Tip tap

Tip tap
L’unico suono udibile in quella stanza: i miei piedi in movimento.
Plic plac
Le minuscole goccioline di sangue che colano giù, macchiando quel meraviglioso e letale
pavimento di spilli.
Ma non me ne curo. Perchè c’è Lei.
La mia Compagna.
Io e lei ci assomigliamo molto.
Indosso un vestito svolazzante bianco, con una leggerissima sfumatura azzurrina verso il
fondo.
Lei con un completo cremisi, che vira dal cremisi al nero; una maschera le copre la metà
superiore del volto.
Siamo gli opposti, eppure così simili.
In quella cullante danza lenta la guardo, e mi perdo tra gli abissi dei suoi neri occhi.
Era tutto magnifico.
Danzavamo come due lente, volteggianti foglie d’autunno che cadono dal loro ramo.
Mentre lei ballava, mi accarezzava, mi sosteneva, mi reggeva con una velocità disarmante.
Ma, ahimè, non tutto dura per sempre.
Infatti, ad un certo punto il suo dolce sorriso si increspò in un ghigno beffardo.
Ed io, in un attimo, mi sono ritrovata a ballare ad un ritmo sfrenato, quasi insostenibile.
Salti, capriole, volteggi…
tutto in una quantità di tempo da far paura.
Ma non potevo mollare. Non dovevo mollare.
Poiché sapevo il prezzo che avrei dovuto pagare.
Corrono celeri i nostri piedi, i miei goffi al confronto dei passi perfetti di Lei.
I miei buchini sulla pianta si stanno lentamente allargando, bagnando con il loro sangue
quella sala sontuosa dal pavimento di spilli.
Io iniziavo a scivolare, graffiando il vestito, i miei polpacci, le mie esili braccia.
il dolore stava iniziando a diventare insostenibile: ormai erano più le volte che cadevo che le
volte in cui eseguivo un passo.
L’unica cosa che mi impediva di fermarmi era la Sua presa salda, troppo salda.
A un certo punto la vorticosa e sfibrante musica si fermò.
Caddi subito , in ginocchio, ansante sul pavimento.
Gli spilli avevano martoriato i miei poveri piedi.
Il corpo era pieno di graffi, il vestito pieno di tagli.
Ero il relitto di me stessa.
Ma lei, con quella sua suadente bellezza, tese una mano verso il mio volto, come se mi
volesse carezzare.
Alzai il collo per venirle incontro.
Invece afferrò il mio mento e, con una stretta incredibilmente forte, vi affondò le sue unghie.
Con un sorrisetto sadico scrutò con evidente disgusto la mia espressione di dolore, il mio
volto sudato, il trucco rovinato, gli squarci del vestito, i solchi nei piedi, i graffi, i lividi che mi
aveva causato, come se fossi la sua rozza scultura.
Mi mollò rozzamente il mento e alzò lo sguardo al cielo.
E iniziò a ridere.
Ridere di me.
“Che stupida che sei!” sospirò dopo che la sghignazzata l’aveva condotta alle lacrime.
La voce era stranamente familiare.
“E sai qual è la cosa più divertente?!”Si tolse la maschera
La guardai con orrore. Quella era la mia faccia, con i miei lineamenti.
“È che sono una parte di te!”
La mia faccia tramutò da orrore a disgusto.
Volevo vomitare, scappare, urlare che non era vero, tutto pur di cambiare quella orribile
verità.
Lei era nientemeno che il mio Riflesso, la mia Pazzia.
Warr;or