Aspettative e realtà

Ho sempre pensato che prima o poi sarebbe arrivato quel fatidico momento in cui improvvisamente avrei capito tutto. Avrei realizzato chi sono, cosa mi piace e cosa no, cosa voglio fare e quanto sono disposta a combattere per raggiungere i miei obiettivi.

 

Fatto sta, però, che il Maggio scorso, spegnendo le diciotto candeline sulla torta di compleanno, mi sono resa conto che quel momento è ancora ben lontano dal giungere.

 

Ebbene sì, per quanto tutti si aspettino che noi abbiamo già pronte tutte le risposte a domande come “cosa vuoi fare da grande?”, spesso non è così. E la prima volta che sono stata brutalmente schiaffeggiata da questa cruda verità è stato durante il tragico anno della terza media, in cui, oltre al terrore degli esami alle porte, che venivano presentati dagli insegnanti come una prova insuperabile, si aggiungeva l’enorme responsabilità di dover scegliere la scuola superiore che avremmo frequentato una volta finite le medie. Fu un dramma. Confusione, dubbi, pianti. Il fatto che quella scelta avrebbe potuto definire la mia intera carriera, e quindi il resto della mia vita, creava un irrefrenabile tumulto in me. Per quanto mi scervellassi, non riuscivo a giungere ad una conclusione quando mi interrogavo sui miei interessi, obiettivi, sogni. Chi ero, cosa volevo diventare? Domande del genere continuavano a frullarmi in testa, ma senza mai ottenere una risposta. Più per caso che per un motivo vero e proprio scelsi il liceo che sto frequentando, con la forte speranza che strada facendo avrei imparato a conoscermi. Non fu così.

 

Prima superiore e mi viene chiesto cosa mi abbia spinto a cominciare questo percorso. Seconda superiore e mi si domanda se sono soddisfatta della mia scelta. Terza superiore e mi viene detto di fare un breve discorso sui miei piani futuri, cioè l’università e la professione che avevo in mente. Quarta superiore e mi rendo conto che continuo a non saper rispondere sinceramente a nessuna di queste domande. Certo, una risposta di scorta ce l’ho sempre. “Ho scelto questo indirizzo perché mi sono sempre piaciute le lingue straniere e sento di essere più portata per le materie umanistiche.”, “Mi piacerebbe fare la scrittrice perché amo leggere e la letteratura mi affascina molto”, “Se ne avessi la possibilità, sarebbe molto bello frequentare un’università all’estero, più in particolare in Francia, e scegliere una facoltà legata alle lingue e letterature straniere”. Io stessa non so se e quanto ci credo a queste affermazioni, essendo perlopiù discorsi che ho creato per non rispondere con un semplice ma sincero “non ne ho la più pallida idea”.

 

E quindi eccomi qui, in quarta, dopo 3 anni pieni di ansia, a poco più di un passo dal dover decidere cosa fare finite le superiori. Secondo momento drammatico in arrivo dopo quello di 4 anni fa? Molto probabile.

 

Però quello che proprio non capisco è perché debba funzionare così. Chi l’ha detto che dobbiamo già sapere cosa vogliamo fare? Chi l’ha deciso che a soli 13 anni si debba già essere in grado di fare una scelta così importante come quella di individuare tra innumerevoli opzioni la scuola più adatta a noi? Perché devono essere imposti questi paletti, questi vincoli, queste barriere? Perché non possiamo seguire i nostri tempi? E se io non volessi andare nella stessa direzione degli altri? E se per ora avessi voglia di passare gran parte del mio tempo in attività alternative per raggiungere uno stato d’animo più pacifico? E se preferissi mettere al primo posto il mio benessere fisico e mentale e non cercare di soddisfare le aspettative surreali che la società ha nei miei confronti?

 

Per fare un esempio, ci sono alcuni bambini che già all’asilo sanno di voler diventare pompieri e che, una volta diventati adulti, lo fanno e ne sono felici, mentre altre persone comprendono la propria inclinazione solo dopo aver vissuto quattro decenni sulla Terra. E allora perché si è costretti alle stesse tempistiche? Questo rende inevitabile che gran parte della popolazione finisca per compiere delle scelte premature, per poi capire solo dopo molto tempo che avrebbe dovuto fare tutt’altro.

 

Sono dunque certa che, se solo ci fosse una maggiore flessibilità nei confronti dei giovani, un lasciarli liberi di decidere e di evitare di farlo quando non se la sentono, questi avrebbero molte più probabilità di trovare la loro strada. Fin dalle elementari siamo invece costretti a seguire un certo programma, ad andare di pari passo con gli altri compagni e le altre classi e da subito quasi ogni forma di individualità e creatività non esplicitamente richieste vengono soppresse. E questo purtroppo prosegue con gli anni.

 

In conclusione, penso che noi giovani dovremmo cercare a tutti i costi di non rinunciare alla nostra individualità, evitando di lasciarci travolgere da questa spirale di obblighi e doveri che provengono dal nostro esterno. La cosa migliore sarebbe, infatti, seguire il più possibile il nostro istinto, ascoltandoci, comprendendo le nostre necessità e soddisfacendole, perché questo ci permetterebbe di essere buoni e generosi con noi stessi e con gli altri. Se invece finissimo per essere l’ennesima generazione che fa qualcosa che odia solo perché le viene detto di farlo, questo ci toglierebbe l’amore per quella fantastica occasione che si ha una volta sola: la vita.

 

 

 

Andra Bandrabulea, IV AL