Un battesimo di fuoco
Fu quando salii sull’aereo che il mio viaggio cominciò. O forse no. Probabilmente fu quando mi misi in contatto con la mia famiglia ospitante. O forse quando compilai tutti i documenti per partire. Ad ogni modo, il 2 agosto 2024 era il giorno in cui io sarei partita per passare sei mesi in Germania, nei pressi di Hannover: una vera e propria avventura che attendevo da anni e che a stento credevo realtà.
Il giorno della partenza mi alzai intorno alle otto, visto che mia cugina sarebbe passata a trovarmi per salutarmi un’ultima volta. Dopo aver giocato un po’ a carte e aver pranzato insieme, misi in valigia le poche cose che mancavano e, intorno alle tre di pomeriggio, mentre i miei genitori caricavano i bagagli in macchina, io andai a salutare mia sorella e mia nonna. Nonostante non versai una lacrima, non nego che avevo un nodo alla gola che ha faticato ad andar via.
Salimmo in macchina poco prima delle quattro: dovevamo essere all’aeroporto di Bergamo per le sei, in quanto il mio volo era alle otto e mezza. O meglio sarebbe dovuto essere alle otto e mezza, infatti fu posticipato una prima volta di due e mezza: non era un gran problema però, saremmo potuti andare a un centro commerciale lì vicino per passare il tempo.
Così entrammo nell’aeroporto intorno alle otto e aspettammo affinché ci dicessero dove andare per il controllo bagagli. Fu quando mancava solo un’ora all’imbarco che mio padre andò a chiedere informazioni. Scoprimmo infatti che non potevamo imbarcare la valigia, perché il controllo bagagli andava fatto prima delle sette, come se l’aereo fosse stato in orario e che quindi potevo solo mettere alcuni vestiti e altre poche cose nello zaino. A questo punto ero ben oltre l’essere infuriata, ma non potevo fare molto a riguardo, quindi accettai il mio destino.
Passai velocemente attraverso i controlli di sicurezza e, dopo che gli addetti mi diedero il permesso, salutai i miei genitori: neanche qui versai una lacrima, ma stavolta perché la rabbia faceva “da tappo” alle altre emozioni. Agitai la mano come addio ai miei genitori fino a che non li vidi più, poi cominciai a correre verso il gate: arrivai in tempo per fortuna e, appena diedi i miei documenti alla hostess, lei mi indirizzò verso la porta dove avrei dovuto prendere il bus che ci avrebbe portato all’aereo.
Non appena mi sedetti al posto, il capitano del volo cominciò con l’annuncio: aveva un inglese terribile, tanto che io capii solo due parole “un’ora” e “ritardo”. Un’altra ora! Saremmo partiti dopo mezzanotte, ma ormai mi ero rassegnata: tutto quello che poteva andar male in questo viaggio è andato addirittura peggio. Speravo solo che non rispecchiasse l’intera esperienza.
Quando finalmente partimmo, io mi tenevo disperatamente al bracciolo del mio sedile: era la mia seconda volta su un aereo ed ero rimasta traumatizzata dal decollo la prima volta che avevo volato, quando avevo su per giù cinque anni. A dir la verità però, sebbene avessi la tachicardia e per un momento pensai che il mio cervello avesse smesso di funzionare, non fu poi così male dopotutto.
Il viaggio andò liscio, a parte un po’ di turbolenza sopra le Alpi, e atterrammo all’aeroporto di Hannover intorno a l’una e venti di mattina. Abbozzai un sorriso appena misi un piede fuori dall’aereo: ero arrivata finalmente, non ci potevo credere!
Fuori dal terminal vidi mia mamma (Dunja) e mia sorella (Sophie) ospitanti che tenevano in mano due cartelli con appesi dei palloncini: “Martina” ed “Herzlich Willkommen” (un caloroso benvenuto). Corsi da loro e ci abbracciammo, tornando a casa in macchina parlammo un po’ in inglese, anche perché erano le due di mattina anche per me ed ero troppo stanca per parlare tedesco.
Arrivata a casa, mi fecero fare il giro, spiegandomi un po’ cosa c’era nelle stanze e, infine, andammo in quella che sarebbe stata camera mia per sei mesi: piccolina, ma molto ben arredata e confortevole. Lì diedi loro il primo dei due regali (l’altro era rimasto in valigia): un mazzo di carte da scala quaranta in edizione limitata. Lo adorarono. Poi mentre stavamo parlando del più e del meno è entrata in camera la gatta Kleine (letteralmente “piccola”) che cominciò cautamente ad esaminare il mio zaino: mia mamma ospitante mi avvertì che diffidava degli sconosciuti, ma sembrava che io le piacessi, visto che non era turbata dalla mia presenza.
Mi preparai per andare a letto intorno alle tre di notte: mi stesi sul letto ma il sonno non arrivò facilmente, al suo posto invece arrivò Kleine che mi arrampicò sul mio letto, ma scappò via di corsa appena i nostri sguardi si incrociarono.
Circa cinque ore dopo mi svegliai perché ero stata invitata a far colazione con un’amica di mia sorella ospitante che aveva da poco compiuto diciassette anni per festeggiare insieme. Giunte al ristorante devo dire che non mi aspettavo una tavolata di dodici persone per una colazione, ma, come mi è stato spiegato, qui è il pasto più importante e in linea di massima preferirebbero addirittura saltare il pranzo piuttosto che la colazione. Solitamente in Italia non si mangia molto a colazione, nemmeno durante i weekend (io ad esempio non la faccio affatto), ma qui mangiano di tutto: passano dal dolce al salato senza problemi, nello stesso piatto avevano frutta, panini con la Nutella, uova strapazzate, salsiccia cruda, insalata russa eccetera. Ho visto persino qualcuno bere della zuppa di sedano e carota o mangiare i pancake dolci con sopra il salmone crudo.
Qui ci fu anche il mio primo shock linguistico: appena arrivate quella che ho capito dopo essere la mamma della festeggiata è venuta da me sorridendomi e dicendomi qualcosa che rimarrà un mistero a vita perché, anche se ho volto uno sguardo disperato a Sophie, lei non ha tradotto quello che mi ha detto, quindi mi sono limitata a sorridere e annuire. Invece quando la ragazza (di nome Viktoria) mi rivolse la parola, io ebbi l’occasione di ringraziarla per l’invito dicendole “Ich bin froh, dass du mir eingeladen hast” (sono felice che tu mi abbia invitato), probabilmente facendo qualche errore.
Il resto del giorno andò bene: andammo a fare compere e la sera mi telefonai con i miei genitori, raccontando loro la mia giornata. La prima di tante.
La scuola
Quando mi alzai lunedì 5 agosto 2024 ero su di giri. Raramente sono nervosa, ma quella mattina ero letteralmente fuori di me dall’emozione di cominciare scuola. Mia mamma ospitante mi avrebbe accompagnato, e un po’ prima del previsto perché dovevamo andare in segreteria visto che non le avevano ancora comunicato la classe in cui sarei dovuta andare (sapevo solo che mi avevano messo nel decimo anno, che sarebbe come la seconda liceo). Trovo divertente come, da qualsiasi parte nel mondo, in segreteria ci sono sempre e solo scansafatiche.
Ad ogni modo i nuovi arrivati nelle classi erano scritti in un tabellone all’entrata: io sarei stata in 10C, insieme a un altro “new entry“, un certo Andrii. Speravo di fare amicizia con lui.
Entrata in classe cercai il primo posto libero: ne trovai uno in prima fila accanto a un ragazzo biondo.
“Darf ich hier sitzen?” (posso sedermi qui?), gli chiesi in mezzo al trambusto.
“Natürlich” (certo).
Così feci e subito dopo il professore di inglese venne a parlarmi chiedendomi se fossi io l’exchange student dall’Italia. Appena finimmo di parlare, il mio compagno di banco, che ho scoperto essere Andrii, iniziò una conversazione e chiacchierammo un po’: lui mi disse di venire dall’Ucraina e che si era trasferito qui due anni fa.
Parlammo un po’ così fino a che la lezione cominciò e mi dovetti presentare.
“Ich bin Martina und komme aus Italien” (sono Martina, vengo dall’Italia), dissi con voce un po’ insicura.
“Ich wohne bei Venedig” (vivo vicino a Venezia), mentii: dubito che dei quindicenni tedeschi sapessero con precisione dove fosse Padova, per non parlare di Ospedaletto Euganeo.
Notai subito qualche differenza dalla scuola italiana: il liceo non ha indirizzi e dura fino a nove anni (dalla quinta elementare alla quinta superiore), quindi le uniche materie che si possono scegliere sono la seconda lingua straniera (tra francese, spagnolo e latino) e il tipo di religione (protestante, cattolica o alternativa), solo dall’undicesimo anno si possono scegliere le materie; le lezioni sono divise in periodi da quarantacinque minuti, solitamente ne facciamo sei al giorno, ma ogni materia dura due periodi, quindi facciamo tre materie diverse al giorno; si fanno due pause da venti minuti ciascuna, durante le quali si può solo stare in atrio o in giardino perché le aule vengono chiuse a chiave. Spesso si cambia aula per le varie materie e per le materie scientifiche si va sempre in laboratorio. La partecipazione durante le lezioni è fondamentale e costituisce almeno il 60% del voto finale, l’altra parte invece è formata da uno o due voti scritti (le verifiche sono chiamate Klausuren).
Ad ogni modo il giorno passò in fretta tra un gioco e l’altro e l’ora di tornare a casa arrivò in men che non si dica. Mentre tornavo a casa con mia mamma ospitante le raccontai di tutto quello che era successo.
Prime amicizie, si spera
Il giorno dopo avevo ginnastica la seconda ora, quindi durante la prima pausa mi presi del tempo per girare un po’ la scuola e capire dove fosse la palestra, di conseguenza al suono della campanella io ero già lì davanti ad aspettare il professore. Durante l’attesa però, andai a parlare un po’ con due ragazze della mia classe: solo una però era interessata alla conversazione e parlammo del più fino a che non arrivò il professore. Mi disse di chiamarsi Dilan e di avere origini turche; con lei e l’altra sua amica, Zoé, (anche se con lei parlavo poco), ho passato le pause per un paio di settimane.
Almeno fino a che il 15 agosto non vidi entrare in classe due visi nuovi. Chiesi subito a Dilan chi fossero le due ragazze e lei mi informò che erano due ragazze delle sei ragazze da Colombo, la capitale dello Sri Lanka.
Sapevo che la mia scuola era gemellata con due scuole dello Sri Lanka e che organizzava ogni anno uno scambio di tre settimane sia per gli studenti singalesi che per quelli tedeschi, ma non mi aspettavo fosse ad agosto. Aspettai dunque di rincontrarci davanti alla classe al termine della seconda pausa per fare un po’ conversazione. Mi dissero di chiamarsi Raeha e Treasa e facemmo presto amicizia.
Il lunedì successivo durante la lezione di inglese feci la conoscenza anche delle altre ragazze, in particolare con Duvini e Anika. Con loro passavo spesso le pause, a parlare di tutto e un po’ in inglese (visto che loro il tedesco non lo studiano), strinsi presto amicizia in quanto anche loro erano exchange students e potevano capire le mie difficoltà.
Sempre sul tema amicizie, mi potevo dire fortunata di conoscere già da prima di partire un ragazzo di Trieste che qua in Germania abita a una ventina di minuti di S-Bahn (tram) da me: Martin. Ironico perché oltre ad avere un nome simile al mio, Martin è il cognome della mia ospitante nonché della mia prof di tedesco qui (che è anche la coordinatrice di classe).
Ad ogni modo con lui mi ero conosciuta durante una giornata di attività organizzata dalla mia agenzia ancora a maggio, è stato proprio lì che ci scambiammo i numeri di telefono e io gli scrissi un mesetto dopo appena sapevo che anche io sarei andata vicino ad Hannover, perché lui aveva già accennato della sua famiglia ospitante quando ci siamo conosciuti.
Appena arrivati in Germania ci mettemmo d’accordo per incontrarci dopo la prima settimana di scuola e così andò: ci trovammo a casa mia per un barbecue, cosa molto comune tra i tedeschi; ci divertimmo molto quella sera, a chiacchierare con la mia famiglia ospitante e i loro amici e a giocare a carte.
Note dell’autrice
Non sapete quanto mi piacerebbe raccontare di più di quel che sto vivendo: della mia prima gita ad Hannover, dove ho visto dei ragazzi surfare sul fiumicello che la attraversa, della prima lezione di spagnolo quando la professoressa mi ha chiamato in disparte a fine lezione per dirmi che era rimasta positivamente sorpresa dalle mie capacità nella lingua (anche se in Italia arrivo spesso e volentieri a malapena alla sufficienza) o di quando quello che sembrava un sogno lontano, diventa in men che non si dica la quotidianità. Ma il testo si sta già facendo lungo, quindi ho dovuto tagliare molte parti che avrei voluto inserire.
Come ultima cosa vorrei quindi ringraziare la mia professoressa di tedesco che mi ha appassionato quel tanto alla lingua da farmi venire l’idea di mettermi alla prova in questa avventura in Germania.
Tschüß!
Martina Buttarello, 4BL