Intervista a Gemma Zorzan

Sicuramente molti di voi avranno letto un sacco di libri nel corso della loro vita, storie che spesso ci rimangono nel cuore e non lo abbandonano. Ma vi siete mai chiesti cosa nascondono gli autori di queste opere? Oggi sono qui per proporvi un’intervista fatta a Gemma, una mia cara amica nonché scrittrice! Sì, avete sentito bene, una ragazzina di soli 12 anni che ha scritto un libro.

Ho quindi deciso di sottoporle alcune domande sulla sua vita, ma più in generale sulla sua opera, anche per spronare tutti coloro che hanno questo sogno nel cassetto a farsi avanti. Spero vi piaccia 🙂

M: Come ti descriveresti in poche parole?

G: Diciamo che sono una di quelle persone a cui non piace stare con le mani in mano: nel mio tempo libero disegno, scrivo, leggo, suono il pianoforte e la chitarra oppure cucino qualche dolce per me e la mia famiglia. Frequento la prima al liceo Scientifico perché ho una grande passione per la fisica, cosa che ha influenzato anche il mio libro.

M: Riusciresti a riassumere brevemente la trama del tuo libro?

G: Il riflesso dell’infinito parla di due ragazzi, Angelo e Anna, che vivono la loro vita tranquilla negli anni ‘80, ma si ritrovano a Chernobyl proprio al momento dello scoppio della centrale e da quel momento le loro vite cambiano completamente.

Lo definirei un libro di genere fantascientifico, con un pizzico di avventura.

M: Da dove è nata questa tua passione per la scrittura?

G: Sicuramente uno dei principali motivi per cui ho cominciato a scrivere è stata l’influenza della mia maestra di italiano delle elementari, che mi ha avvicinato a questo mondo. Ed è merito anche della mia prof. di italiano delle medie, che mi ha sempre sostenuta. Diciamo però che in questo libro c’è la me stessa di 12 anni, e ora che sono cresciuta lo vedo un po’ distante da me.

M: Dove hai trovato lo spunto per la trama?

G: Tutto cominciò quando a 7/8 anni vidi una cartina dell’Europa e da quel momento mi venne in mente una strana idea: e se la storia andasse al contrario? In realtà ora non saprei spiegarlo bene poiché la mia mente è molto più razionale di quella di allora, però insomma da qui ho cominciato a scrivere un racconto che ho poi ripreso in mano verso la fine della prima media. Penso di averlo scritto in pochi mesi, ma sono riuscita a pubblicarlo solo poco tempo fa poiché i tempi di pubblicazione sono sempre molto lunghi.

M: Quali difficoltà hai trovato nella pubblicazione?

G: Allora sarò sincera, non ho mai messo particolare attenzione o impegno a cercare la “casa editrice perfetta”, ma diciamo che ho preso la prima che ho trovato e mi hanno risposto dopo un mesetto.

Le difficoltà più grandi sono state sicuramente quelle riguardanti la scelta della copertina e la correzione delle bozze. Per la copertina, infatti, non ho avuto molta scelta, o almeno non quanta avrei voluto.

M: Pensi che questa tua passione possa dare i suoi frutti anche in un futuro ambito lavorativo?

G: Per il momento non posso dare una risposta certa, poiché avendo tante passioni ho una vasta scelta, ecco. Sicuramente terrò la scrittura come hobby per tutta la vita; non escludo, tuttavia, l’idea che possa diventare un lavoro a tutti gli effetti. Vedremo cosa mi proporrà il destino.

M: Che consigli daresti a tutte le persone che hanno il sogno della scrittura nel cassetto?

G: Sicuramente vi consiglio di buttare giù tutto ciò che vi viene in mente. So che è una cosa abbastanza banale, ma alla fine è una grande soddisfazione. Penso inoltre che questa cosa mi abbia fatto crescere molto, sono dell’idea che è meglio cercare di aggrapparsi al mondo attraverso la scrittura, poiché questa è un modo per rendere concreti i propri pensieri e per lasciarli al mondo.

Se potessi tornare indietro lo ripubblicherei: è il primo mattone che lastrica la mia strada e se non si inizia non  si può continuare.

M: Gemma, so che stai per pubblicare un nuovo libro, puoi darci qualche anticipazione?

G: Si esatto! Per il momento è in fase di pubblicazione quindi spero di vederlo nelle librerie entro un anno. Dico solo che lo preferisco nettamente rispetto al precedente, ma per il resto sarà una sorpresa!

Martina Di Rienzo 1AL

(con la partecipazione di Gemma Zorzan)

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Chi se non noi? – Intervista a Germana Urbani

Un’intervista di Beatrice Bison (B), Martina Melotto (M) e Linda Carturan (L) 4BS

 

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B: Può fare una breve presentazione di sé stessa e del suo libro …Temi di cui tratta?

Il libro è una storia che guarda molto al presente e alla cronaca, parla una mente che si sgretola di fronte all’abbandono e del tema del femminicidio.

Io sono Germana Urbani, autrice del libro, ho lavorato come giornalista e per questo mi sono chiesta come fosse possibile che molte persone dopo una rottura non riuscissero a girare pagina, nutrendo questo senso di vendetta fino al punto di far male alla persona che hanno amato fino a quel momento. Seguendo questa domanda, ho costruito una mente che, appunto, piano piano si sgretola finendo nell’ossessione, definendola una malattia mentale, perché la persona amata diventa un oggetto. Il romanzo riprende l’archetipo di Medea.

Trama del libro “Chi se non noi”

Maria, la protagonista, cresciuta in un angolo di campagna veneta sperduto, andando in una villa veneta con il papà e il nonno, la Badoera di Palladio, fin da piccola incontra la bellezza e sogna di diventare architetto, riesce a laurearsi e fare uno stage in uno studio di architettura di Bologna, riuscendo infine a specializzarsi in architettura sostenibile.

Maria ha sempre evitato l’amore perché innamorarsi voleva dire sposarsi con un ragazzo del delta del Po e rimanere lì, voleva dire non poter seguire il suo sogno.

Una sera incontra Luca, che lavora in una pescheria locale e pensa che non possano avere niente in comune ma parlandoci capisce che è una persona molto curiosa e capace, così inizia l’università su consiglio di lei e inizia a lavorare nel suo studio, riesce a diventare architetto solo grazie agli esami che lei gli passava.

Loro continuano a stare insieme anche se il rapporto col passare del tempo sembra andare sempre peggio, lui mette in atto delle strategie di violenza psicologica e proprio quando lei si spoglia di tutto per avere una vita con lui, lui la lascia per un’altra ragazza. Lei ci racconta come la sua vita stia andando male utilizzando continui flashback, senza un ordine temporale, lasciando che sia il lettore a ricomporre la storia d’amore tra i due (durata 6 mesi).

B: Se dovesse descriverlo in circa 10 parole quali sarebbero? 

“Un romanzo d’amore ambientato nel delta del Po”.

La descrizione del paesaggio in cui è ambientato il libro è molto importante, per non definirla fondamentale, io stessa, per essere il più precisa possibile, ne ho fatto ricerca e sono andata a fotografare i posti in cui sono ambientate le scene del libro; inoltre ho deciso di utilizzare i toponimi reali e geograficamente è molto coincidente con la realtà, in modo da spingere il lettore a visitare i luoghi descritti.

In questo libro ho utilizzato anche termini del dialetto veneto perché credo che il paesaggio sia anche la lingua e suoni del posto.

B: Si rispecchia nella protagonista? Per caso il nome della protagonista ha un significato personale o è stato scelto arbitrariamente?

All’inizio la protagonista si chiamava Anna, ma vista la famiglia molto cattolica e avendo 3 fratelli, ha pensato di dare gli stessi nomi dei 4 evangelisti. Si aspettavano un maschio a cui avrebbero dato il nome di Luca, invece nacque una femmina e per questo la chiamarono Maria. Ho regalato alla protagonista alcuni ricordi della sua infanzia, come il fatto che vivesse anche lei in campagna o la storia di Vitello Tonnato; ho regalato qualcosa a tutti i personaggi perché, a mio parere, quello che scrivi passa attraverso di te.

B: Cosa rappresenta la foto in copertina?

La copertina è stata un regalo dell’editore, raffigura due persone che non si vedono molto bene ed è molto rappresentativa della storia d’ amore descritta nel libro. È un amore che non si capisce bene, le due persone, infatti, non si vedono chiaramente; proprio come la storia d’amore che racconto. Guardando dall’esterno, noi non capiamo chi sono, non vediamo i loro contorni. Quando guardi due innamorati, non puoi immaginare che cosa si dicano davvero, quale tipo di rapporto ci sia… Così come quando guardiamo, attraverso una finestra, una casa di altre persone. C’è quel mistero che rimane a chi guarda. A me piace molto quella fotografia. La prima volta che ho visto la copertina, avevano fatto un titolo quasi fucsia e io ho chiesto invece di cambiarlo in un azzurro nostalgia: quell’azzurro un po’ polveroso che poi ha preso il titolo del libro. Perché quando io leggo un libro, sento un colore. Così per tutto il tempo che ho scritto questo libro, io ho sentito forte questo azzurro tra le sue pagine.

B: Abbiamo notato che lo stato d’animo e il paesaggio sono in correlazione, come in una poesia, è così? 

Fra i personaggi e il paesaggio c’è un vero e proprio dialogo, ad esempio man mano che andava oscurandosi l’animo di Maria, arrivava l’inverno; infatti per fuggire dalla pedanteria ho utilizzato il paesaggio per spiegare le emozioni provate da Maria.

M: Abbiamo notato anche la differenza tra la madre di Maria che le parla spesso rivolgendole le spalle e invece l’amica, che le telefona e si preoccupa per lei. Per noi ragazzi, il tema dell’amicizia è molto importante, spesso abbiamo conflitti coi genitori e troviamo rifugio negli amici. la madre vuole evitare un dialogo con Maria? E la sua amica, è importante per lei?

Sostengo che sia più facile parlare coi coetanei, ma mi riferisco anche ad una madre che ha sofferto molto a causa di un abbandono e a per questo fa fatica ad essere una madre affettuosa e presente. Una volta, nelle campagne, non si era affettuosi perché si pensava che così facendo i figli crescessero più forti, nonostante ciò, fortunatamente, la sua amica è sempre presente per lei.

M: Che cosa può insegnare il suo libro ad una persona della nostra età?

Io credo che avere dei sogni e crederci fino in fondo sia molto importante. Già alla vostra età, io coltivavo il sogno di scrivere e di diventare una scrittrice…un giorno. Poi io avevo pochi mezzi, volevo cominciare a scrivere come giornalista ma non sapevo nemmeno dove fossero le redazioni e allora non esisteva Internet. È stato tutto faticoso e in salita, ma dentro di me c’è sempre stato questo grande fuoco: io avevo un sogno e volevo arrivarci. Io credo che niente ti possa fermare, se tu credi in te stesso, per quanto pochi siano i mezzi, ce la puoi fare. Ho anche creduto molto nella formazione: all’università ho fatto lettere, non volevo insegnare ma era la facoltà che si avvicinava di più alla carriera che avrei voluto fare.

Quindi il messaggio per voi è: credete nei vostri sogni e mettetevi davanti a molte altre cose.

M: Che cos’è per lei la scrittura? E la fotografia? Abbiamo riscontrato che il personaggio di Maria ama la fotografia. E le due arti sono correlate? Infatti, per come descrive i luoghi nel libro, ci sembra di essere in una fotografia, immersi nei territori del Polesine.

Sì, è proprio così, è il mio metodo di lavoro. Parto dalla fotografia, anche per scrivere una poesia. Ogni volta che il romanzo si incagliava, andavo in quei luoghi e fotografavo, poi tornavo con una immagine che faceva andare avanti il romanzo. L’immagine fotografica per me è un grande amore e veicolo di fascinazione e scrittura. Uscirà a febbraio un reportage narrativo e si noterà la correlazione tra quello che fotografo e quello che scrivo. Vi consiglio: provate a fotografare qualcosa prima di scriverlo, è un metodo interessante. Per quanto riguarda la scrittura, è una cosa che mi accompagna da tutta la vita e fa parte di me. Scrivo i miei ragionamenti, quello che penso di un libro e che cosa mi ha indotto a pensare. Un libro è sempre generativo di un pensiero personale. Anche quando sono in giro, io scrivo nella mia mente o magari sulle note del mio cellulare. Però ci sono tanti modi di scrivere: quando facevo la giornalista scrivevo tutto il giorno, però per me quella non era scrittura, era lavoro.

M: Ci ha anche colpito la scelta di mettere una cartina all’inizio del libro e di usare termini in dialetto veneto, per far conoscere questi territori, che magari sono meno famosi.

Infatti, la letteratura è anche letteratura geografica. Io odiavo geografia, perché non l’ho mai capita: per me erano nozioni da imparare a memoria… invece negli ultimi anni ho capito che la geografia è racconto di un territorio che esiste ed è percorribile. Per esempio, io amo molto camminare a piedi e da quando lo faccio, ho capito l’importanza geografica dei posti e mi innamoro anche del loro nome. Ho deciso di inserire la cartina perché così chiunque può esplorare i luoghi che descrivo.

L: Visto che lei è anche una fotografa, pensa che l’essere umano abbia un bisogno di cercare la bellezza e l’arte in tutto ciò che lo circonda? Quali sono le sue considerazioni? La pensa in questo modo?

Sai… gli esseri umani sono di tante specie, io credo che quel che è bello per me, possa essere bruttissimo per qualcun altro. Per esempio, io trascino mio marito alle mostre e lui non le gradisce: non capisce, né apprezza, l’arte contemporanea, come ad esempio le opere che ci saranno alla Biennale di Venezia quest’estate. Eppure ad alcuni piace molto questo tipo di arte… quindi la bellezza non è uguale per tutti; c’è chi trova bellissimo un centro commerciale, per me è funzionale, non bellissimo. Per alcuni Gardaland è bellissimo, per me Gardaland non è bello, è un posto per divertirsi. Bisogna capire cosa è la bellezza per le persone, io credo che sia un veicolo per i sogni, un veicolo per l’anima, un veicolo per la poesia e credo che chiunque, prima o dopo, venga toccato dalla poesia o da qualcosa di spirituale. Per mio padre, la bellezza è la vigna in un certo periodo dell’anno e lo capisco, è molto poetico. Però serve uno sguardo particolare per capire un certo tipo di bellezza e lo sguardo va allenato… la bellezza va imparata… una volta quando passavo vicino ad una villa, che c’è qui poco lontana da me, non mi fermavo neanche, poi ho imparato a guardare architettonicamente e artisticamente e ho capito il grande valore di quella villa. Lo sguardo va allenato…guardando mostre e cataloghi se parliamo di arte, leggendo poesia, anche laddove non la capiamo…ci sono poeti difficili da capire. Però è un tuono che entra dentro e lavora.

L: Inoltre volevo leggerle una citazione tratta da Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino; volevo chiederle cosa ne pensa e se condivide le considerazioni espresse.

“Con le figlie, qualsiasi cosa faccia un padre, sbaglia: autoritari o permissivi che siano, ai genitori nessuno dirà mai grazie: le generazioni si guardano torve, si parlano solo per non capirsi, per darsi a vicenda la colpa di crescere infelici e di morire delusi.”

Questa citazione mi ha colpito molto, è molto forte e si ricollega un po’ a quello che dicevamo prima sul fatto che i genitori appartengono a una generazione, delle tradizioni, che noi forse facciamo fatica a comprendere; però penso che sia possibile una convergenza.

Si… Calvino è un grande scrittore perché riesce a scrivere la verità: quando tu leggi un grande scrittore senti che tutto quello che ti sta dicendo è proprio vero, e quindi non posso che essere d’accordo e credo di averlo rappresentato, come dicevamo prima, nel mio libro. Il padre di Maria le dice che i sogni non si realizzano mai, è come se le desse una pugnalata perché non puoi dire a una persona ciò, vuol dire tagliarle le ali.

Ma perché glielo dice? Magari perché lui, quando era ragazzino, non ha potuto neanche permettersi un sogno. Secondo me le generazioni per capirsi e perdonarsi dovrebbero guardare da dove arrivano certe affermazioni dei propri genitori; noi quindi dovremmo chiederci “ma perché sta dicendo proprio così?”.

Perché quando siamo adolescenti, e siamo in corsa per i nostri sogni, non abbiamo voglia di fermarci a pensare e facciamo prima a sbattere la porta, a scappare di casa. Però, quando si diventa un po’ più adulti e si comincia a cercare le proprie radici (almeno a me è successo così), a dire “da dove vengo io? Perché vengo da lì? Sono davvero i miei genitori? qual è la loro storia?”, allora riesci a guardare il passato; riesci a vedere anche quelle liti con occhi diversi e dire “non poteva che essere così”, e quando si arriva a dire questo si riesce anche a perdonarsi… a meno che non ci siano state cose veramente brutte, sono più difficili da perdonare ma per fortuna sono anche più rare.

Quindi io credo che le generazioni abbiano veramente una frattura a dividerle, che è data dal tempo e dalla cultura diversa, e che su quella frattura si possa solo costruire dei ponti in età adulta.

L: Tornando al suo libro, ha incontrato qualche difficoltà quando l’ha scritto? Se sì, come le ha superate? Darebbe qualche consiglio a noi ragazzi in merito?

Sì, dal punto di vista tecnico qualche volta, pur avendo la storia ben fissa in testa (avevo fatto una scaletta dove avevo scritto cosa dovevo scrivere capitolo per capitolo), non riuscivo ad andare avanti perché per ogni paragrafo devi decidere dove si svolge la scena, cosa c’è, come se dovessi allestire un palco di teatro.

Alle volte non riuscivo ad andare avanti e quindi mi era molto utile andare a fotografare oppure andare in libreria o biblioteca e lasciarmi ispirare da un titolo.

Per esempio quando ho deciso che la protagonista sarebbe stata un architetto, mi sono abbonata a un paio di riviste di architettura, ho cominciato ad andare ad alcune mostre, perché non sapevo niente di architettura; eppure in un’intervista mi hanno chiesto se facessi questo di lavoro, quasi riconoscendo che avevo messo cose così specifiche da apparire tale. Però questo è studio. Se tu vuoi essere vero, dire la verità, devi studiare tanto.

Quindi consiglio di leggere tantissimo, prendersi il tempo per passeggiare nei luoghi (infatti camminare fa venire idee) e studiare per essere precisi in quello che si dice.

L: Volevamo chiederle se aveva altri progetti per il futuro. All’inizio dell’intervista ha anche citato che sta scrivendo un altro romanzo, quindi può dirci qualche dettaglio?

Sto scrivendo un altro romanzo che ha come sfondo un fatto di cronaca veneta; racconta la storia di una persona che da tanto tempo ha rinunciato a realizzare un suo sogno e crede che in quel momento potrebbe realizzarsi; potrebbe lasciare tutto quello che ha fatto fino a quel momento per investire tutto e ottenere quello che vuole davvero.

Sarà ambientato nelle colline vicentine.

Sul finale non ho ancora deciso perché io lo lascio sempre andare. Io credo che si scriva in ogni momento della giornata, ma sul finale si può sempre cambiare idea. So come va a finire ma non so come saranno le ultime pagine.

L: Bene, noi avremmo finito. Grazie mille.

M: Sì, la ringraziamo molto, è stato davvero molto interessante, molto.

B: Davvero, grazie per averci dedicato il suo tempo, è stato molto interessante.

G: Va bene. Grazie a voi ragazze. Buona fine, buon principio e buoni sogni e mi raccomando sognate in grande, ali aperte e volare alto! Se avete bisogno di consigli per qualsiasi cosa non esitate a chiedere! Ciao!

Oceano Mare – Locanda Almayer

<<Sabbia a perdita d’occhio, tra le ultime colline e il mare – il mare  nell’aria fredda di un pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord. La spiaggia. E il mare.

Potrebbe essere la perfezione – immagine per occhi divini – mondo che accade e basta, il muto esistere di acqua e terra, opera finita ed esatta, verità – verità – ma ancora una volta è il salvifico granello dell’uomo che inceppa il meccanismo di quel paradiso, un’inezia che basta da sola a sospendere tutto il grande apparato di inesorabile verità, una cosa da nulla, ma piantata nella sabbia , impercettibile strappo nella superficie di quella santa icona, minuscola eccezione posatasi sulla perfezione della spiaggia sterminata. A vederlo da lontano non sarebbe che un punto nero: nel nulla, il niente di un uomo e di un cavalletto da pittore.

Il cavalletto è ancorato con corde sottili a quattro sassi posati nella sabbia. Oscilla impercettibilmente al vento che sempre soffia da nord. L’uomo porta alti stivali e una giacca da pescatore. Sta in piedi, di fronte al mare, rigirando tra le dita un pennello sottile. Sul cavalletto, una tela. È come una sentinella – questo bisogna capirlo – in piedi a difendere quella porzione di mondo dall’invasione silenziosa della perfezione, piccola incrinatura che sgretola quella spettacolare scenografia dell’essere. Giacché sempre  è così, basta il barlume di un uomo a ferire il riposo di ciò che sarebbe a un attimo dal diventare verità e invece immediatamente torna ad essere attesa e domanda, per il semplice e infinito potere di quell’uomo che è feritoia e spiraglio, porta piccola da cui rientrano storie a fiumi e l’immane repertorio di ciò che potrebbe essere, squarcio infinito, ferita meravigliosa, sentiero di passi a migliaia dove nulla più potrà essere vero ma tutto sarà – proprio come sono i passi di quella donna che avvolta in un mantello viola, il capo coperto, misura lentamente la spiaggia, costeggiando la risacca del mare, e riga da destra a sinistra l’ormai perduta perfezione del grande quadro consumando la distanza che la divide dall’uomo e dal suo cavalletto fino a giungere a qualche passo da lui, dove diventa un nulla fermarsi – e, tacendo, guardare. L’uomo non si volta neppure. Continua a fissare il mare. Silenzio. Di tanto in tanto intinge il pennello in una tazza di rame, le setole si tingono di rosso carminio, e abbozza sulla tela pochi tratti leggeri. Esse lasciano dietro di sé l’ombra di una pallidissima oscurità che il vento immediatamente asciuga riportando a galla il bianco di prima. Acqua. Nella tazza di rame c’è solo acqua. E sulla tela, niente. Niente che si possa vedere. “acqua di mare, quest’uomo dipinge il mare con il mare”. – ed è un pensiero che dà i brividi. Si potrebbe stare ore a guardare quel mare, e quel cielo, e tutto quanto, ma non si potrebbe trovare nulla di quel colore. Nulla che si possa vedere.

La marea da quelle parti, sale prima che arrivi il buio. Poco prima. L’acqua circonda l’uomo e il cavalletto, se li piglia adagio ma precisa, e loro due rimangono lì, impassibili, come un’isola, o un relitto in miniatura. Poco prima del tramonto, ogni sera, una barchetta viene a prenderselo che l’acqua gli è già arrivata al cuore. Plasson, il pittore. E ora che se n’è andato, non c’è più tempo. Il buio sospende tutto. Non c’è nulla che possa, nel buio, diventare vero. >>
Alessandro Baricco, Oceano Mare, 1993

Vorrei dirvi che queste parole che avete appena letto le ho scritte io, sarebbe bello. Ma non è così. Questo era il primo capitolo (leggermente modificato) di “Oceano Mare” di Baricco, per l’appunto. Baricco è uno scrittore italiano classe 1958. I suoi libri sono abbastanza famosi,  eccessivamente, ma hanno comunque ispirato varie opere teatrali e il suo capolavoro “Novecento” ha ispirato Giuseppe Tornatore per il film “La leggenda del pianista sull’oceano”. Ebbene sabato 22 Gennaio Baricco ha annunciato, tramite i social, di avere una leucemia. Quando ho letto il messaggio sono diventato cupo, stavo tornando a casa. Non capivo il perché. Certo, una leucemia non fa piacere, ma Baricco non è un mio parente, non l’ho mai incontrato, non sono nemmeno un suo lettore accanito, ho letto solo due romanzi e un breve saggio. Poi la sera, ripensandoci, ho capito che forse ci ero rimasto male perché “Oceano Mare” mi aveva regalato emozioni contrastanti, l’avevo amato ma al contempo non è il libro migliore che abbia mai letto, né dal punto di vista soggettivo, né dal punto di vista oggettivo. Eppure pagina dopo pagina, questa storia surreale, dai toni onirici, narrata in maniera barocca, a tratti snob, mi toccava. Non ho capito se mi stesse accarezzando, o mi stesse prendendo a pugni, ma la sentivo da qualche parte dentro di me. E quindi, mi sono messo a riflettere e a ricordare, le piccole cose che Baricco mi ha donato, pur non conoscendomi. Forse ho trovato qualche risposta e qualche altra domanda. Non le condividerò. Il tutto diventerebbe, lungo, noioso e non potrebbe essere capito da nessuno, se non da me. Ciò che posso dirvi è di leggere. Perché forse anche voi avrete tante domande senza risposte. Forse avete anche voi una gran confusione nel cuore. Se alle superiori non avete queste due cose, beh sappiate che vi invidio. Leggere forse vi aiuterà a trovare delle risposte, o delle nuove certezze. Forse stravolgerà completamente il vostro modo di vedere, vi cambierà, non mi è dato saperlo (per fortuna), posso rispondere solo per ciò che mi riguarda. Così come voi potrete rispondere di ciò che riguarda voi stessi, e forse, se siete molto bravi, qualche altra persona che amate. Non so se ho raggiunto lo scopo che mi ero prefissato, ma poco importa. Ora che ho messo per iscritto i miei pensieri, mi sento meglio.

Possiate vivere molteplici vite in mezzo a sterminate pagine.

Che questa lettura abbia inizio.

Rimettiti presto, Alessandro.

Stefano Piva 4AL, amante di buona musica, buon cinema e buoni libri.

Circe

Il romanzo che racconta della dea e maga Circe, figlia del titano Elios e della ninfa Perseide, è diventato molto famoso sui social, in particolare su Tiktok. È grazie ad un video visto su quest’ultima piattaforma, infatti, che ho deciso di cominciare la lettura del libro di Madeline Miller Circe; volevo avere qualche dettaglio in più su questo personaggio molto famoso, ma al tempo stesso poco conosciuto e “misterioso”.

 
Questo romanzo è un incredibile viaggio all’interno della mitologia greca. Alla vita della protagonista, infatti, si intrecciano svariati personaggi che conosciamo bene anche grazie ai nostri libri di scuola. Prima di iniziare questo libro, credevo di sapere molto sulla vita della maga Circe, accorgendomi, però, di essermi sbagliata parecchio.

 
Il romanzo racconta la lunga ed estenuante vita della dea, della quale, secondo me, viene costruito un ritratto con caratteristiche perlopiù umane. All’interno del libro, l’autrice ci presenta la dea con tutte le sue debolezze, paure, sofferenze e i suoi difetti ed errori. Molto spesso riusciamo a riconoscere situazioni tipiche della nostra realtà contemporanea, che non ci sembrano affatto assurde o irrealizzabili; questo ci fa rendere conto di quanto i miti riescano ad insegnare anche a distanza di millenni.

 
Circe fin da bambina viene vista come quella “diversa” o “strana” dai suoi familiari; per questo è emarginata, messa in ridicolo, sottovalutata, rifiutata. Nella prima parte del libro, dove lei vive ancora nella casa del padre, Circe è una ragazzina molto debole: non trova mai il coraggio di dire la propria opinione o di fare ciò che desidera davvero. Per questo motivo, credo che la lettura si possa definire un romanzo di formazione. Infatti, veniamo accompagnati piano piano nei pensieri della protagonista, vedendone l’evoluzione. La crescita personale di Circe è dettata dalle numerose sofferenze ed esperienze negative che la vita le pone davanti, non è una crescita improvvisa e casuale, al contrario molto lenta e anche dolorosa.

 
Ad un certo punto, però, scoprendo di essere una maga, viene mandata in esilio sull’isola di Eea. La parte centrale del romanzo si svolge su quest’isola, che piano piano Circe adatterà ai suoi bisogni grazie alla sua magia. Mentre noi aspettiamo con impazienza l’arrivo di Odisseo (o almeno io, convinta che la maggior parte del libro trattasse del loro incontro), Circe vivrà molte altre avventure. Il modo in cui l’autrice narra questi episodi mi ha tenuta incollata alle pagine. La Miller ha una scrittura molto poetica e dettagliata, le descrizioni sono sempre minuziose e precise, soprattutto quelle che riguardano le emozioni e le sensazioni dei personaggi.

 
Alcuni argomenti mi hanno particolarmente toccata tanto da volerli presentare cercando di non fare spoiler (guai a chi ci prova!).

 
Per me è stata una scena molto forte la descrizione dello stupro di cui è stata vittima. Da questo momento in avanti, inizierà a trasformare in maiali tutti gli uomini che approderanno ad Eea, dopo averli sufficientemente saziati e ristorati. “La verità è che gli uomini sono dei pessimi maiali” pensa Circe; immagino voglia dirci che in realtà certi uomini non sono solo “dei maiali”, ma addirittura peggiori di questi. Da queste pagine abbiamo la dimostrazione che una donna (non escludendo tuttavia gli uomini) non può mai sentirsi al sicuro, soprattutto quando è da sola; l’autrice scrive “ero una donna ed ero sola, era tutto ciò che contava”. Potrei aprire una parentesi infinita (ma non lo farò, perché spero che questo libro vi possa parlare da solo) sulla violenza contro le donne e sul fatto che l’unico colpevole sia l’oppressore e mai la vittima “per il suo atteggiamento” o “per ciò che indossa”.

 
Dopo la permanenza di Odisseo sulla sua isola, Circe avrà da lui un figlio, Telegono. Ho riconosciuto anche qui il ritratto umano che viene fatto della nostra dea. Lei sarà una madre premurosa, dolce e forse un po’ assillante, ma metterà sempre al primo posto la felicità e la sicurezza del figlio, in ogni occasione. Dalle pagine, capiamo quanto sia forte l’amore materno e quanto riesca ad andare contro ad ogni sfida o difficoltà: Circe farà di tutto per proteggere il bambino, si metterà contro Atena e scenderà negli abissi per sfidare Trigone. Il rapporto tra i due mi ha fatto accorgere di quanto a volte possa essere difficile per i nostri genitori lasciarci liberi di fare quello che desideriamo, poiché, avendo più esperienza, sanno che una determinata cosa potrebbe esserci nociva e provocarci dolore.

 
In questo libro, quindi, Circe non è tanto una dea, una maga o una titana; è soprattutto una bambina indifesa, una figlia, una sorella, un’amante, una madre, una moglie, una donna.

 

 

È un romanzo molto coinvolgente, ti rende infatti partecipe delle scelte e delle azioni della protagonista; mi sono sentita molto spesso triste, arrabbiata o nostalgica con lei. Credo che questo romanzo meriti pienamente la fama che ha acquistato.

 

 

 

Matilde Martinelli 3AC

IL VUOTO CHE NON SI PUO’ SCRIVERE

Sangue, buio, freddo. Questo è quello che sento guardando al di fuori di me. Rami spezzati, voci rotte, lamenti di un uomo che sbuffa alla vita. Non posso dire di esser certo che la nostra umanità sia nata pura, posso solo dire fermamente che, ora come ora, è macchiata dei peccati più orribili. Viviamo nelle sabbie mobili e stiamo lentamente sprofondando dentro un oblio che è cieco di sopravvivenza. I valori dei grandi poeti, le gesta dei veri uomini, le lacrime delle pure anime sembrano non avere più spazio in una generazione di morti che, grida giustizia ma sospira terrore, assaggia la luce ma divora la tenebra. Io voglio poter non essere annientato dalla rabbia di un uomo ma dagli occhi di un bambino, dall’abbraccio di un amico, dal bacio di chi amo. Ed io non voglio essere morto. Non voglio avere paura di aprire gli occhi, non voglio avere paura di accendere la luce, non voglio avere paura di essere, di vivere. Vedo un piccola luce, vedo un cristallo nel buio. Ci siamo ridotti ad avere più paura della vita che della morte, la medicina sta moltiplicando i nostri giorni ma non li sta rendendo migliori. Posso vivere un giorno in più ma posso dire di non averlo vissuto. Che senso ha un respiro se non riempie i nostri polmoni? Che senso ha un pensiero se non ci fa vibrare le ossa? Dove abbiamo sepolto il vero amore, la rabbia pura, la voglia vera di cambiare un mondo che è ormai morto prima ancora di nascere, ogni giorno, dopo una notte che più gli appartiene?
“Anche se il timore avrà sempre più argomenti, tu scegli sempre la speranza.”
 Seneca

Dobbiamo levare il capo verso il sole, dobbiamo liberarci dalle catene, dobbiamo vomitare il vuoto che non si può scrivere. Dobbiamo sputare inchiostro e sangue su pagine che le parole non possono incatenare. Voglio immagini, voglio il rosso, voglio il bianco e voglio il verde. Voglio l’amore, voglio la purezza, voglio speranza. Dipingiamo un mondo nuovo e poi riempiamolo di parole, parole belle, le più diverse parole, parole libere, parole leggere, parole forti, parole vivaci: un delirio di parole! Voglio disintegrarmi in un vortice di emozioni con te, con voi, con me, con noi.

“Senza entusiasmo, non si è mai compiuto niente di grande.” 
 Ralph Waldo Emerson

Voglio volare trasportato dal vento, voglio tuffarmi nelle onde materne del mare dell’essere. Voglio bere acqua azzurra e mangiare pane caldo. Voglio immergermi nei più profondi sentimenti che cova nel cuore questa nostra bella terra. Voglio pelle di sabbia, mani di seta, gli occhi di un quadro di recente dipinto, i miei capelli come l’erba d’estate, i miei vestiti come le foglie d’autunno: il petto che pulsa come la terra alla cavalcata di un cavallo selvaggio.

“Avete i vostri colori, avete i vostri pennelli, dipingete il paradiso ed entrateci dentro.” Nikos Kazantzakis
-Ermete Protocardio

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CI SAPPIAMO SCONOSCIUTI

L’uomo è destinato sin dal primo gemito a vivere divorato dai suoi stessi sentimenti. Come l’avido scrittore, impaurito dalla pagina bianca, egli non conosce il suo domani e dunque lo teme. Come un equilibrista cammina su di una corda tesa ora spinto ora cullato dal maestoso vento della vita che lo costringe ad oscillare perpetuamente tra l’equilibrio e il vuoto sottostante. Egli è impasto di spirito e corpo e ciò che di lui è corpo è destinato a divenire schiavo di quella terra di cui ora mangia i frutti, beve l’acqua e depreda i beni. Per quanto concerne il suo spirito, esso è leggero, più leggero dell’aria e più cupo del più profondo oceano. Viviamo due vite: la vita dei respiri e la vita dei sospiri. E se le leggi della natura si possono comprendere non si può dire lo stesso delle leggi del cuore. L’amore è il re di tutti i sentimenti dal momento che è il padrone di tutti e lo schiavo di nessuno. Esso è motore primo di ogni nostro giorno, di ogni nostra azione, di ogni nostra intenzione. Abbiamo conquistato per amore del potere, studiato per amore della conoscenza, giocato per amore del diletto e sofferto, per amore di un uomo o di una donna. Ma tutto ciò è solo parzialmente realizzabile perché più abbiamo conquistato e più volevamo possedere, più abbiamo giocato e meno eravamo sazi del nostro divertimento, più abbiamo scoperto e più ci siamo accorti di non sapere. Molto spesso non abbiamo il coraggio di lasciarci trasportare dalla vita e analizziamo con la ragione anche il più nobile tra i sentimenti. Dentro noi vive una bestia che non sappiamo controllare, che non sappiamo nutrire, che nessuna lingua potrà mai esprimere. Un qualcosa che ci dilania da dentro, che vuole libertà e a cui doniamo prigionia.
“L’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene.”
-Jean Jacques Rousseau
Tutto ciò che noi pensiamo, tutto ciò che io scrivo qui, è frutto di millenni di riflessioni e di pensieri. Esaleremo forse l’ultimo respiro chiedendoci che senso abbia avuto la nostra vita, che senso tutti questi attimi, che senso tutti i nostri passi. Siamo veramente, come diceva Shakespeare costituiti della stessa materia dei sogni? O siamo semplicemente destinati a far prevalere il nostro interesse terreno al prospetto eterno di cui è forse costituita la nostra essenza? Forse che porteremo con noi per sempre il rimorso di non essere stati all’altezza di comprendere ciò che realmente siamo? Continuiamo a tuffarci tra passato e futuro senza renderci conto che stiamo annegando in questo stesso presente. Viviamo una vita che non è per noi, che non è la nostra. Forse che cerchiamo tutto ma nel posto sbagliato?
“L’uomo è l’unico animale per il quale la sua esistenza è un problema che deve risolvere.”
-Erich Fromm

Ermete Protocardio

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INTORNO ALLA FAMIGLIA

Ho sempre considerato il parentado sfera collaterale della mia esperienza di vita, incorrendo spesso, causa la mia abissale ignoranza intorno la famiglia, nel paterno biasimo in occasioni quali cresime, cenoni e feste di laurea (insomma, quelle situazioni in cui i vari zio Caio e cugino Sempronio possono spiaggiare i larghi deretani su comode poltroncine e rimpinzarsi a oltranza di voul avant).
Da ciò sufficienza e sbuffi ogni volta che mio padre trascinava la conversazione sul teatro familiare.
Fossi stato conscio di avere consanguinei come lo zio Augusto e la mia considerazione verso queste “rimpatriate” sarebbe schizzata alle stelle.
Ma ormai la diaspora è compiuta: alcuni congiunti sono stati vittima della cosiddetta fuga di cervelli (anche se dove nascondessero tutto ‘sto cervello non saprei), altri, come il nonno, sono allettati da lunghi anni, altri ancora sono addomiciliati in camposanto.
Dello zio Augusto, fino a quella sera, conoscevo solo il nome, un tempo ricorrente nelle bustarelle di compleanno ma scomparso ormai da anni.
L’occasione per narrarmi la sua saga venne a mio padre in una filippica contro il gioco d’azzardo e contro i vizi in generale (influenzato, penso, da questo anello saldato da mio zio Germano alla sua interminabile catena di lussurie non più di due mesi prima)
Ricordo come fosse ieri il discorso sconclusionato, gli esempi contradditori e la morale bigotta che, da sobrio, avrebbe per certo ricusato: <<Devi capire che il gioco non porta alcun guadagno, o meglio lo porta a quelli che…. Anzi no…. Cioè porta guadagno solo a chi vince e l’unico a vincere è chi non gioca o chi tiene il mazzo, insomma è una perdita sia economica che morale, mi hai capito Ugo?>>
Non ricordo però come la corrente lo sballottò, poi, fino alla figura dello zio Augusto citato come unico esempio di uomo in grado di trionfare sulla macchina (intesa come slot machine).
Alle mie domande su questo semisconosciuto personaggio fu ben contento di abbandonare la sua prosopopea (non era certo lui stesso di coscienza linda, nel settore vizi) per un più lineare racconto.
Cominciò quindi a tratteggiare il ritratto di questo zio nababbo e amorale, donnaiolo e perbenista.
Da quanto sono stato in grado di desumere questi,circa cinquant’anni or sono, si era preso tra lo stupore generale l’onere di accudire il padre gravemente malato. Maggiore fu poi lo stupore degli altri fratelli quando misero mano al testamento per dividersi l’eredità: il conto corrente desertificato, i campi passati di mano e le proprietà volatilizzate insieme allo zio Augusto.
Sugli anni successivi mio padre non era ben sicuro: certo era un congruo contrabbando da e verso la Svizzera, seguito da altri affari loschi.
Tornato poi a Este con le tasche traboccanti dobloni si era raccolto una popolana dalla condotta dissoluta, certa Alice, tuttora vivente. Insediatosi nella villa che era stata del padre si era dato al gioco d’azzardo e alle speculazioni immobiliari tosando innumerevoli gonzi.
Era poi corso in volontario esilio al sud dopo una vincita a poker che gli aveva fruttato oltre a una farmacia, innumerevoli minacce di morte.
Si vocifera (<<E non andarlo a dire in giro Ugo, per carità>> ripeteva ossessivamente mio padre) avesse poi approfittato del clima Siciliano per spettacolari abusi edilizi, col tacito assenso delle cosche locali.
Affogatosi nel vino l’ex proprietario della farmacia, lo zio Augusto aveva ripreso la via del nord lasciando al sud (sempre “si vocifera”) un buco di qualche milione. Ripreso possesso delle sue proprietà aveva avviato numerosi agriturismi lungo i colli annichilendo il precedente circolo di bed and breakfasts.
Arrivato così a settant’anni si era ritirato dagli affari per morire non più di due anni dopo.
All’apertura del testamento ci furono due grandi sorprese: da una parte mio padre era stato fatto erede universale e dall’altra era scomparso il foglio con la firma all’atto rendendo il documento del tutto invalido. Fu così che il papà crollò rovinosamente svenuto per ben due volte in un solo giorno.
Ora vi starete chiedendo perché abbia definito lo zio anche perbenista. Ebbene dovete capire che per l’intera durata della sua vita un solo difetto gli era mancato: l’essere bigotto. Resosi conto nell’ultimo anno della grave mancanza aveva deciso di porvi rimedio con tre messe settimanali. Convinto poi che ciò non fosse sufficiente in barba a tutta la famiglia si prese l’onere di ricostruire ex nihilo (senza peraltro farne parola a alcuno) la chiesa del villaggio natale, ormai ridotta a un rudere. Così quella Alice, donna enormemente dissoluta (divenuta frattanto sua moglie) che già pregustava una vita a caviale e storione, ereditò a malapena di che garantirsi una vecchiaia dignitosa, con somma soddisfazione di mio padre, riavutosi giusto in tempo per afferrare l’entità del lascito.

Potessi confabulare con un figuro di tale calibro nelle interminabili rimpatriate di famiglia. Tuttavia tocca accontentarsi delle gesta alimentari dei soliti zio Caio e cugino Sempronio che proprio ora cantano fieri l’eccidio di costolette perpetrato ieri sera alla sagra del raviolo fritto dove il ketchup era corso come l’acqua.

 

– Costantino Porfirogenito

L’UOMO CHE VOLEVA ESSERE FELICE

di Anna Larosa

Giusto pochi giorni fa ho finito di leggere un libro intitolato “L’uomo che voleva essere felice” e mi è rimasta impressa la volontà del protagonista di arrivare al suo obbiettivo: e noi cosa siamo disposti a dare per essere felici? E non mi riferisco alle parole, ma ai fatti, a quello che realmente fareste.

Non è una ricerca facile e di conseguenza neanche il percorso che bisogna affrontare lo sarà, però volere è potere, no? (altro…)