Quella me

Per molto tempo ho cercato di occupare poco spazio.

Sedermi composta, farmi piccola piccola in modo che nessuno potesse accorgersi della mia esistenza.

Piccola fisicamente, aggraziata, come mio padre ripeteva in continuazione, così da poter piacere ai ragazzi, piccola emotivamente, una semplice personalità a cui era dato solo impegnarsi a scuola, lavorare, sposarsi, avere figli e dedicarsi a far seguire anche a loro l’unico schema che ti permette di esistere come essere socialmente accettato.

Non mi sono mai chiesta davvero se volessi essere accettata.

Accettare, qualcosa che fai quando vedi un brutto insetto in camera: “Ok, prendo atto e chiudo questa porta a vita”. Dai ammettiamolo non vengono in mente esempi carini quando si pensa ad accettare qualcosa… Se non riguardanti il 18 all’esame ripetuto una ventina di volte.

Dicevo, non me lo sono mai chiesta, finché non ho incontrato lei.

Uno di quegli incontri totalmente a caso, a cui arrivi in ritardo, non nel tuo momento migliore, dopo un’ora di lezione passata a domandarsi cos’avrei mangiato quella sera e a riflettere sull’apparentemente buffa struttura anatomica dei pelati.

Ma già poco dopo, lentamente, capii che potevo davvero prendere spazio, potevo davvero occupare il posto che volevo.

Pur avendo fatto il primo dei ventimila passi, andavo controcorrente e la cosa più buffa era che c’era qualcuno tenermi la mano.

Qualcuno che tutt’ora non si rende conto di avermi sottratto all’arrugginito sistema sociale che sibilandomi al collo, mi intimava di seguire le orme davanti a me, trattenendomi con mille mani, tante quante le menti che agivano sulla me tredicenne.

Perciò, ricordatevi di non seguire le orme e soprattutto ricordatevi di tenere la mano alle persone come quella me.

Anonimo