Tra il sogno e il reale

Molte volte mi affaccio al balcone di camera mia e contemplo il paesaggio che si dipinge dei colori del
tramonto, con il sole intrappolato dagli alberi del piccolo bosco adiacente alla mia casa. È da quando sono piccola che quasi tutte le sere, verso quel momento, nel silenzio intorno a me e mi godo quei pochi
minuti osservando la tela che il cielo dipinge, tutte le volte con sfumature e dettagli diversi.

Sempre, in quell’istante in cui stacco la spina da ogni mio pensiero, mi ritrovo di nuovo ad essere una bambina, meravigliata dalla bellezza di quel capolavoro nell’immenso soffitto celeste e a volte penso: “Perché non posso sentirmi sempre così?”. La risposta verrebbe spontanea: “Perché sei cresciuta”. Ma io a quel quesito che mi pongo rispondo semplicemente: “Puoi sempre sentirti così, basta che tu lo voglia”.

Cresciuta o meno, quello che io voglio essere è semplicemente essere felice, e per esserlo devo ricordarmi di chi ero prima di crescere, prima di infangarmi dentro regole e restrizioni che la società mi impone.
Ricordo di quando ero bambina, di quanto più ero felice e di quanto, ora, non lo sono più. Onestamente,
con gli anni ho imparato che far vedere le proprie emozioni davanti alle persone ti crea una cicatrice visibile agli occhi di tutti, che simboleggia ciò che sei.

Così, per non aver nessun segno nella mia pelle, mi sono costruita una personalità del tutto generale, semplice e falsa. Tutto ciò che è la vera me non lo conosce davvero nessuno, ed essendo sincero con te stesso, forse anche te, mio caro lettore, sei un po’ come me.

A mio parere questo non significa di certo che sono una persona falsa, anzi, è l’istinto che mi porta ad agire così, è la paura che mi rinchiude in una cella in cui ogni giorno ho a disposizione solo poche emozioni da poter esprimere, e spesso sono sempre le stesse: falsa gioia, falsa felicità e falsa spensieratezza.
Forse, sembrerà difficile affrontare tutto questo se letto da un bambino, ma molti adolescenti di
oggi sono chiusi in questa gabbia, alcuni cercano in tutti i modi di raggiungere la chiave per liberarsi,
altri se ne stanno fermi, aspettando che la cella si apra autonomamente nel momento in cui si è da soli, per poi rinchiudersi di nuovo quando si avvicina qualcuno.
Una domanda che adesso, in questo momento della mia vita, mi sta facendo morire dentro è: “Come va?”.
La sento di continuo: ”Ciao, come stai?”, “Ciao, come va?”, “Ciao, tutto bene?”. E la risposta rimane sempre
e solo quella “Tutto bene, dai”. Ormai nel mio vocabolario queste tre parole sono quelle più usate, ma in
tutta sincerità, non ho nemmeno voglia di dire che sto male.

Non cerco il compatimento di nessuno: non lo voglio, e non voglio vedere negli occhi del mio interlocutore la compassione per la mia risposta, quindi mi limito a rispondere il falso, per non essere assillata da domande o guardata con pietà.
Ricordo di quando ero bambina, di quanto amavo me stessa e di quanto, ora, mi odio. Nell’età infantile
nessuno si interessava della forma che aveva il mio corpo, se avevo un po’ di pancetta in più o se ero più paffutella di tutti gli altri miei amici: ero comunque spensierata e felice, ma realmente. Mi ricordo
esattamente quando ho cominciato a notare delle diversità su di me rispetto agli altri.

Ero all’inizio della prima media e scrutando le ragazze di terza, mi ritrovai a odiare il riflesso della mia persona davanti lo specchio. Ero piccolina, ma non cambiò il fatto che io da quel giorno non ho mai smesso di odiami, e il mio aspetto fisico è diventata un’ossessione, fino a raggiungere anche disturbi alimentari.
Qualche giorno fa ho fatto un sogno ad occhi aperti. Incontravo me stessa da bambina. I capelli ricciolini e biondi che cadevano dolcemente nelle spalle, gli occhi azzurro mare, grandi e brillanti, il sorriso imperfetto con ancora i denti da latte e il vestitino lungo con i fiori rosa disegnati su uno sfondo bianco, proprio quello che mi piaceva tanto.

La piccola me mi venne incontro e mi abbracciò.

Mi ritrovai a piangere e a chiederle scusa per tutto quello che le avevo fatto, intanto stringevo al mio petto una fotografia di me da bambina in braccio a mia sorella.
Subito dopo essermi ripresa da quel momento, ho pensato che forse la strada più facile sarebbe stata se
l’avventuroso Peter Pan fosse venuto a farmi visita quando ancora ero felice veramente, e portandomi via
da tutto quanto, mi avesse condotto verso l’isola che non c’è, per rimanerci per sempre, senza la
paura di dover crescere; ma ho deciso di promettere a quella piccolina, di ritornare a farle visita più spesso, in un corpo diverso, ma con la sua stessa, vera, personalità.


Elisa Veronese, 3BL