La solitudine

Le quattro cause aristoteliche

“La parola causa si usa in 4 sensi, di cui uno è che diciamo causa la sostanza e l’essenza, ma un altro la materia e il sostrato; un terzo quello da cui viene il principio del movimento, un quarto la causa contrapposta a questo ossia il fine.”
Marmo: causa materiale.
Soggetto: causa formale.
Scultore: causa efficiente.
Ammirazione: causa finale, motrice.
Aristotele sosteneva fermamente che, trovando queste quattro cause, si potesse definire il mondo, che bastassero a sapere tutto quello che serve su qualsiasi cosa. Trasferendo questo modello nella concretezza si nota come i primi tre fattori siano facilmente identificabili e strettamente legati, dipendenti l’uno dall’altro; per il quarto invece la questione si complica, l’analogia non risulta altrettanto evidente. La causa finale è discorde, si cela nell’ombra delle altre tre, ma in realtà è l’unica in grado di attivare la potenzialità della materia, della forma e del principio. Non è oggettiva. Una statua può essere ammirata, venerata, esposta, studiata, interpretata, può far commuovere, può allo stesso tempo disturbare. Diversi sguardi, diversi fini.
Ragionando su questa immortale teoria filosofica risulta quasi banale comprendere come qualsiasi oggetto o essere esista solo in relazione alle sue cause, e soprattutto in relazione al suo scopo. Una statua si può chiamare statua che sia in bronzo, in marmo o in terracotta; si può chiamare statua nonostante assuma forme di soggetti e personaggi diversi, si può chiamare statua indipendentemente dal suo autore, ma cosa sarebbe una statua chiusa in una stanza buia? Cosa sarebbe un Monet senza occhi che lo contemplino, un ballerino senza applausi, un attore senza teatro, uno scrittore senza penna. Perché si sente spesso dire “questo posto è casa”, oppure “gli amici sono la mia casa”? Perché il fine della casa, non è avere un tetto e un pavimento, ma è dare
sicurezza, conforto, intimità.
Per me un uomo solo è un uomo che ha perso la sua causa finale.
Un uomo che non trova più il suo scopo e lo cerca come si fa con il telecomando della televisione, o le chiavi della macchina; lo cerca disperatamente, ma non lo trova mai nonostante sia sotto ai suoi occhi. E più lo insegue, meno speranze ha di farcela. “Credo che sia questa la prima solitudine, il non sentirci utili”, il non avere più quella forza motrice in grado di spingerci a vivere. Non siamo mai del tutto soli. Abbiamo un compagno fisso, il nostro fine, che rincorriamo imperterriti. A volte però inciampiamo in altre vite e allora ne inseguiamo uno diverso, altre invece cadiamo per terra e lo perdiamo nell’intento di rialzarci. Questi sono i veri momenti di solitudine che spesso vengono fraintesi e definiti come mancanza di compagnia. In realtà credo che l’assenza di attenzioni, l’esclusione, la lontananza, possano generare solitudine, ma non siano da confondere con essa.
“Noia, nulla è così insopportabile all’uomo come essere in pieno riposo, senza passioni, senza faccende, senza svaghi, senza occupazione. Egli sente allora la sua nullità, la sua dipendenza, la sua impotenza, il suo vuoto”. Stare soli genera noia, noia genera solitudine. Noia vista come sentimento di inutilità e vuoto. “Ho sceso dandoti il braccio almeno un milione di scale e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino”. La solitudine di Montale non è soltanto quella di aver perso la moglie, ma quella di aver perso il suo scopo ossia amarla, prendersene cura, porgerle il braccio indipendentemente dalle difficoltà, indipendentemente dal numero di gradini.
La solitudine è qualcosa di strettamente legato a noi stessi, alla relazione che creiamo coi nostri pensieri, al rapporto perpetuo che c’è tra “me” e “io”, non tra “me” e “voi”. “La solitudine non è un albero in mezzo a una pianura sconfinata, è la distanza tra la linfa profonda e la corteccia”, tra parti diverse di uno stesso insieme, tra il cuore e la mente, tra i pensieri e le azioni, tra il sopravvivere e il saper distinguersi.
La solitudine non è una barca in mezzo al mare, ma una barca senza equipaggio. Non è una lettera non letta, ma una lettera non inviata. È una bocca che non vuole parlare e una mente che non sa pensare. Non è un addio, ma è un saluto carico di rimpianti. Non è uno strumento musicale lasciato in un angolo, ma un violino non accordato. Non è un “ti amo” tremante proferito nel silenzio, ma è un “ti amo” mai detto. Non è uno “scusa” sussurrato, ma è un perdono mancato.
La solitudine non è un uomo solo, ma un uomo senza scopo.

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