BORDERLINE

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Cari quattro lettori di Rompipagina, avete mai fatto un’esperienza così folle da rischiare la vostra pelle? Una di quelle esperienze che vi fanno sentire vivi? No, non mi sto riferendo al Brucomela di Gardaland, ma a quegli sport che vengono chiamati “estremi”, come paracadutismo, parkour, base jumping, arrampicata, equilibrismo…

A proposito di quest’ultima disciplina vi racconto l’esperienza di un famoso funambolo che, un po’ filosofo un po’ criminale, ci fornisce una chiave di lettura dello sport estremo e della vita stessa.

Nel 1971 questo giovane francese bypassa i controlli di quella che allora era la Cattedrale di Notre-Dame a Parigi e sale su uno dei due campanili della facciata gotica. Nelle ore precedenti era riuscito a tendere una corda, salda e resistente, tra una torre e l’altra. Il suo nome è Philippe Petit. Non ha ancora ventidue anni ma come un bambino che fino a ieri gattonava e oggi si alza sulle gambe, lui sta per cominciare a camminare. Un passo, un altro, percorre la corda sul vuoto, sicuro e determinato, con un mezzo sorriso stampato sul volto. Ad un tratto addirittura si ferma e si sdraia lungo il cavo, davanti a centinaia di turisti increduli. Sembra un folle improvvisatore, ma in realtà si allenava per quell’impresa da ben sei anni, ininterrottamente. Terminato lo spettacolo la polizia lo arresta: ma lui sa che lo rifarà. Sa che ha appena cominciato a camminare.

7 agosto 1974, questo il giorno in cui Philippe camminò su un’altra fune, tesa tra altre due torri: le Torri Gemelle, New York City. Il terrorismo che avrebbe lanciato aerei contro quei giganti non era altro che l’ombra di fantasma lontano, all’epoca impensabile.

“Cos’è che porta a compiere un gesto così folle?” E’ il desiderio di sperimentare emozioni nuove e intense, infatti come afferma Bepi Hoffer, uno dei più famosi base jumper d’Italia: «Precipitare libero a 200km/h lungo la facciata di una montagna, il sibilo del corpo che cade, l’apertura della vela al momento giusto, l’adrenalina di cui posso godere mentre plano lentamente e la conquista del vuoto: ecco cosa cerco». Se quindi Petit camminava per non cadere, Hoffman cade per non camminare. Perché vuole volare.

Accanto a questa ricerca del brivido e del divertimento allo stato puro, praticare gli sport estremi rappresenta anche una sfida individuale, un input a superare le proprie paure e a dare sempre il meglio dimostrando chi si è veramente e di cosa si è capaci. Da questo punto di vista lo sport estremo rappresenta una via per conoscere sé stessi, ma anche la natura sublime che ci circonda: esso infatti ci dà un assaggio della grandezza della natura, di cui forse troppo inconsciamente facciamo parte, non accorgendoci che noi siamo soltanto attori e interpreti di questo meraviglioso spettacolo, e che esso non ci appartiene. Facciamo parte della natura, ma non la governiamo, non la possediamo. Siamo soggetti ai suoi andamenti, come un base jumper è soggetto alle correnti.

Tuttavia è innegabile che queste attività siano rischiose per la vita di una persona, basta uno sbilanciamento e non ci sono altre chance. La vita di chi rischia la vita è semplice: «In una traversata sul filo c’è un inizio, una fine, un progresso. E se si fa un passo di lato, si muore, tutto qui», dice Petit. Si sta costantemente sul filo del rasoio, in una labile ed evanescente linea di confine tra la vita e la morte.

Allo stesso tempo però non si può nascondere che ad esempio scalare l’Everest abbia degli effetti positivi: sviluppa l’abilità di controllare e dominare sé stessi e le proprie emozioni, permettono ad un individuo di raggiungere uno stato di equilibrio tra i propri limiti e le proprie capacità e di sintonia tra mente e corpo: il Nirvana. Questo sforzo mentale avviene anche per i base jumper, che prima di gettarsi nel vuoto cercano un punto di lancio, detto exit. Infatti una delle cose più importanti per loro è proprio cercare quest’uscita, studiare il mondo in verticale, per individuare la pedana invisibile dalla quale spiccare il volo. Cercare l’exit conta quanto gettarsi giù.

E noi quanti Everest dobbiamo scalare nella nostra vita? Quante volte vorremmo lanciarci ma non ci riusciamo? Veniamo costantemente oppressi dal lavoro, dagli impegni e dalla nostra società che non lasciano spazio per noi stessi e per la nostra personalità. Spesso vogliamo evadere da tutto ciò ed abbandonare la nostra comfort zone come fanno i base jumper.

Ma non troviamo l’exit.

By Pεriπateticy