Be’ negli anni ‘90 accompagnavo i ragazzi nelle gite scolastiche con il dirigente M… siamo stati a Roma, Vienna, in Costa Amalfitana e sono state delle belle esperienze.  Se tu mi chiedessi qual è una delle soddisfazioni più grandi del mio lavoro finora, ti direi il fatto che, quando cammino per Este, trovo i ragazzi di allora, che attualmente sono genitori, padri e madri di ragazzi che sono al Liceo e qualcuno addirittura insegna nel nostro Istituto.

S: E com’erano queste gite?

G: Mi trovavo bene… accompagnavo anche i ragazzi a gare sciistiche. A quel tempo avevo un’altra età; ora capisco le responsabilità delle gite scolastiche.

S: Ne hai viste di cose eh!

G: Eh sono entrato al Liceo che ero giovane…

 

S: Un’ultima cosa… un saluto ai ragazzi del Liceo.

G: Allora… saluto tutti gli attuali ed ex alunni di questo Istituto, che diventeranno e sono medici, architetti e tanto altro!

 

Un’ultima cosa che Gianni si è premurato di dirmi ad intervista finita è che vuole assolutamente andare alle Olimpiadi Invernali di Cortina 2026.

 

Sara Bertin 5AC

La nostra (de)generazione

Cari amici del G.B.,

È passato ormai più di un anno da quando è iniziata la pandemia. Chi mai si sarebbe aspettato che la nostra vita sarebbe stata stravolta in questo modo? Chi avrebbe mai pensato che ci sarebbero mancate le nostre solite abitudini? Sono mesi che viviamo con incertezze, sconforti e  con la speranza di un ritorno alla nostra vita quotidiana; forse solo ora stiamo cominciando a vedere uno spiraglio di luce in fondo a questo tunnel buio.
Ma come abbiamo vissuto, e tutt’ora stiamo vivendo, l’inaspettata situazione noi studenti?

Il periodo ci ha permesso di confrontare due esperienze scolastiche differenti: la scuola in presenza e la DaD, ovvero la didattica a distanza. Quest’ultima è stata certamente l’unica opzione possibile per non fermare l’istruzione, con lo scopo di mantenere un legame tra studenti e insegnanti. Nonostante ciò, la lontananza ha portato inevitabilmente molti ragazzi a isolarsi e ha fatto provare a tutti tristezza, nostalgia e molto stress, con una conseguente demotivazione in ogni attività. Invece, coloro che hanno provato a impegnarsi senza perdersi d’animo, si sono sentiti dire almeno una volta “tanto in DaD è tutto più facile”.
Avete idea di quanto sia demoralizzante questa affermazione? In questi mesi la nostra mente è stata portata al limite: da marzo del 2020 la nostra routine consiste nello stare dalle 5 alle 7 ore al computer per le lezioni, poi il resto del pomeriggio e parte della sera sui libri o su un altro schermo per studiare. In effetti, i sintomi fisici non hanno tardato a farsi sentire, mentre le alternative assai ridotte di svaghi ci hanno avvilito psicologicamente. Sembriamo quasi degli automi, macchine che si muovono senza una propria volontà.

Abbiamo raccolto diverse opinioni di studenti della nostra scuola, che secondo noi sarebbe interessante riportare. Alcuni affermano che, sotto più punti di vista, la didattica a distanza sia stata più pesante rispetto a quella in presenza, sia per la mancanza di contatti esterni alla propria famiglia, sia per il carico di studio davvero elevato e da svolgere necessariamente chiusi in casa. Inoltre in DaD è molto più complesso capirci tra noi compagni e con i professori e, come alcuni hanno potuto constatare, proprio questa mancanza di dialogo ha contribuito ad un allontanamento reciproco.
Altri hanno fatto notare come l’appesantimento dello studio a distanza si è riflettuto sullo sport, almeno per i pochi fortunati a poter frequentare attività motorie consentite durante la pandemia. Altri ancora hanno riflettuto sul fatto che, se si verificassero più spesso dei piccoli gesti, che fin’ora sono stati isolati, come fare una pausa durante la lezione per sentire il nostro parere o il modo in cui stiamo vivendo questo brutto periodo, il tutto si potrebbe certo alleggerire.

Un fatto particolare, riscontrato da parecchi studenti, è legato all’enorme differenza tra il primo e il secondo lockdown. Dopo l’estate, c’era tra gli studenti la trepidazione di tornare a scuola in presenza a settembre, poiché mancava la compagnia dei coetanei e si voleva stare in un luogo diverso dalla propria camera. Purtroppo non è stato un ritorno felice.
Certo, abbiamo rivisto i nostri compagni e gli insegnanti di persona e non dietro uno schermo, ma le continue incertezze hanno spinto a cercare di realizzare in presenza più test scritti e orali possibili, quasi come se fosse una vera e propria “corsa ai voti”, molto più pesante dello scorso anno. Quindi, nonostante la seconda quarantena sia stata ovviamente più organizzata per questioni di tempistiche maggiori, la situazione già complicata di per sé non è di certo stata agevolata.
È comprensibile il timore che a distanza si possa copiare più facilmente, ma ci vorrebbe più fiducia nei nostri confronti. Inoltre, è logico ritenere anche che gran parte dei giovani sia consapevole che le azioni compiute oggi lasciano segni nel nostro futuro.

Come detto in precedenza, durante la DaD c’è stata l’impressione che il carico di compiti sia aumentato. Ciò, in realtà, già normalmente è gravoso. Ahimè, è comune che molti studenti siano ansiosi e stressati. Sappiamo bene che per ottenere grandi risultati bisogna lavorare veramente sodo, ma quando si arriva a dover rinunciare ad uno sport o ad una propria passione per prestare attenzione allo studio, vuol dire che la situazione è diventata ingestibile.

Quindi, assolutamente consapevoli del fatto che la situazione complessiva sia assai complicata anche per i nostri docenti e per il personale scolastico – tra l’organizzazione generale, gli orari da stabilire, le lezioni da preparare, ecc.-,  noi studenti ci teniamo a dire che siamo esausti. Abbiamo bisogno di ritornare presto a vivere e stare in compagnia, di dedicare del tempo a noi stessi, sia per coltivare hobby, sia per fare attività stimolanti, sia per riposare la mente. Abbiamo un grande desiderio di conoscenza, che aspetta solo di essere valorizzato da noi stessi e da coloro che lo possono comprendere. Abbiamo bisogno di non perdere le nostre ambizioni e le nostre passioni; di essere compresi, incitati a non mollare e, soprattutto, di non essere lasciati soli.

Con questo articolo, ci piacerebbe sensibilizzare un po’ più persone, al di fuori del comparto studentesco, sul nostro punto di vista. La DaD non è stata certo una perdita di tempo: è stata ardua, stressante e a volte si sono verificate delle incomprensioni.
Crediamo perciò che sia importante far sentire la nostra voce ed esprimere nella massima correttezza la nostra opinione, anche perché, lo sappiamo, la scuola siamo noi, i professori e il personale scolastico.

Grazie dell’attenzione, e buona continuazione dell’anno scolastico.

È tutto da Elisa Polato e Ilaria Ballan.

In alto le bandiere (arcobaleno)

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Disclaimer: Il fantastico articolo che state per leggere è risalente a giugno 2020, ci dispiace pubblicarlo con un così ampio ritardo, ma tenerlo chiuso nell’armadio tra ansie, pare, smalti e maglioni “poco etero” di cattivo gusto mi dava fastidio, per cui ho deciso di riproporvelo proprio adesso che la mia “gay-agenda” (cit. per pochi) e bella piena tra esami e tour mondiali sotto la doccia, per cui buona lettura!

-Il vostro ragazzo dell’armadio

 

Car* lettor*,

Ci rivediamo per la seconda volta nel luogo in cui la parità di sesso diventa realtà e il razzismo risulta sopportabile quanto un tormentone estivo del 2015.

Con l’arrivo dell’estate, oltre che alla solita “Summertime sadness” (cit. per pochi) penso ai gelati, le piscine, al tè alla pesca in polvere (mi dispiace per il team limone) e soprattutto al mese più colorato e GAY dell’anno, il “PRIDE MONTH” detto anche semplicemente giugno (where’s the flavour!?).

Per cui se non si fosse capito, in questo breve ma intenso articolo, vi illuminerò su cosa sia il pride month e quale sia la sua storia.

Che cos’è il pride month?

Innanzitutto penso sia fondamentale capire cosa sia il “Pride month”:

tradotto dall’inglese come “mese dell’orgoglio“, che coincide con il mese di giugno, rappresenta il mese che promuove l’orgoglio, l’autoaffermazione, la dignità, L’ESISTENZA e soprattutto la visibilità della comunità LGBTQ+.

Poiché spesso accompagnato da parate è per questo che si è soliti sentire parlare di quelli che è il “Gay pride” o semplicemente di “Pride“.

Perchè proprio giugno e non un altro mese?

Diciamo che il mese non rappresenta una scelta così casuale, proprio perché nel lontanissimo e caldissimo 28 giugno del 1969, quando la disco era ancora in voga e non un semplice concept, la community LGBT decise di farsi valere rispondendo a modo alla violenza di un gruppo di poliziotti che irruppe all’interno dello “Stonewall” di New York, locale lgbt-friendly, per punire l’”oscenità” di giovani dello attratti dallo stesso sesso oppure intrappolati nel corpo sbagliato, intenti a divertirsi.

Ricordando come tale evento diede inizio ad una serie di manifestazioni e scontri simbolicamente indicati come il momento della nascita del movimento moderno  di liberazione e autodeterminazione della LGBTQ+ community in tutto il mondo.

Alla luce di ciò tutte le parate che dunque vediamo al giorno d’oggi durante il mese di giugno non sono nient’altro che una celebrazione di un momento storico di grande importanza per la community, debutto della lotta contro le ingiustizie nei confronti della community lgbt e manifestazione di orgoglio nei confronti di coloro che per primi non si arresero alla repressione incitando al vero potere della community sotto lo slogan “Say it clear, say it loud, gay is good, gay is proud!”, per i non linguisti “dillo chiaramente, urlalo, gay è bene, gay è orgoglio”.

Due figure iconiche:

Trattando di Stonewall non si possono dimenticare le figure di “Sylvia Rivera” e “Marsha P, Johnson”, attiviste transgender statunitensi , icone dei moti di Stonewall, che per prime, rispondendo alla violenza dei poliziotti newyorkesi lanciarono, leggenda vuole, i propri tacci a spillo (di cui mi duole non sapere il numero) contro coloro, poliziotti e omofobi compresi, che stavano aggredendo ingiustamente ed ingiustificatamente decine di giovani omosessuali, lesbiche, transgender ecc. con manganelli e pugni.

Quando nacquero i gay pride?

Come detto in precedenza i moti dello Stonewall diedero inizio al movimento LGBT ed esattamente un anno dopo quel tacco a spillo lanciato ad un poliziotto, il primo gay pride venne organizzato sotto il nome di “Christopher Street Liberation Day March”, manifestazione durante la quale in numerosissimi scesero in strada indossando i vestiti più sgargianti che potessero avere, a ricordare come le regole sociali fossero regole di repressione e alle quali nessuno aveva più voglia di sottomettersi.

Sarà successivamente a Los Angeles che nello lo stesso anno (1970) verrà organizzata una vera e propria parata, simile a quelle odierne.

Ma che cos’è un gay pride? È un carnevale!?

I più “bigotti” o le più “bigotte” (gender equality be like) affermerebbero che il pride sia paragonabile ad un carnevale, ma per quanto la somiglianza possa essere palpabile, si tratta comunque di una definizione leggermente superficiale

È vero, il pride è un’esplosione di colori, brillantini, coriandoli, strass e paillettes, ma dietro le quinte di tutto ciò abbiamo festival del cinema, come il “GBLF Film festival” di Torino, presentazione di libri, dibattiti, di cui i media spesso non parlano, in quanto eventi minori, ma non per importanza.

Il fatto che il pride sia un evento così sgargiante è strettamente correlato alla cultura LGBT, stravagante per eccellenza, e alla necessità di rompere gli schemi e mostrare al mondo la propria esistenza, come per dire “se non ci volete vedere, noi ci rendiamo ancora più visibili!”, una tattica brillante!

Posso partecipare se non sono LGBT+?

Assolutamente sì, non è necessario essere gay, lesbica, trans, bisessuale ecc. per poter partecipare al pride, non esistono delle regole, degli standard, dei prerequisiti, dopotutto il pride è anche la celebrazione della diversità!

Senza dimenticare che l’unione fa la forza ed in più si è meglio è, perchè questo vuol dire che il mondo sta imparando ad accettare anche ciò che sembra non andargli a genio a causa di leggi o regole prive di senso.

Inoltre alla fine il pride rappresenta una lotta per i diritti, è se non mi sbaglio i diritti sono per tutti e lottare per i diritti non è per niente una cosa sbagliata!

Per cui se ne hai la possibilità raggiungi i tuoi amici lgbt e supportati nella loro causa, fa sempre piacere avere qualcuno che ci accetta e ci copre le spalle.

Cosa significa per me il gay pride/pride month?

Tralasciando strass, luci e  bellissimi ragazzi a torso nudo (chi vuole intendere intenda), il tutto sulle note di “Born this way” il gay pride è molto più che una mera parata, è un momento di celebrazione, di comunità, di condivisione di quella gioia che è sentirsi parte di qualcosa più grande, di supporto reciproco di fronte alle continue discriminazioni e difficoltà che noi “non-etero” siamo costretti a subire passivamente in una società che spesso non ci vuole o semplicemente non ci capisce, perchè c’è molto da capire quando si tratta d’amore no!?

In qualsiasi caso questa grande festa è il segno della nostra forza, della nostra volontà di lottare e del nostro amore per le differenze che ci rendono tanto speciali, perché volete mettere un mondo in bianco e nero? Anche no, perchè quest’anno va di moda il giallo!

 

Siamo dunque giunti alla fine di questo articolo, per chiudere in tutto in bellezza desidero dunque congedarmi con una cit. di un’artista di cui non penso sia necessario fare il nome (Lady Gaga):

Don’t hide yourself in regret

Just love yourself and you’re set

I’m on the right track, baby, I was born this way

Heroes come and go, but legends are forever

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26 gennaio 2020. Un anno. Eppure sembra sia passata un’eternità. In quel periodo vivevamo ancora senza l’idea che, di lì a poco, una pandemia globale avrebbe cambiato completamente i nostri concetti di “normalità” e “quotidianità”.

Era una tranquilla domenica sera di gennaio, quando all’improvviso il mondo, per un istante, si è fermato. TMZ.com, sito web di gossip, rilascia la notizia secondo cui Kobe Bryant, celebre campione e leggenda NBA, è deceduto in seguito ad un incidente sul suo elicottero privato. Il velivolo in questione, un Sikorsky S-76B, pare essersi schiantato su una collina vicino a Calabasas, cittadina a circa 30 miglia a nord-ovest dal centro di Los Angeles. All’inizio non sembra vero, la mente e il cuore dei tifosi sperano che sia l’ennesimo scherzo di cattivo gusto e che tutto si risolva al più presto con una smentita, magari direttamente dalla superstar.

Tuttavia, passano i minuti e altre testate giornalistiche cominciano a confermare la notizia e anzi, cominciano ad emergere altri dettagli: sono altre 8 le persone coinvolte nella tragedia, tra cui la figlia quattordicenne Gianna Maria. Lo schianto pare essere avvenuto in quanto il pilota, a causa della folta nebbia e della bassa quota, non sia riuscito a vedere in tempo utile l’ostacolo e ad evitarlo. Molti potrebbero essere indotti a pensare che il problema fosse legato al mezzo impiegato per spostarsi, inusuale e pericoloso, rispetto alla comune automobile, ma c’è da sapere che Kobe quel mezzo lo usava spesso, anche durante la carriera da giocatore, perché gli permetteva di evitare l’intenso traffico cittadino e tornare a casa prima dagli allenamenti per passare più tempo con la moglie Vanessa e le quattro figlie.

Il cuore di milioni di appassionati di sport, si era fermato per un istante: Kobe Bryant era appena morto. Chi avrebbe mai potuto aspettarselo o essere preparato ad una cosa del genere? Chi avrebbe potuto immaginare che un campione del genere potesse abbandonarci all’età di soli 41 anni?

Molto spesso, si tende a dimenticare il fatto che anche loro sono umani: hanno quindi gli stessi problemi, preoccupazioni, ansie che abbiamo noi e, soprattutto, sono mortali. Vedendoli in tv sembrano invincibili, quasi supereroi, che fanno il lavoro più bello del mondo e vengono pagati profumatamente per farlo. Ma ciò che è successo ci ha dato l’occasione di vederli sotto l’occhio, non del tifoso, ma quello umano: Kobe prima di essere una leggenda del basket era un padre, marito, figlio, fratello e amico.

Ma come mai Kobe Bryant è così amato dalle persone? Kobe Bryant è la cosa più vicina a Micheal Jordan alla quale abbiamo potuto assistere dall’inizio del nuovo millennio. Entrambi condividevano l’amore incondizionato per la palla a spicchi, la volontà di essere i migliori, la determinazione e la ferrea etica del lavoro per raggiungere i propri obiettivi, e la capacità di risultare decisivi nei momenti di massima pressione nei palchi più importanti della pallacanestro.

“I grandi sogni i realizzano attraverso piccole conquiste quotidiane. Devi avere piccoli obiettivi che ti portano a quello finale”

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La giornata tipo del Black Mamba (soprannome che si era autoassegnato per dire che era in grado di mantenere il sangue freddo in ogni situazione) cominciava alle 4 del mattino e comprendeva 3 allenamenti al giorno, nei quali curava la preparazione fisica e quella tecnica con un’ossessione maniacale per il dettaglio.

Ogni sfida e avversario che incontrava sul parquet, era un’occasione per mettersi alla prova, dimostrare a se stesso di essere il migliore. Quello che lo separava dagli altri grandi campioni era proprio il fatto che la sua intensità rimanesse la stessa in tutte le occasioni, sia che la squadra fosse in largo vantaggio o che, al contrario, avesse di fronte uno scarto apparentemente incolmabile.

La “fame” agonistica che aveva Kobe non ce l’aveva nessuno, e ogni tifoso (dei Lakers o meno) guardava a lui come persona da ammirare per l’amore che metteva nel fare il proprio lavoro.

Che effetto fa vedere un giocatore che si è appena rotto il tendine d’Achille, vedere che invece di farsi portare via in barella o disperarsi, trova la forza di camminare da solo fino alla linea del tiro libero, fare 2/2 e solo dopo, abbandonare il campo sapendo che quell’infortunio lo terrà fuori per tutto l’anno successivo? Che effetto può suscitare l’immagine di un giocatore che si è appena rotto il polso della mano destra e di conseguenza col gesso, presentarsi come sempre in palestra, per sfruttare l’occasione ed allenarsi per migliorare il tiro con la mano sinistra? Sono scene particolari, insolite, che per anni hanno ispirato numerosi sportivi e persone ad applicare la cosiddetta “Mamba Mentality” nel proprio campo sia che fosse lavorativo, sportivo e umano.

 

Kobe e l’Italia

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Le storie americane e i loro grandi personaggi… e se vi dicessi che la storia del nativo di Philadelphia comincia proprio in territorio italiano? E se vi dicessi che parlava benissimo in italiano, seppur vivesse in USA gran parte dell’anno e che l’unica occasione per tornarci era qualche sporadica vacanza? Kobe amava l’Italia, che ha chiamato “casa” fino all’età di 13 anni.

Cosa ci faceva Kobe in Italia? Il padre Joe militò in serie A2 italiana in 4 città: Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, che tutt’oggi sono tra le più importanti piazze del basket italiano. L’amore per la nostra patria l’ha manifestato in più di qualche intervista elogiando il lavoro che si propone ai bambini con l’obiettivo di insegnargli a padroneggiare in modo completo le basi della pallacanestro, piuttosto che il sistema americano che tende molto spesso ad esaltare giovani talenti, spremendoli per farne da subito macchine da soldi piuttosto che curare i cosiddetti fondamentali, rendendoli così molto prevedibili e solamente showman, piuttosto che veri giocatori di basket completi.

Un legame fortissimo con il tricolore trasferito anche alle proprie figlie, chiamate con nomi

che evocano il Bel Paese e i suoi luoghi: Natalia Diamante, Bianka Bella, Capri Kobe e Gianna Maria-Onore.

Kobe Bryant ha lasciato un segno indelebile non solo nella storia del basket, ma in quello della storia, come modello di uomo da seguire. Un uomo non di certo invincibile, che ha commesso i propri errori, ma che ha saputo rialzarsi di fronte alle difficoltà e ha cercato di aiutare sempre il prossimo. In un’intervista disse che la più grande sconfitta per lui come uomo sarebbe stata quella di essere ricordato per essere stato uno dei più grandi giocatori di basket e non per ciò che ha fatto durante tutta la sua vita.

Non ci sarà più un altro Kobe, e nemmeno c’è il bisogno che qualcuno provi ad essere esattamente ciò che è stato ora tocca a noi conoscere e ispirarci alla sua storia e portare avanti la sua “legacy” (eredità), in qualunque cosa noi facciamo.

“La lezione a cui tengo di più è quanto è importante amare quello che fai. Tu non puoi fermare le persone che vedono limiti nei tuoi sogni, ma puoi fare in modo che quello che dicono non diventi realtà. I tuoi sogni dipendono da te. Io ti incoraggio ad essere sempre curioso, a ricercare le cose che ami, e a lavorare sempre duro una volta che le hai trovate. Ora ti lascio proseguire la tua serata, ma sappi che io sto pensando a te ti supporto e ti incoraggio sempre ”.

Mamba out.

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Alessandro Moro 5BS

 

 

 

 

Studiare in tempi di lontananza

In questi giorni memorabili che sicuramente entreranno nei libri di storia, sento di dover condividere una riflessione sulla situazione scolastica che noi studenti stiamo vivendo.

Da giorni, anzi, da mesi, sentiamo politici e ministri litigare con fervore sul nostro possibile o meno ritorno a scuola. Da studente appassionato quale sono, non posso fare a meno di ammettere che mi piacerebbe moltissimo poter nuovamente sedere in aula, poter dialogare vis à vis con i miei professori, poter ridere e scherzare col compagno di banco, poter condividere un pandoro col resto della classe, poter sentire dal vivo la spiegazione di una poesia… Desideri che un tempo mi sarebbero sembrati scontati, quasi “roba da tutti i giorni”. Desideri che ora sembrano appartenenti a un’epoca passata. E forse lo sono veramente.

Ma non è questo ciò su cui voglio in questa sede concentrare la mia attenzione.

Sembra quasi che la cosiddetta DaD ci permetta, stando a tanti discorsi che si sentono, di accedere a un grado di istruzione inferiore, che non ci fornisca i medesimi strumenti di quando eravamo in presenza. E, soprattutto, sembra che noi studenti perdiamo ogni impegno e costanza davanti al computer.

Senza dubbio le lezioni in presenza sono preferibili. Consentono di instaurare un dialogo migliore, sono più coinvolgenti e, cosa che per me è sempre stata fondamentale, più appassionanti.

Non si dimentichi l’etimo latino di “studio”, da studium, che tra i vari significati appunto possiede anche quello di “passione”. Passione che per me è essenziale per poter veramente assimilare e far miei quei concetti e quei temi che già altri, nel corso del tempo, hanno affrontato e sviscerato.

Tuttavia, con gran disappunto di tutti coloro che pensano il contrario, le lezioni al computer, perlomeno per quanto ho potuto constatare, non sono mai state per noi un momento di vacanza. Non sono state un momento di disinteresse. Non sono state un momento di minor impegno.

E con noi hanno continuato a impegnarsi anche i nostri professori, che si sono scervellati cercando di concepire nuove modalità di spiegazione e nuove metodologie didattiche, su queste piattaforme digitali che prima della quarantena nessuno conosceva.

Cari lettori, come credo molti di voi sapranno, la DaD appunto non è un’occasione di relax e negligenza. Chi ha veramente voglia di studiare, di appassionarsi a ciò che ha deciso di approfondire, non si ferma davanti all’ostacolo della lontananza. La cultura è sopravvissuta al medioevo ellenico, alle invasioni barbariche e addirittura a ben due guerre mondiali: non sarà un computer a fermarla.

Anche perché, per quanto assurdo può sembrare, studiare mi piace.

Senza perdersi in troppi giri di parole, la motivazione fondamentalmente è una sola: studiare permette davvero di entrare in contatto con i pensieri e le riflessioni di generazioni di uomini che sono venuti prima di noi, uomini che hanno speso la loro vita e investito il loro ingegno per lasciare traccia delle loro idee, delle loro opinioni… Pensieri di uomini del passato che hanno concorso allo sviluppo e all’evoluzione dell’uomo nella storia. Pensieri di uomini come noi, che nei secoli hanno osservato la realtà che li circondava (o che si trovava dentro di loro) e, in un modo o nell’altro, l’hanno descritta. L’hanno condivisa. L’hanno comunicata a noi, che siamo ereditieri e custodi di un così prezioso tesoro.

“Un possesso per sempre”, direbbe Tucidide. E come infatti ci ricorda poi il buon Cicerone, “ignorare tutto quello che accadde prima che tu nascessi, equivale ad essere sempre fanciullo” (“nescire autem quid ante quam natus sis acciderit, id est semper esse puerum”, Orator).

Come se, d’altronde, copiare durante una verifica a distanza fosse così facile come molti credono. Certo, possiamo avere libri e quaderni a portata di mano, fuori dalla visuale della telecamera, schemi e appunti affissi al muro dietro allo schermo del computer, post-it sparsi per tutta la scrivania… ma non sono le pure e semplici nozioni ciò per cui siamo valutati. Le prove che siamo chiamati ad affrontare, fortunatamente, richiedono capacità di ragionamento e d’argomentazione, nonché una buona padronanza delle conoscenze per poter tessere un discorso coeso e completo, per poter individuare nessi logici e relazioni… insomma, dobbiamo metterci del nostro.

Ci tengo a ribadirlo: la didattica a distanza non è “più facile” della scuola “normale”. E noi studenti – e così nemmeno gli insegnanti – non siamo in vacanza dallo scorso febbraio.

Anche se questo dato di fatto sembra assurdo a molti.

Per quanto anch’io frema dal desiderio di poter rimettere piede a scuola, è necessario che ciò possa essere fatto in sicurezza. E per coloro che lo desiderano veramente, di certo la loro formazione non risentirà in negativo di questi costretti momenti di lontananza.

 

Francesco Grosselle 4AC

 

 

 

Google crash: la caduta di un colosso?

Nella tarda mattinata del 14 dicembre abbiamo assistito a un episodio che ha suscitato molto scalpore e perplessità in tutta la popolazione mondiale, in particolare tra noi studenti. Per circa 45 minuti, si è verificata una brusca interruzione del funzionamento di Google e di alcune piattaforme a esso associate.
Nella nostra vita, soprattutto per noi del Ferrari, le applicazioni di Google hanno assunto un ruolo importante negli ultimi 2 anni: Google Meet, Classroom e Gmail vengono utilizzate dagli studenti quotidianamente. Ciò che più ci ha colpito è come, per un banale bug dovuto a un sovraccarico dei server, la DAD sia stata quasi totalmente compromessa e l’incessante susseguirsi delle lezioni, anche solo per 10 minuti, si sia dovuto arrendere di fronte a tale causa di forza maggiore.
Questo avvenimento ci ha fatto riflettere sull’importanza e il peso di Google nella nostra vita: con il lockdown infatti non possiamo più incontrare gli amici o impegnarci in modo serio in qualche passione extrascolastica, ma, al contrario, tutti i nostri sforzi sono concentrati sulla scuola, che ormai occupa il centro delle nostre giornate. Un congelamento più prolungato delle piattaforme Google porterebbe a un’apocalisse digitale, poiché non si limiterebbe solo a privarci di un utilizzo personale e di svago, ma anche del nostro dovere e lavoro.
Un imprevisto di tal genere ha messo in evidenza l’esistenza di un monopolio assoluto e incontrastabile da parte di Google: infatti le sue applicazioni sono le più usate del web e ci facciamo ricorso durante tutto l’arco della giornata per via del nostro dovere da studenti. In secondo luogo, ci ha aperto gli occhi su quanto siamo dipendenti dalla tecnologia, di cui non riusciamo né possiamo fare a meno.
Ciò che è successo la scorsa settimana non ha di certo stravolto le nostre vite, bensì ha lasciato spazio a una spontanea riflessione: quanto è cambiato il nostro rapporto con Internet per via della didattica a distanza? In che modo tale mezzo d’istruzione ha influito sull’uso dei servizi Google? È evidente come, in seguito alla chiusura delle scuole, l’utilizzo delle piattaforme annesse a Google da parte degli studenti, in particolare per noi del G.B. Ferrari, abbia subito una costretta deviazione, passando da avere un fine d’interesse quasi puramente personale e dilettevole ad assumere un impiego maggiore nell’ambito scolastico e informativo. Ciò ha portato anche ad enormi conseguenze sull’utilizzo di app come Classroom e Meet, che hanno conosciuto un aumento degli utenti a partire da marzo 2020, con il risultato di un incremento considerevole del patrimonio del grande colosso di Mountain View.
-Giacomo De Carlo, Elisa Renzulli e Carlo Saffioti della 3^BS

Incontro Lazio-Veneto: le esperienze e i punti di vista di due studenti di quinta nell’anno del Covid-19

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Premessa:

A scuola tra le tante cose si impara anche che, a parte forse sotto l’impero romano, l’Italia è quasi sempre stata un territorio frammentato, palco di numerose vicissitudini che hanno portato a mantenerne una fitta diversità culturale anche ai giorni nostri. Ma ci sono tratti comuni che condividiamo in tutta la penisola.
Proprio quest’anno poi, la nostra italianità, l’unità che comunque ci caratterizza, la nostra fame di contatto e il bisogno di stare tra la gente, sono state particolarmente minate. O forse le esperienze comuni ci hanno uniti ancora di più, nonostante i vari isolamenti?
Dunque io, da semplice e umile studentessa, ho voluto provare ad indagare proprio in quella Roma che aveva bene o male garantito un’iniziale coesione delle terre che, un tempo come ora, definiamo Italia; in quella capitale insomma che oggi suddivide il bel Paese in regioni variopinte per motivi di sicurezza nazionale.
Eccomi dunque ad ideare un’intervista-chiacchierata con il mio amico Valerio Timo originario di Aranova, poco sopra Roma, frequentante come me la quinta scientifico tradizionale, del liceo Sandro Pertini di Ladispoli: ci siamo confrontati soggettivamente su tematiche oggettive, su quello che ancora adesso stiamo sperimentando sulla nostra pelle. Di seguito il link del giornalino scolastico di Valerio, dove potrete trovare le mie risposte all’intervista:

https://www.liceopertiniladispoli.edu.it/resnovae/2020/12/10/covid-e-scuola-veneto-e-lazio-a-confronto

Liceo Sandro Pertini, Ladispoli
Liceo Sandro Pertini, Ladispoli

Sara: “Che aria si respira nel Lazio?”

Valerio: “Nella mia zona la situazione è tesa perché nonostante la regione sia una delle poche regioni gialle, nei pressi di Roma c’è molto poco controllo, quindi ad esempio anche ad Aranova può essere che al supermercato trovi un assembramento enorme anche se hanno tutti la mascherina. Quindi sì, non sai bene quanto sei effettivamente protetto, e comunque i contagi ci sono: ad esempio alle medie, dove va mia sorella, la sua classe è in quarantena e non è l’unica classe in isolamento. Nei centri un po’ più grandi forse c’è un po’ più di controllo, ovviamente è più facile trovare situazioni di assembramento, ma questo perché ci sono i mezzi, movida non più, però insomma, comunque la gente si muove: le passeggiate le fai, quindi se vai a Piazza di Spagna, per dire trovi parecchie persone. Ufficialmente siamo messi bene, in realtà non troppo, come tutti tra l’altro: la si sta prendendo un po’ sotto gamba. Personalmente temo la zona arancione.”

S: “Cosa ne pensi dell’organizzazione Covid-19 qui in Italia?”

V: “Secondo me la situazione poteva essere decisamente peggio, se guardiamo altri esempi europei, come Francia, Spagna ecc., là è preoccupante. Però è anche vero che la cattiva gestione della prima ondata un po’ gliela perdono, perché erano tutti impreparati. Il lockdown forse è stato un po’ estremo, ma è stato necessario e ci ha permesso di avere più libertà in estate.
Alla fine è stata la gestione dopo il primo lockdown il vero problema, proprio in estate è stato veramente un rilascio totale di tutto: per moltissimi il Covid-19 era sparito, quindi di fatto bisognava aspettarsela la seconda ondata, visti i comportamenti irresponsabili di certa gente. Io ritengo che avrebbero dovuto mantenere la presa e non allentare così tanto le misure.”

S: “Come hai vissuto il primo lockdown?”

V: “Bhe io il primo lockdown l’ho cominciato con un isolamento forzato dalla preside, perché a scuola era trapelata la notizia che io avevo passato le vacanze di Carnevale con la mia fidanzata* di Padova, ed erano da poco stati annunciati i primi casi di Vo… quindi sì ecco, tutti molto informati…perché non diventassi l’untore del Pertini mi hanno costretto a casa.”
(*Elena, una mia amica tramite cui ho potuto conoscere Valerio.)
V: “All’inizio la narrazione è stata così talmente approssimativa e confusa che io non sapevo bene cosa pensare di questa cosa; qui non si sapeva se il virus fosse effettivamente vero, se fosse pericoloso, soprattutto perché finché a Roma non ci sono stati i due casi allo Spallanzani, la spiegazione dei fatti non era come quella che poteva essere stata da voi in Veneto per Vo, il primo focolaio. Finché non hanno chiuso scuola non era ancora obbligatorio portare la mascherina: io non lo facevo, ma non perché fossi un ribelle, perché non era chiaro fosse strettamente necessario. Da noi hanno chiuso scuola circa due settimane dopo di voi, da un giorno all’altro ci siamo trovati a casa.”

Lo Spallanzani a Roma
Lo Spallanzani a Roma

V: “Non si era capito che il lockdown sarebbe durato così tanto, è stato inaspettato e infinito, ma non è successo proprio niente, quindi ad oggi ti sembra essere passato tutto in un lampo.
Io ero paralizzato. Tutti dicevano di vedere il lato positivo, sfruttare la cosa come un’occasione per lavorare su se stessi, imparare a fare cose nuove. Altri sostenevano avessimo più tempo per studiare, ma in realtà anche no, perché non sei a casa tranquillo sereno e felice, sei chiuso a casa e te voi sparà.

S: “Come riassumeresti questo periodo?”

V: “Se vuoi una mia parola tematica, penso ‘angoscia’, ecco: non paura di stare male, perché comunque sembrava una cosa lontana seppur vicina…l’opposto di serenità insomma. Non fai altro che stare a casa e sentire cosa succede fuori, fidandoti dei giornali di fatto.”

Sia io che Valerio abbiamo parlato dei media, e di come gli articoli, spesso imprecisi e infondati, con cui venivamo bombardati ogni giorno, non abbiano aiutato per nulla le circostanze, rendendole ancora più caotiche e spaventose.

S: “Come si è organizzata la tua scuola in questo periodo?”

V: “La preside da noi è stata diligente e tempestiva, perché c’era tanta paura, quindi ogni cosa suggerita veniva fatta: le norme sono state seguite anche troppo forse… Durante la prima ondata comunque non è che ci fosse stato tanto da fare.
Con la seconda invece i banchi sono arrivati, le misure sono state seguite: sono state sfruttate le diverse uscite dell’edificio per evitare assembramenti. Il resto era responsabilità degli studenti, la scuola più di tanto non poteva fare. Il primo giorno c’era calca davanti al cancello perché c’eravamo tutti, ancora non erano stati scaglionati gli orari meticolosamente, come poi è avvenuto in seguito.”

I famosi banchi con le rotelle
I famosi banchi con le rotelle

S: “Con che ritmi avete seguito le lezioni?”

V: “Hanno scaglionato praticamente da subito biennio e triennio, che entravano rispettivamente alle 8 e alle 9; poi a causa dei mezzi pubblici gli ingressi sono stati posticipati di un’ora quindi alle 9 e alle 10. Col 75% in Dad, si stava in presenza solo un giorno alla settimana, che da noi è sempre stata dal lunedì al venerdì, anche prima della pandemia. Le classi frequentavano in presenza, con ogni annata assegnata ad un giorno di 4 ore da 45 minuti di videolezione.
Mi chiedo come fa ad esserci una differenza di monte ore da regione a regione e questo da sempre, so che da voi in Veneto è abitudine fare il sabato, mentre qui no.”
(Me lo chiedo pure io Valerio…)

S: “Il corpo studentesco invece com’è messo?”

V: “I rappresentanti d’istituto quest’anno da noi non vengono ascoltati davvero, perché la scuola ritiene intoccabili -giustamente o meno- le indicazioni fornite dal governo, in parole povere non ci si lamenta, perché sarebbe invano. Non sono stati nemmeno propriamente eletti, c’erano meno candidati del previsto: c’è stata meno democrazia scolastica e personalmente io penso sia stato proprio specchio del governo stesso.”

Entrando poi nello specifico in argomento voti, profitto, bagaglio culturale, apprendimento in sé, abbiamo appurato che entrambi, particolarmente per quanto riguarda le materie di indirizzo -già pigri di nostro-, siamo stati svantaggiati dalla necessaria e inevitabile organizzazione della didattica a distanza.

V: “Se tu studi sempre tutto benissimo, sarai sempre bravo, anche se le videolezioni sono tarate per gli alunni che hanno più difficoltà. Non ci sono tuttavia gli stessi ritmi, assolutamente, ci sono meno ore e il programma è stato tagliato: ci hanno tagliato il programma invece di fare più ore in Dad e diciamocelo, dal punto di vista dello studente pigro, quale sono, avere meno ore mi sta anche bene, però molti chiedono più cose spiegate più velocemente e in modo più sintetico. La Dad è comunque pesantissima, perché non passi troppo tempo a fare lezione però ti viene richiesto almeno tanto quanto ti veniva richiesto prima, e questo quando lo metti nell’ottica del quinto anno è ancora peggio in quanto non sei sicuro a cosa stai andando in contro, di cosa ti resterà in futuro. Tutti si aspettano che ci si metta l’anima nello studio, perché tanto non abbiamo niente da fare perché facciamo poche ore, no?”

V: “La Dad non è sicuramente una situazione ideale per imparare le cose, non perché internet sia un cattivo mezzo, le lezioni online effettivamente si facevano anche prima del Covid-19 con ad esempio masterclass, magari non nell’ambiente liceale scolastico. Là fuori è pieno di servizi di apprendimento in streaming, però hanno le attrezzature adeguate, sono preparati e lo gestiscono con consapevolezza. Un insegnante medio del liceo non è abituato a questa modalità. La rete dell’istituto non funziona. I ritmi saranno sempre sbagliati perché si sforzano -senza riuscirci- di imitare la scuola vera su internet, che contribuisce a creare ancora più confusione in una situazione di per sé semi apocalittica.
In Dad io sento una grande distanza. Ritengo che anche gli insegnanti siano vittime: nessuno vorrebbe vivere questa situazione secondo me.”

S: “Sul temutissimo esame hai niente da dire?”

V: “A parte pochi casi in cui la Dad è gestita bene, si ha paura di come sarà l’esame anche perché c’è più incertezza di prima: da noi dicono che si svolgerà come quello dell’anno scorso, quindi solo un grande esame orale; il che è positivo fino ad un certo punto, perché comunque in realtà devo fare questo esame singolo su cui dipende tutta la mia preparazione su un programma fatto un po’così… insomma non sembra veramente di andare a scuola, non concretamente, non nel modo a cui sono stato abituato, che aveva i suoi difetti e i suoi pregi, ma con cui mi trovavo decisamente meglio di ora”

Entrambi concordiamo che tornare in presenza sarebbe auspicabile, soprattutto con la prospettiva di due maturandi, ma sul discorso esami gravano le ore perse quest’anno, e maggiormente l’anno scorso. Tutti speriamo non ci sia la temuta seconda prova. Valerio si interroga sulla valenza di un esame svolto così e del bagaglio culturale dei singoli studenti, che ricadrebbe inevitabilmente almeno sull’introduzione al mondo universitario.

Conclusione semi scontata: #lontanimavicini

Mi è piaciuto molto parlare con Valerio e poter dare sfogo a tutto il mio drammatico vittimismo.
Scherzi a parte, è stata un’esperienza molto interessante: mi sembra che emergano chiaramente delle opinioni e delle situazioni o largamente condivise o comunque parecchio comprensibili. Personalmente mi sono sentita rassicurata dal fatto di non essere stata l’unica a stare così in questo periodo, e rispondendo alla domanda iniziale: si, l’attraversare questi periodi difficili tutti “assieme” mi fa sentire decisamente meno sola ed anzi più vicina agli altri.
L’analisi delle varie gestioni è stata secondo me inutile come anzi molto importante: credo ognuno di noi si sia reso conto che il 2020 ha segnato (e continua a segnare…) irreparabilmente la storia del globo intero, e per quanto ormai ciò che è fatto è fatto, è importante non sottovalutare la cosa, perché si impara dagli errori del passato, anche da quello a noi più prossimo.
Io e Valerio, come tutti, ci auguriamo che le cose migliorino (direi che peggio di così, anche no), quindi cari lettori, state tranquilli, rimanendo attivi: non adagiatevi in una finta serenità, fate la vostra parte, il vostro lavoro con cognizione di causa e vedrete: #andràtuttobene
Sara Boscolo 5Bs

Mamma sono gay!

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Bene ora che ho la vostra attenzione, se siete omofobi, uomini delle caverne o
“closed-minded” quest’articolo forse non vi piacerà, ma prima o poi doveva succedere che qualcuno approdasse qui nel giornalino della scuola per sensibilizzarvi sul mondo LGBTQ+ e permettervi di riflettere su alcune delle tematiche più scottanti degli ultimi anni.
Nonostante ciò, in virtù dei poteri inclusi nel pacchetto “queer TM” e lasciando da parte tutti gli stereotipi, in questo articolo tratteremo in breve del “Coming out”, termine di cui molti di voi avranno già sentito parlare.

COSA SIGNIFICA CHE UN AMICO/A HA FATTO COMING OUT?
Poiché sono troppo pigro per cercare seriamente e penso di saperne già qualcosa, ho deciso di affidarmi ad un sito molto credibile infatti, secondo wikipedia coming out significa che questa persona ha deciso di dichiarare apertamente il proprio orientamento sessuale* o la propria identità di genere** .
Deriva dalla frase inglese “coming out of the closet” che tradotto dal tipico umorismo inglese significa letteralmente uscire dall’armadio, dunque uscire allo scoperto.

COMING OUT= GAY
È abbastanza comune associare erroneamente il termine coming out all’essere gay, ma, come intuibile dalla precedente spiegazione, ciò non equivale necessariamente a dire “mamma mi piacciono i ragazzi”, ma può essere anche essere una rivelazione della propria vera identità di genere, altra tematica di cui tratteremo in un futuro articolo, a meno che non mettano questo all’indice per il suo anticonformismo.
Senza poi dimenticare, che di orientamenti sessuali ce ne sono molti e non esistono solamente gay ed etero.

PERCHÉ SI FA?
Partiamo dal presupposto che il coming out non sia la sola azione di “rivelarsi”, ma risulti parte di un lungo percorso introspettivo alla ricerca di sé, secondo un “cammino” che si sviluppa in maniera molto personale ed unica, che comincia con l’accettazione di sé e culmina con la condivisione di ciò.
Anyways, fare coming out è una scelta strettamente personale, e numerose sono le motivazioni che spingono un membro della LGBTQ+ community a farlo: le principali, che condivido, sono soprattutto la volontà di affermare la propria identità, di autodeterminarsi e finire di nascondersi dietro una maschera o un’identità che non ci appartengono..
Per farla breve, presentandovi un semplice esempio, ma d’effetto, è come poter salire sull’Everest e gridare il proprio nome affinché tutti lo sentano, pensate alla sensazione di libertà che farlo vi darebbe, bello eh!

SE SCOPRO CHE *nome* E’ LESBICA, POSSO DIRLO AL POSTO SUO?
Assolutamente no, il coming out è un atto estremamente personale, farlo al posto di qualcun’altro è sbagliato, MOLTO SBAGLIATO, ESTREMAMENTE SBAGLIATO, roba da ultimo girone, e per farvi capire come mai vi propongo un altro semplice esempio: se foste al vostro compleanno e qualcuno spegnesse le candeline della torta al vostro posto, come vi sentireste?
Ecco fare outing per qualcuno, oltre a donare questa sensazione all’interessat*, può significare mettere questa persona in una situazione di forte pressione, in alcuni casi pericolo ed esposizione, un po’ come quando alle elementari *nome* rivelava la vostra crush a tutta la classe, ma molto peggio.
Come è sbagliato fare outing per qualcuno altrettanto grave è obbligare questa “creatura” a fare coming out, se per cui vi invito semplicemente a lasciare che questa persona si prenda i propri tempi, capirsi non è semplice!

SE DOVESSI FARLO COME DEVO AGIRE, QUANDO, DOVE…
Beh, come detto in precedenza il coming out è una scelta strettamente personale e sicuramente non è equiparabile ad esprimere una preferenza sulla nostra band preferita oppure il gusto di gelato, nonostante si apprestino molto a fornire esempi, è sicuramente un grande passo, che come tutti i grandi passi necessita di essere fatto con conoscenza e volontà senza sentirsi obbligati. Non esiste un luogo o una modalità adatta/prefissata è una cosa spontanea, che può essere pianificata per quanto possa suonare incoerente.
Non c’è un modo giusto o sbagliato è una cosa “tua” per certi aspetti, l’importante è essere sicuri di ciò che si sta facendo ed ovviamente prendere le giuste precauzioni, ripeto CONSAPEVOLEZZA, COSCIENZA e soprattutto PAZIENZA, talvolta è giusto saper aspettare e valutare con attenzione le circostanze, con questo non vi invito sicuramente a fare coming out senza pensarci, bensì a rifletterci bene! Ovviamente questo non significa che dovrete rimanere “closeted” per sempre, ma la vostra sicurezza viene prima di tutto e non sempre il coming out è semplice.
PERÒ RICORDA: ci sarà sempre qualcuno pronto ad accettarti e supportarti in quello che fai, non sei sol* e soprattutto non sei sbagliat*, sei perfett* così come sei!

Con queste belle parole il vostro autore vi saluta e spera di avervi illuminato vagamente sulla questione. Abbiate rispetto e sostenete chi sta affrontando il coming out, specialmente se difficile, il sostegno di un amico/a o di un/una parente fa la differenza, lo dico per esperienza personale!

Siate sempre voi stessi!

alla prossima, il ragazzo dall’armadio

I nostri anni

Come iniziare… Beh, vado dritta al punto. Come tutti, in questo brutto periodo ho avuto modo di pensare molto, forse troppo.
Non so voi, cari amici, ma mi manca addirittura svegliarmi alle 6 del mattino, per poi correre verso la fermata del bus, cercando di non farmi investire dalle auto che passano, correndo letteralmente in mezzo a quelle mura di nebbia che tutti noi conosciamo benissimo, con la torcia del cellulare accesa come a dire alle auto e ai camion davanti a me: “ Hey amici, esisto anche io, vorrei arrivare a scuola viva oggi… sapete ho trecentocinquanta interrogazioni e duecentosettantre verifiche questa settimana.”
Mi manca anche prendere la corriera… oddio, forse quella è tra le cose che mi mancano di meno, ma ammettetelo, se non esistessero quei profumatissimi mezzi di trasporto, saremmo andati molto peggio in diverse interrogazioni, no? E poi, quel rumore di sottofondo con tutte le persone che bisbigliano, mentre tu stai cercando di ripassare prima inglese, poi storia e poi le 836831 eccezioni del latino… non è forse qui che impariamo a sopportare e poi a perdere la pazienza?
Scherzi a parte, a me manca davvero tanto tutto ciò. Per quanto la didattica a distanza possa servire a tenerci quel poco al passo con il programma, non sarà mai bello come trovarsi tutti a scuola.
Lì condividiamo tutto, dall’ansia (che non manca mai), alle gioie, ai pianti, alle soddisfazioni, agli amici. Okay, per molti non sarà proprio il luogo preferito, ma è solo tra quelle mura che si possono condividere certe emozioni.
Ammettetelo, sono sicura che vi manca il profumo di brioches e caffè che vi accoglie ogni mattina. Varcando quella porta non sai mai se quando uscirai, a fine giornata, sarai più felice o triste.
È a scuola che la maggior parte di noi incontra le prime grandi cotte e, permettetemi di dire, molte volte irraggiungibili, sigh ;(
È a scuola che prendiamo in giro il nostro amico perché la sera prima la sua squadra del cuore aveva perso una partita importante, ed è sempre qui che molte volte, se siamo fortunati, troviamo gli amici che resteranno nel nostro cuore per tutta la vita.
Per non parlare poi delle risate che, almeno io, mi sono fatta grazie ai miei compagni di classe mentre discutevano e giocavano al Fantacalcio… davvero.
Sono gli anni del liceo, delle insufficienze, dello stress, dell’ansia, delle notte insonni e del poco tempo libero… ma sono anche gli anni che ci segnano la vita. Sono gli anni delle grandi gite scolastiche, dei laboratori con gli amici, delle pizzate con tutta la classe!
Insomma, non si può sintetizzare tutto ciò che si prova in questi anni… volevo condividere con tutti voi questi miei sentimenti, che, credo, in questo periodo rispecchiano un po’ tutti.
Teniamo duro perché tutto questo finirà! Ci rivedremo presto, pronti a condividere lo stesso menú di sempre: prima portata di ansia, con un contorno di piccole gioie sparse, e con un abbondante dose di stress… che amiamo tanto!
Un saluto a tutti,
Elisa Polato, ragazza a cui manca la scuola 😉

Società e bellezza

In una società guidata da canoni estetici irraggiungibili e stili di vita spesso fuori dalla portata della maggior parte della massa, la sensazione di sentirsi “sbagliati” continua ad espandersi in modo sistematico nelle menti di tutti noi. Ogni nostra valutazione di noi stessi è resa possibile dal fatto di possedere degli “standard”, il nostro giudizio è frutto di un confronto tra ciò che vediamo allo specchio e ciò che invece rappresenta il nostro stesso “ideale di bellezza”; maggiore è il divario più il nostro senso di inadeguatezza sarà destinato a crescere.

A tal punto sorgerebbe spontaneo chiedersi cosa concretamente rappresenti per noi il termine “bellezza”, ma la realtà è che ognuno di noi darebbe una risposta differente. La bellezza non è intrinseca negli oggetti, ma bensì nella valutazione che noi effettuiamo nei confronti delle loro caratteristiche fisiche e dunque non può che essere soggettiva. I nostri ideali di perfezione derivano dalle nostre esperienze, dai canoni estetici e dalle mode che ogni giorno partecipano alla nostra quotidianità, dall’epoca stessa in cui viviamo e perciò soggetti a cambiamento. Cosa dunque ci spinge a voler essere come la società propone? Cosa ci spinge a mirare alla tanto ambita perfezione?

L’insoddisfazione che sentiamo potrebbe non dipendere dal nostro aspetto esteriore ma dai comportamenti e dagli atteggiamenti con cui noi stessi lo vediamo. Ognuno di noi gode di una rappresentazione mentale del proprio corpo costituita dalla prospettiva di un osservatore esterno, più semplicemente, ciò che siamo certi gli altri vedano quando ci guardano e definita dagli psicologi: rappresentazione di “sé come oggetto estetico”. La nostra insicurezza ha impatto soprattutto a livello comportamentale, l’insoddisfazione per il nostro aspetto fisico passa spesso dall’essere una semplice preoccupazione, ad un’ossessione compulsiva che condiziona inevitabilmente il nostro umore e di conseguenza le nostre relazioni interpersonali. In casi estremi ciò comporta addirittura a forme di isolamento sociale ed ad altri tipi di patologie come il disturbo narcisistico della personalità, vigoressia, dismorfofobia, o più comunemente, ad anoressia e bulimia che interessano in particolar modo i giovani, i quali si vedono costretti a cambiare il proprio stile di vita ed alimentazione. Il tempo che trascorriamo di fronte uno specchio o sopra una bilancia continua ad aumentare e i canoni estetici proposti con insistenza da social network e pubblicità, ormai alla portata di tutti, ci spingono a lasciare in secondo piano ciò che è realmente importante, ossia il rapporto positivo col nostro corpo.

Vivere in funzione della propria immagine, osservando rigorosamente mode e risultati concretamente inarrivabili può realmente ritenersi “vivere”? Curarsi del nostro aspetto, senza esagerare, risulta essere in ogni caso importante per rimanere in buona salute. Dobbiamo riconoscere che ogni cambiamento che apportiamo al nostro aspetto non ha il semplice ed unico scopo di compiacere noi stessi, ma nella maggioranza dei casi, seppur in piccola parte, anche di compiacere gli altri. L’essere umano è un animale sociale che per natura ha bisogno di un confronto con ciò che lo circonda, ma in particolar modo con i suoi simili; affinché tale confronto non ci ferisca tendiamo a “proteggerci” omologandoci agli altri e a ciò che la maggioranza ritiene “bello”. Non cambiamo mai unicamente per noi stessi, ma una volta compreso ciò, è essenziale capire allo stesso modo che il giudizio altrui non può e non deve definire chi siamo. Vivere di apparenze ci porta inevitabilmente a dimenticare quelle caratteristiche che tanto ci rendono speciali rispetto a tutti gli altri, ci porta a dimenticare la nostra sostanza, così come del resto tutti gli altri pregi che ci contraddistinguono ma che tuttavia, necessitano un impegno maggiore per essere scoperti. Il rischio di risultare “vuoti” una volta tolta la nostra maschera superficiale diventa quasi inevitabile.

Negli ultimi anni forse come forma di protesta o riscatto sociale, si sono radicati in quantità sempre maggiore modelli alternativi che distorcono il concetto di bellezza classico, proponendone invece uno mai visto prima. Che si tratti del campo dell’abbigliamento o di qualunque altro aspetto che coinvolga la nostra esteriorità, questa crescente voglia di novità, di creare stupore o talvolta perfino perplessità, non finirà a sua volta per divenire un ulteriore moda a cui potersi conformare? Omologarsi al “diverso” risulta dunque essere tanto lontano dal voler corrispondere ai canoni di bellezza imposti di norma dalla società stessa?

Accettarci per quello che siamo nonostante i nostri innumerevoli difetti, per quanto possa sembrare un concetto tanto lontano quanto sopravvalutato, rimane un punto chiave per il nostro benessere personale. Accettare il fatto che non raggiungeremo mai standard concretamente innaturali sta alla base per poter amare chi siamo e cosa rappresentiamo. Si tratta semplicemente di equilibrio, curasi troppo del parere altrui così come di conseguenza del nostro aspetto fisico, nuoce allo stesso identico modo di non curarsene affatto; si tratta di coniugare il fatto che gli altri non smetteranno mai di giudicarci al fatto che la loro opinione non deve condizionare la visione che abbiamo di noi stessi. Risultare “belli” sotto tutti i punti di vista per un’unica persona spesso si rivela più benefico di risultarlo per molti. Si tratta semplicemente di amarsi.

Emily Zecchin, 3^Bl

Cultura al tempo del virus

Secondo l’articolo 9 della Costituzione italiana “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione”. E secondo l’ideale greco anche l’acquisizione di autocontrollo e di razionalità fa parte della cultura di una persona. Però spesso, in questi giorni, sentiamo parlare di atti di razzismo nei confronti di persone di nazionalità cinese, litigi nei negozi di beni essenziali, atti di speculazione o di sciacallaggio agevolati da tale crisi, manifestazione di panico per il virus…
Udendo simili fatti vengono sempre alla mente certe profetiche pagine dei Promessi Sposi in cui si parla delle reazioni della folla alla peste: ciò è dovuto principalmente alla mancanza di razionalità, di autodisciplina, di senso della misura che troppo spesso viene meno a molti in tali situazioni. Ma in moltissimi in queste situazioni interviene anche la mancanza di senso di protezione da parte delle autorità.
Saper reagire razionalmente ai pericoli senza farsi prendere dal panico, al tempo stesso calcolando i rischi e rispettando le regole, è un’abilità essenziale nel viaggio della vita, che si sviluppa vivendo, ma ci viene insegnata tramite gli esempi, dai nostri famigliari, dai nostri insegnanti, dai grandi autori e certamente anche dai politici. La prima forma di cultura che in emergenza Coronavirus lo Stato deve tutelare è la razionalità. Serve stabilire e trasmettere le regole in modo chiaro, per poi farle rispettare: rinunciando di più ora riprenderemo più velocemente le nostre abitudini un domani; serve punire in modo intransigente chi se ne approfitta per trarne vantaggi: senza la salute di tutti lo Stato intero muore, e il benessere viene prima del denaro; serve fare informazione sana, non terrorismo, e ciò per non accrescere l’ansia: la paura è la prima che contribuisce ad indebolire lo spirito e il corpo, favorendo la diffusione del virus. Non parlo solo del Coronavirus, ma anche di un altro: il panico.
Un altro è il problema dell’istruzione e della diffusione della cultura, un tema affrontato sì particolarmente in questa fase, ma generalmente in ogni momento. Coinvolgere gli studenti e fare in modo che le persone si avvicinino alle fonti di conoscenza diventa una sfida sempre più ardua di fronte alla nascita di attività che sono più allettanti, semplici e immediate rispetto ad altre. La cultura, in tutte le sue forme (esclusi gli 8 anni obbligatori di formazione scolastica, necessità primaria per ciascuno), deve essere un bisogno libero e spontaneo che nasce nell’individuo, perché solo se c’è uno slancio si ha conoscenza, e poi progresso. Senza la volontà, essa diventa un’imposizione. La vera cultura non deve essere né una sorta di indottrinamento imposto da un regime totalitario, né un fenomeno di conformismo di massa, cose che scoraggiano dall’essere sé stessi: la cultura non deve essere elitaria, ma semplicemente libera di essere abbracciata da chi ne sente il bisogno interiore.
Credo sia indispensabile, per chi ne ha la necessità, cogliere questo momento come un’occasione di arricchimento, su tutti i fronti. In particolare, per noi studenti è il momento di capire qual è il vero scopo dei nostri studi: non qualcosa che ‘bisogna fare’, ma una crescita per noi stessi, un impegno che prendiamo per il nostro futuro, un edificio che costruiamo per la nostra vita. Ora, in tutti noi, a prescindere dall’età, emerge se la cultura è per ciascuno un obbligo o un desiderio.
Per concludere, la cultura “non è il contrapposto di ‘incultura’, e non intende designare certe attività o prodotti intellettuali che sono o sembrano più elevati, organizzati e consapevoli di altri; vuole denominare invece il complesso delle attività e dei prodotti intellettuali e manuali dell’uomo-in-società, quali che ne siano le forme e i contenuti, l’orientamento e il grado di complessità e consapevolezza, e quale che sia la distanza dalle concezioni e dai comportamenti che nella nostra società vengono più o meno ufficialmente riconosciuti come veri, giusti, buoni, e più in genere ‘culturali’. […] sono cultura nel senso che costituiscono anch’essi un modo di concepire (e di vivere) il mondo e la vita, che può piacerci o no (e che spesso, anzi, deve dispiacerci), ma che è esistito ed esiste e che dunque va adeguatamente studiato nei modi e nella misura in cui la sua conoscenza accresce la nostra consapevolezza storica e la nostra capacità di scelta e di orientamento nella nostra società moderna” (A.M. Cirese, antropologo italiano).

Matilda de Riva, 3^Ac

Tweet al tempo

Penso che tutti in questi giorni si stiano rendendo conto che tra un paio di settimane saremo nel 2020.
È strano solo dirlo, il 2020, wow. La prima decade che personalmente vivo completamente, i 10 anni in cui ho trascorso la maggior parte della mia adolescenza e dove ho frequentato la maggior parte dei gradi di istruzione scolastica. Fermandomi e riguardandomi indietro, percepisco e capisco sempre di più l’inesorabile scorrere del tempo, che, come un treno, passa e non aspetta nessuno.
Con un occhio al futuro, magari tra altri dieci anni, magari con piani ben precisi per la mia vita, desidero che guardandomi alle spalle si formi anche un semplice accenno di sorriso, e di non rimpiangere nulla dei, come dice Renato Zero, “i migliori anni della nostra vita”.
Quindi, quasi banalmente, e con una frase sentita cento milioni di volte, vi esorto, come il migliore dei vostri amici farebbe, a vivere questi anni, a non accettare ‘no’ come risposta e a fare ciò che vi rende felici; perché, cari miei compagni, questo tempo che noi ci lasciamo sfuggire dalle mani, come se fosse il più banale dei doni a noi offerti, non ci volterà più lo sguardo e andrà dritto per la sua strada.
-Rocco Bellon

Indignazione

Roma, mercoledì 30 ottobre 2019:
Viene approvata in Senato, con 151 voti favorevoli, la cosiddetta “Commissione Segre”, un nuovo organo collegiale volto a monitorare e combattere i fenomeni razzisti e antisemiti del nostro paese.
Ebbene sì, i voti favorevoli su 249 votanti sono stati solo 151; infatti 98 esponenti del centrodestra hanno ben pensato di astenersi dal voto, e, durante il lungo applauso che è seguito all’approvazione, di starsene seduti in silenzio ad osservare.
Dunque sorge spontanea una domanda: com’è possibile, nel ventunesimo secolo, astenersi da un tema che dovrebbe creare, in qualunque democrazia degna di tale denominazione, un sentimento di coalizione?
Dovete sapere infatti che Liliana Segre, la senatrice che dà il nome a questa commissione, non è soltanto una delle tante personalità politiche del nostro Paese; è bensì una superstite dei campi di sterminio nazisti, testimone oculare delle atrocità perpetrate durante la Seconda Guerra Mondiale a danno di ebrei, rom, omosessuali, disabili e oppositori politici del Reich quali comunisti e socialdemocratici.
Una storia “vecchia” 70 anni, per qualcuno già da dimenticare, ma oggi più attuale che mai.
Ora che le aggressioni razziste sono all’ordine del giorno, ora che l’arte degli slogan è più forte che mai, ora che “Prima gli Italiani” conta più del “Prima gli esseri umani”, e, per finire, ora che in una ricca cittadina vicentina, viene rifiutata una mozione presentata dal Partito Democratico per il posizionamento di pietre d’inciampo in memoria dei deportati in quanto “portatrici di odio e divisioni”.
Pare uno scherzo ed invece è proprio questo lo scempio ideale e culturale che arriva da Schio.
Ma com’è possibile strumentalizzare politicamente una questione del genere?
Charlie Chaplin nel film “Il Grande Dittatore” del 1940 recitava così:
“Tutti noi esseri umani dovremmo aiutarci sempre, dovremmo godere soltanto della felicità del prossimo, non odiarci e disprezzarci l’un l’altro. In questo mondo c’è posto per tutti, la natura è ricca, è sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi lo abbiamo dimenticato”.
Chiedo adesso a voi che leggete di fermarvi un momento; di riflettere sulle parole di Charlot.
Personalmente, e con grande dispiacere, constato che il mondo d’oggi non è poi così cambiato da quel quaranta, ed è proprio l’astensione di quasi cento senatori a confermarmelo.
L’antisemitismo, così come l’odio e il razzismo sono ancora nei nostri cuori e da ciò segue che della Commissione Segre ce n’è bisogno più che mai.
Abbiamo il dovere morale di ricordare ciò che è successo, di non dimenticarlo mai, di fare in modo che mai ricapiti, e di difendere anche i nuovi oppressi.
La lotta all’antisemitismo e al razzismo deve, e sarà volere unanime.
Una crisi umanitaria, a forza di slogan, è stata trasformata, per ragioni di consenso, in una crisi politica.
Ma vi pare davvero che insistendo su questa linea di indifferenza, e talvolta addirittura di indulgenza e legittimazione nei confronti dei numerosi episodi di razzismo susseguitisi negli ultimi anni, andremo mai da qualche parte?
Se provassimo davvero, mettendo da parte la perenne campagna elettorale, a porre fine a questo imbarbarimento della società, a combattere all’unanimità i fenomeni di razzismo, antisemitismo e di qualunque altro tipo di discriminazione, forse potremmo avere tutti più decenza e autostima.

Desidero infine rivolgermi direttamente a coloro che contribuiscono a dare vita a questo clima d’odio e di violenza:
Se esiste ancora dentro di voi una parvenza di umanità, ogni tanto mettetevi una mano sul cuore, e fatevi un esame di coscienza. Prima le persone, prima la memoria, dopo le differenze culturali ed etniche.
Nel ’47 Primo Levi scriveva:
“Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole.
Scalfitele nel vostro cuore Stando in casa, andando per via,
Coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa, la malattia vi impedisca, i vostri nati torcano il viso da voi”.

Giuseppe Maria Toscano