Heroes come and go, but legends are forever

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26 gennaio 2020. Un anno. Eppure sembra sia passata un’eternità. In quel periodo vivevamo ancora senza l’idea che, di lì a poco, una pandemia globale avrebbe cambiato completamente i nostri concetti di “normalità” e “quotidianità”.

Era una tranquilla domenica sera di gennaio, quando all’improvviso il mondo, per un istante, si è fermato. TMZ.com, sito web di gossip, rilascia la notizia secondo cui Kobe Bryant, celebre campione e leggenda NBA, è deceduto in seguito ad un incidente sul suo elicottero privato. Il velivolo in questione, un Sikorsky S-76B, pare essersi schiantato su una collina vicino a Calabasas, cittadina a circa 30 miglia a nord-ovest dal centro di Los Angeles. All’inizio non sembra vero, la mente e il cuore dei tifosi sperano che sia l’ennesimo scherzo di cattivo gusto e che tutto si risolva al più presto con una smentita, magari direttamente dalla superstar.

Tuttavia, passano i minuti e altre testate giornalistiche cominciano a confermare la notizia e anzi, cominciano ad emergere altri dettagli: sono altre 8 le persone coinvolte nella tragedia, tra cui la figlia quattordicenne Gianna Maria. Lo schianto pare essere avvenuto in quanto il pilota, a causa della folta nebbia e della bassa quota, non sia riuscito a vedere in tempo utile l’ostacolo e ad evitarlo. Molti potrebbero essere indotti a pensare che il problema fosse legato al mezzo impiegato per spostarsi, inusuale e pericoloso, rispetto alla comune automobile, ma c’è da sapere che Kobe quel mezzo lo usava spesso, anche durante la carriera da giocatore, perché gli permetteva di evitare l’intenso traffico cittadino e tornare a casa prima dagli allenamenti per passare più tempo con la moglie Vanessa e le quattro figlie.

Il cuore di milioni di appassionati di sport, si era fermato per un istante: Kobe Bryant era appena morto. Chi avrebbe mai potuto aspettarselo o essere preparato ad una cosa del genere? Chi avrebbe potuto immaginare che un campione del genere potesse abbandonarci all’età di soli 41 anni?

Molto spesso, si tende a dimenticare il fatto che anche loro sono umani: hanno quindi gli stessi problemi, preoccupazioni, ansie che abbiamo noi e, soprattutto, sono mortali. Vedendoli in tv sembrano invincibili, quasi supereroi, che fanno il lavoro più bello del mondo e vengono pagati profumatamente per farlo. Ma ciò che è successo ci ha dato l’occasione di vederli sotto l’occhio, non del tifoso, ma quello umano: Kobe prima di essere una leggenda del basket era un padre, marito, figlio, fratello e amico.

Ma come mai Kobe Bryant è così amato dalle persone? Kobe Bryant è la cosa più vicina a Micheal Jordan alla quale abbiamo potuto assistere dall’inizio del nuovo millennio. Entrambi condividevano l’amore incondizionato per la palla a spicchi, la volontà di essere i migliori, la determinazione e la ferrea etica del lavoro per raggiungere i propri obiettivi, e la capacità di risultare decisivi nei momenti di massima pressione nei palchi più importanti della pallacanestro.

“I grandi sogni i realizzano attraverso piccole conquiste quotidiane. Devi avere piccoli obiettivi che ti portano a quello finale”

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La giornata tipo del Black Mamba (soprannome che si era autoassegnato per dire che era in grado di mantenere il sangue freddo in ogni situazione) cominciava alle 4 del mattino e comprendeva 3 allenamenti al giorno, nei quali curava la preparazione fisica e quella tecnica con un’ossessione maniacale per il dettaglio.

Ogni sfida e avversario che incontrava sul parquet, era un’occasione per mettersi alla prova, dimostrare a se stesso di essere il migliore. Quello che lo separava dagli altri grandi campioni era proprio il fatto che la sua intensità rimanesse la stessa in tutte le occasioni, sia che la squadra fosse in largo vantaggio o che, al contrario, avesse di fronte uno scarto apparentemente incolmabile.

La “fame” agonistica che aveva Kobe non ce l’aveva nessuno, e ogni tifoso (dei Lakers o meno) guardava a lui come persona da ammirare per l’amore che metteva nel fare il proprio lavoro.

Che effetto fa vedere un giocatore che si è appena rotto il tendine d’Achille, vedere che invece di farsi portare via in barella o disperarsi, trova la forza di camminare da solo fino alla linea del tiro libero, fare 2/2 e solo dopo, abbandonare il campo sapendo che quell’infortunio lo terrà fuori per tutto l’anno successivo? Che effetto può suscitare l’immagine di un giocatore che si è appena rotto il polso della mano destra e di conseguenza col gesso, presentarsi come sempre in palestra, per sfruttare l’occasione ed allenarsi per migliorare il tiro con la mano sinistra? Sono scene particolari, insolite, che per anni hanno ispirato numerosi sportivi e persone ad applicare la cosiddetta “Mamba Mentality” nel proprio campo sia che fosse lavorativo, sportivo e umano.

 

Kobe e l’Italia

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Le storie americane e i loro grandi personaggi… e se vi dicessi che la storia del nativo di Philadelphia comincia proprio in territorio italiano? E se vi dicessi che parlava benissimo in italiano, seppur vivesse in USA gran parte dell’anno e che l’unica occasione per tornarci era qualche sporadica vacanza? Kobe amava l’Italia, che ha chiamato “casa” fino all’età di 13 anni.

Cosa ci faceva Kobe in Italia? Il padre Joe militò in serie A2 italiana in 4 città: Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, che tutt’oggi sono tra le più importanti piazze del basket italiano. L’amore per la nostra patria l’ha manifestato in più di qualche intervista elogiando il lavoro che si propone ai bambini con l’obiettivo di insegnargli a padroneggiare in modo completo le basi della pallacanestro, piuttosto che il sistema americano che tende molto spesso ad esaltare giovani talenti, spremendoli per farne da subito macchine da soldi piuttosto che curare i cosiddetti fondamentali, rendendoli così molto prevedibili e solamente showman, piuttosto che veri giocatori di basket completi.

Un legame fortissimo con il tricolore trasferito anche alle proprie figlie, chiamate con nomi

che evocano il Bel Paese e i suoi luoghi: Natalia Diamante, Bianka Bella, Capri Kobe e Gianna Maria-Onore.

Kobe Bryant ha lasciato un segno indelebile non solo nella storia del basket, ma in quello della storia, come modello di uomo da seguire. Un uomo non di certo invincibile, che ha commesso i propri errori, ma che ha saputo rialzarsi di fronte alle difficoltà e ha cercato di aiutare sempre il prossimo. In un’intervista disse che la più grande sconfitta per lui come uomo sarebbe stata quella di essere ricordato per essere stato uno dei più grandi giocatori di basket e non per ciò che ha fatto durante tutta la sua vita.

Non ci sarà più un altro Kobe, e nemmeno c’è il bisogno che qualcuno provi ad essere esattamente ciò che è stato ora tocca a noi conoscere e ispirarci alla sua storia e portare avanti la sua “legacy” (eredità), in qualunque cosa noi facciamo.

“La lezione a cui tengo di più è quanto è importante amare quello che fai. Tu non puoi fermare le persone che vedono limiti nei tuoi sogni, ma puoi fare in modo che quello che dicono non diventi realtà. I tuoi sogni dipendono da te. Io ti incoraggio ad essere sempre curioso, a ricercare le cose che ami, e a lavorare sempre duro una volta che le hai trovate. Ora ti lascio proseguire la tua serata, ma sappi che io sto pensando a te ti supporto e ti incoraggio sempre ”.

Mamba out.

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Alessandro Moro 5BS