Centonove

Documento 31_2

Disegno di Matilde Bonaldo IAL

 

Sono 109 le donne uccise dal primo gennaio a oggi in Italia. Una media di un femminicidio ogni 72 ore, ogni tre giorni, due volte alla settimana; la maggior parte di loro sono state assassinate dal proprio partner o da colui che non lo era più ma non lo accettava. Il resto da parenti, conoscenti, sconosciuti. Il 5% delle donne ha subito uno stupro nella propria vita e quasi la totalità è stata protagonista di almeno una molestia. Sono dei dati sconcertanti, nonché la prova del nostro fallimento come umani e come società.

Li sentiamo al telegiornale, li leggiamo negli articoli sui quotidiani o sul web, ci appaiono nelle home dei social; li vediamo, ma raramente ce ne interessiamo sul serio. I giorni precedenti a questa orribile ricorrenza del 25 novembre, la Giornata Internazionale Per L’Eliminazione Della Violenza Contro Le Donne, notiamo un susseguirsi di notizie, statistiche, spot e uno strano improvviso interesse dell’opinione pubblica sull’argomento; il resto dell’anno è una notizia come un’altra accompagnata dalla solita frase “numeri in aumento”, ma oltre a quello non c’è molto. Non si parla mai di prevenzione, non si parla di deresponsabilizzazione, non si parla delle cause, non si parla degli effetti psicologici e men che meno si parla di tutte le altre forme di violenza contro le donne.

Non ce ne rendiamo conto ma tutto questo è un tabù. Se lo si affronta in un contesto scolastico, si finisce per parlare delle solite cose senza una vera informazione aggiornata, utile ed efficace: si dice che la violenza è sbagliata, non si deve uccidere, si deve denunciare subito, ma poi è finita lì. Se se ne si parla in famiglia, la maggior parte delle volte si ricade nel vecchio detto “le donne non si toccano neanche con un fiore” e il discorso si chiude. Se se ne si parla sui social, ci si ritrova davanti un muro fatto di “Basta con questi discorsi, hanno stufato. La violenza contro le donne è poca, perché di quella contro gli uomini non si parla? Ormai si sa che basta fare una denuncia e il problema si risolve”.

È davvero così facile denunciare? Prendi il telefono, chiami i carabinieri, spieghi la tua situazione e lasci che la giustizia, o anzi, l’umanità, faccia il suo corso, oppure ti rechi in un centro antiviolenza e ti fai aiutare. Semplice, no? Sì, nelle fiabe. Prima di riuscire a denunciare, la vittima deve fare da sola un percorso psicologico per capire che sta subendo una violenza, per realizzare che non è pazza, per comprendere che non ha colpe, per racimolare tutta la sua forza mentale e fisica e uscire dalla sua stessa casa con la consapevolezza di tornare come una donna diversa, per condividere il suo dolore con degli sconosciuti che dovrebbero essere lì per aiutarla. In un Paese civile, quest’ultimo punto, l’aiuto, verrebbe preso seriamente, ma l’Italia non è un paese di cui andare fieri, perché sottovalutiamo, minimizziamo, diciamo di parlarne con il partner, di avere delle prove perché la sola testimonianza non è sufficiente (e a volte nemmeno i segni sulla pelle, le contusioni, le fratture e le cicatrici bastano), di tornare se ricapita un’altra volta, di provare la terapia di coppia, di sopportare. Non ci prendiamo le nostre responsabilità. Parlo di “noi” come società, perché se 109 donne sono state uccise la colpa è di tutti coloro che possono fare qualcosa ma non fanno in realtà nulla.

La nostra società riconosce che c’è un problema e che bisogna fare qualcosa subito, ma quando davvero si arriva a parlarne sembra tutto molto lontano, inutile e senza importanza e le statistiche lo dimostrano: un italiano su quattro crede che l’atteggiamento e l’abbigliamento di una donna influiscano sulle sue probabilità di essere violentata, tre persone su dieci credono che uno schiaffo alla partner per gelosia o altre motivazioni futili non sia violenza, un italiano su tre crede che forzare la compagna ad avere un rapporto sessuale senza che lei ne abbia voglia non sia una violenza sessuale. C’è davvero bisogno di spiegare perché abbiamo fallito?

Ci rattristiamo, ci indigniamo, vogliamo condannare gli assassini, ma non pensiamo mai a come sia possibile che così tante persone siano tranquillamente riuscite a far sparire più di un centinaio di vite.

Crediamo davvero che quattro uomini su delle poltrone in televisione siano una voce autorevole sul tema della violenza contro le donne? O che Alfonso Signorini in un programma spazzatura abbia abbastanza voce in capitolo per parlare di aborto con una disarmante superficialità? O che la scuola faccia abbastanza? O che se ne parli troppo? O che sia facile vivere in una società del genere, dove se ho i capelli rossi sono brava a offrire prestazioni sessuali, se mi vesto attillata sono una prostituta, dove se mi gridano “bella gnocca” mentre cammino devo sentirmi lusingata, dove uno schiaffo non è nulla e chi mi dovrebbe proteggere sottovaluta le mie denunce, dove la mia stessa nonna, cresciuta in un ambiente ancora più radicalmente patriarcale, non indossa i pantaloni perché sono da uomo e da “donna di strada”, dove Rete 4 manda in onda uno spot in cui Michelle Hunziker dice che se nascondiamo il fatto che subiamo violenze per paura diventiamo complici del nostro carnefice?

Tutto questo è solo la punta di un enorme iceberg: la pressione psicologica, i ricatti, le violenze subdole che rappresentano un problema enorme di cui pochi si preoccupano e che viene ignorato da molti.

La violenza contro le donne può essere psicologica, fisica, economica, sessuale. Può essere definita stalking, catcalling, discriminazione o disparità di genere. Può essere troppe cose.

Le denunce ai centri antiviolenza non sono mai state così tante e questa è una sconfitta. Qualcuno direbbe che è un bene, che finalmente le donne hanno la forza e il coraggio di denunciare. Ma tutto ciò non è altro che una schifosa disfatta. Finché ci sarà anche solo una denuncia sarà vergognoso e non potremo definirci come una civiltà avanzata e basata sull’uguaglianza. Le scuole dovrebbero fare informazione, dovrebbero spronarci a conoscere la nostra società, dovrebbero formarci come persone e non solo su questo argomento, ma su tanti temi che vengono completamente ignorati e su cui dobbiamo crearci una cultura da soli. Si dovrebbe riformare la giustizia e creare leggi efficienti e messe davvero in atto. Si dovrebbero sensibilizzare correttamente le persone: meno programmi che parlano delle stesse cose negli stessi giorni e più varietà di informazioni corrette, ospiti competenti e temi contemporanei utili.

Rendiamoci conto di quello che ci accade intorno, informiamoci, comprendiamo.

Una delle più recenti ferite che ci dimostra per l’ennesima volta che bisogna cambiare riguarda il 21 novembre, quando la ministra per le Pari Opportunità, Elena Bonetti, ha discusso la mozione contro la violenza sulle donne davanti a 8 deputati su 630 che avrebbero potuto essere lì.

Cos’altro serve per dire che c’è un enorme problema sociale?

La Giornata Internazionale Per L’Eliminazione Della Violenza Contro Le Donne è un reminder annuale delle nostre responsabilità, ma sta a noi scegliere se iniziare a cambiare le cose e smontare questa società patriarcale per formarne una paritaria o se ignorare tutto questo e continuare a fare la faccia triste quando parlano di nuovi femminicidi per dimenticarcene un minuto dopo.

Basterebbe solo un briciolo di umanità.

 

Virginia Marchetto IVAC