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Seduta in mezzo ad alberi
nessuno attorno a me
il nulla incombe.
I pensieri mi tormentano
le lacrime scendono
il cuore sembra scoppiare
e intorno a me,
il nulla.
Conforto Sophia 5AA

Lite, dalla mia coscienza

Leggo le nostre parole,

come le lessi ieri l’altro

bramose di farsi la guerra,

e non per caso sospiro;

questa nostra frustrazione 

ci ha equamente obbligati 

a fare delle nostre paure il motivo

 per cui ora rimane solo un torbido silenzio,

che parla, che urla e lentamente consuma

il filo che lega

la mia anima con la tua,

il tuo corpo con il mio;

A una a una sullo schermo

le lettere si fanno portavoce

della mia fame di farti soffrire,

per farmi soffrire;

e mentre il tuo discorso tagliente

mi sfiora la pelle,

dissimulo gli sbagli e le agonie

che si celano dietro il mio orgoglio;

Lascio che l’irrazionale

si prenda gioco del mio buonsenso

e muti nella estenuante consapevolezza

che non trova più né pace né redenzione,

solo rimorso per un errore che

si ripete, mi lacera e svanisce poi

nelle mie frivole scuse,

e tutto torna apparentemente come prima.

-anonimo

Un vuoto invadente

Sono qui.

Sono di nuovo qui.

Come posso uscirne?

Perché non riesco a scappare?

Mi ritrovo bloccata,

il tempo scorre,

non mi muovo,

sono ferma.

Rimango paralizzata in questo limbo,

in questa sensazione di vuoto,

all’interno.

Mi ricorda l’infinito,

si espande lentamente in se stesso,

più grande,

più cupo.

La mia testa,

solitamente piena di dubbi,

di domande,

si libera, per fare spazio a questo rumore assordante,

che entra in me senza farsi notare,

facendosi trovare pronto.

Pronto a prendere tutto lo spazio che può occupare,

tutto il silenzio che si può percepire.

Perché?

Perché mi sta abbandonando?

Forse non sono abbastanza?

Mi sono impegnata.

L’ho amato.

L’ho amato come non mai.

L’ho amato da morire.

L’ho amato da impazzire.

L’ho amato talmente tanto, da vivere per lui.

Non è bastato?

Perché non è bastato?

Ho bisogno di lui.

Ho bisogno del suo profumo sulla mia pelle.

Ho bisogno del calore delle sue mani sul mio corpo,

che mi stringono,

che mi accarezzano,

che mi sfiorano,

con una delicatezza inimmaginabile,

come se fossi la cosa più fragile in questo mondo.

Ho bisogno delle sue labbra che mi cercano.

Ho bisogno del suo corpo sul mio.

Ho bisogno della mia testa sul suo petto,

per ricordarmi che il suo cuore batte,

che esiste davvero.

Ho bisogno di trovarlo quando mi sveglio di notte,

quando ho la convinzione che sia al mio fianco,

quando sposto il braccio per avvicinarlo a me,

quando apro gli occhi per vedere il suo viso.

Esiste solo il vuoto.

Mi ritrovo sola.

Lacrime bianche scorrono sul mio viso,

portando la speranza via con loro.

Sento il mio naso colare,

è sangue.

Perché esce sangue?

No, non può uscire!

Mi sento stanca.

Ho bisogno che rimanga,

tanto quanto ho bisogno del sangue che esce da me,

che forse,

non è solo quello sul mio viso.

Forse è meglio così,

perché devo continuare a vivere,

se lo facevo per lui?

Mi aveva dato il permesso per andarmene,

volevo farlo,

ma la voglia di passare la mia vita al suo fianco era di più.

Il bisogno

era di più.

E ora?

Perché sono ancora qui?

Perché non riesco a scappare?

blu, 12

Fastidio

Le lacrime scendono lentamente dalle mie guance.
Perché devo piangere per lei? Mi sta facendo male e basta.

Come siamo arrivate a questo punto? È caduto tutto dal nulla.
Quella frase è stata detta dall’unica persona da cui non me lo sarei aspettato:
“Mi dai fastidio”, continua a girarmi in testa.
Sono io il problema. Sono io che sbaglio. Io, che do tutta me stessa per mantenere ogni
amicizia, ma fallisco miseramente.
È perché non so comunicare? Non lo so, non ho risposte. Non mi vengono fornite le
risposte alle mie mille domande.
E lo so che leggerà queste parole che sto scrivendo, tutt’ora, in lacrime.
Tu mi odi… fidati, mi odio anche io!
Se solo potessi comunicare le mie emozioni, potrei dirlo a qualcuno. Ma io sarò
sempre dannata da questa ‘maledizione’
Sono sola. Non ci sei più con me.
Mi hai sostituito. Quindi è giunto il momento delle mie ultime parole.
Addio.
-anonimo

Tra il sogno e il reale

Molte volte mi affaccio al balcone di camera mia e contemplo il paesaggio che si dipinge dei colori del
tramonto, con il sole intrappolato dagli alberi del piccolo bosco adiacente alla mia casa. È da quando sono piccola che quasi tutte le sere, verso quel momento, nel silenzio intorno a me e mi godo quei pochi
minuti osservando la tela che il cielo dipinge, tutte le volte con sfumature e dettagli diversi.

Sempre, in quell’istante in cui stacco la spina da ogni mio pensiero, mi ritrovo di nuovo ad essere una bambina, meravigliata dalla bellezza di quel capolavoro nell’immenso soffitto celeste e a volte penso: “Perché non posso sentirmi sempre così?”. La risposta verrebbe spontanea: “Perché sei cresciuta”. Ma io a quel quesito che mi pongo rispondo semplicemente: “Puoi sempre sentirti così, basta che tu lo voglia”.

Cresciuta o meno, quello che io voglio essere è semplicemente essere felice, e per esserlo devo ricordarmi di chi ero prima di crescere, prima di infangarmi dentro regole e restrizioni che la società mi impone.
Ricordo di quando ero bambina, di quanto più ero felice e di quanto, ora, non lo sono più. Onestamente,
con gli anni ho imparato che far vedere le proprie emozioni davanti alle persone ti crea una cicatrice visibile agli occhi di tutti, che simboleggia ciò che sei.

Così, per non aver nessun segno nella mia pelle, mi sono costruita una personalità del tutto generale, semplice e falsa. Tutto ciò che è la vera me non lo conosce davvero nessuno, ed essendo sincero con te stesso, forse anche te, mio caro lettore, sei un po’ come me.

A mio parere questo non significa di certo che sono una persona falsa, anzi, è l’istinto che mi porta ad agire così, è la paura che mi rinchiude in una cella in cui ogni giorno ho a disposizione solo poche emozioni da poter esprimere, e spesso sono sempre le stesse: falsa gioia, falsa felicità e falsa spensieratezza.
Forse, sembrerà difficile affrontare tutto questo se letto da un bambino, ma molti adolescenti di
oggi sono chiusi in questa gabbia, alcuni cercano in tutti i modi di raggiungere la chiave per liberarsi,
altri se ne stanno fermi, aspettando che la cella si apra autonomamente nel momento in cui si è da soli, per poi rinchiudersi di nuovo quando si avvicina qualcuno.
Una domanda che adesso, in questo momento della mia vita, mi sta facendo morire dentro è: “Come va?”.
La sento di continuo: ”Ciao, come stai?”, “Ciao, come va?”, “Ciao, tutto bene?”. E la risposta rimane sempre
e solo quella “Tutto bene, dai”. Ormai nel mio vocabolario queste tre parole sono quelle più usate, ma in
tutta sincerità, non ho nemmeno voglia di dire che sto male.

Non cerco il compatimento di nessuno: non lo voglio, e non voglio vedere negli occhi del mio interlocutore la compassione per la mia risposta, quindi mi limito a rispondere il falso, per non essere assillata da domande o guardata con pietà.
Ricordo di quando ero bambina, di quanto amavo me stessa e di quanto, ora, mi odio. Nell’età infantile
nessuno si interessava della forma che aveva il mio corpo, se avevo un po’ di pancetta in più o se ero più paffutella di tutti gli altri miei amici: ero comunque spensierata e felice, ma realmente. Mi ricordo
esattamente quando ho cominciato a notare delle diversità su di me rispetto agli altri.

Ero all’inizio della prima media e scrutando le ragazze di terza, mi ritrovai a odiare il riflesso della mia persona davanti lo specchio. Ero piccolina, ma non cambiò il fatto che io da quel giorno non ho mai smesso di odiami, e il mio aspetto fisico è diventata un’ossessione, fino a raggiungere anche disturbi alimentari.
Qualche giorno fa ho fatto un sogno ad occhi aperti. Incontravo me stessa da bambina. I capelli ricciolini e biondi che cadevano dolcemente nelle spalle, gli occhi azzurro mare, grandi e brillanti, il sorriso imperfetto con ancora i denti da latte e il vestitino lungo con i fiori rosa disegnati su uno sfondo bianco, proprio quello che mi piaceva tanto.

La piccola me mi venne incontro e mi abbracciò.

Mi ritrovai a piangere e a chiederle scusa per tutto quello che le avevo fatto, intanto stringevo al mio petto una fotografia di me da bambina in braccio a mia sorella.
Subito dopo essermi ripresa da quel momento, ho pensato che forse la strada più facile sarebbe stata se
l’avventuroso Peter Pan fosse venuto a farmi visita quando ancora ero felice veramente, e portandomi via
da tutto quanto, mi avesse condotto verso l’isola che non c’è, per rimanerci per sempre, senza la
paura di dover crescere; ma ho deciso di promettere a quella piccolina, di ritornare a farle visita più spesso, in un corpo diverso, ma con la sua stessa, vera, personalità.


Elisa Veronese, 3BL

La forza di sentirsi liberi

La libertà è come:
la campanella dell’ultima ora,
la risata dopo un pianto,
i sospiri di sollievo,
il suono del mare,
il profumo d’estate.
Ci si sente liberi quando si lotta per conquistare
quella che noi chiamiamo libertà.
La libertà umana è il volo di una farfalla
sopra un infinito campo di fiori.
L’indipendenza e la forza di un uomo sono la propria libertà
e la gabbia che la intrappola è la paura,
l’unica chiave per non farla imprigionare è il coraggio.
Posso scegliere di essere o di pensare,
di muovermi senza catene,
senza ostacoli la mia mente galoppa…
Respiro a pieni polmoni
assaporando ogni attimo della mia esistenza
fluttuo come una bandiera trasportata dal vento
in ogni luogo, in ogni dove.

-anonimo

Il cavaliere della foresta oscura

C’era una volta un giovane cavaliere. Era forte e coraggioso, uno dei più dotati del villaggio.

Il piccolo paese era affiancato da una fitta e oscura foresta in cui nessun uomo o donna che sia ha il coraggio di addentrarsi.

Negli ultimi tempi però molti altri impavidi cavalieri e giovani dame erano scomparsi, ma prima di essere persi di vista erano stati avvistati nei pressi della selva oscura.

Il capo del villaggio, spaventato e preoccupato dalle improvvise sparizioni, aveva deciso di mandare alcuni dei suoi uomini migliori a controllare, ma nessuno di loro vi aveva fatto ritorno.

Al giovane cavaliere era stato ordinato di addentrarsi nella foresta insieme ad alcuni suoi compagni a cui era stato ordinato lo stesso. Il gruppo era formato da cinque ragazzi: George, il capogruppo, Michel, Luke, Steve e Harry, il giovane cavaliere.

Si erano da poco addentrati nell’oscurità della foresta quando George iniziò a parlare:” La foresta è troppo grande, e noi siamo solo in cinque, sarà meglio dividerci e setacciare per bene la zona. Prima troviamo qualunque cosa sia la causa delle scomparse e prima ce ne andremo da qui”.” Se ci dividiamo diventiamo più vulnerabili e visto che non sappiamo cosa aspettarci è meglio rimanere uniti così da poterci aiutare a vicenda. Inoltre George sono scomparse molte persone dopo essersi addentrate in questo posto, cosa ti fa pensare che a noi non spetti lo stesso destino se ci dividiamo?”. George iniziò ad avvicinarsi lentamente a Harry con fare intimidatorio al galoppo del suo cavallo, ma Harry non mostrò alcun segno di timore. “Lo penso perché gli altri poveri cavalieri non avevano me al loro comando.” “Oh caro Harry, dovresti essere grato di poter essere nella mia squadra invece che contestare ogni singola parola che dico. E ora inizia a dirigerti verso nord, non vorrai per caso essere ancora all’interno di questo ammasso di alberi quando il sole sarà calato?”.

Harry, consapevole del fatto di non poter fare nulla se non ubbidire, iniziò a galoppare verso nord, per dirigersi proprio nel bel mezzo della foresta

Erano ormai passate un paio d’ore da quando la sua perlustrazione era cominciata, ma non aveva visto o sentito nulla di strano. A un certo punto però udì un fruscio, come se qualcuno avesse urtato uno dei tanti cespugli, e subito dopo vide con la coda dell’occhio un’ombra che si dirigeva a tutta velocità nella direzione opposta a Harry. Gli ci volle qualche secondo prima di realizzare cosa effettivamente fosse quell’ombra fugace: una giovane dama.

Subito Harry iniziò a inseguirla e a pregarla di fermarsi, ma la ragazza non sentiva ragioni. Arrivarono in un punto in cui il sentiero della foresta era bloccato a causa del tronco di un albero che era caduto. ”Vi prego fermatevi! Voglio solo parlare con voi, non voglio farvi del male signorina!”. La ragazza invece di fermarsi iniziò ad accelerare e a prepararsi al salto che riuscì a eseguire con incredibile disinvoltura. La stessa cosa non si può dire per il povero Harry, il quale cavallo, spaventato dal salto, lo fece cadere all’indietro facendogli sbattere la testa.

Quando si risvegliò non si trovava più nella foresta, bensì in una stanza calda e accogliente, che era inondata da un intenso profumo di erbe. Di fianco al letto su cui era disteso si trovava la misteriosa ragazza, il cui splendido volto non era più un mistero.

“Ecco bevete questa miscela, vi allevierà il dolore alla testa.” Harry accettò la tazza e dopo il primo sorso iniziò a parlare: ”Cosa ci faceva una signorina come voi nel bel mezzo di una foresta?”

”Potrei farvi la stessa domanda mio signore.” Disse con un pizzico di fastidio nella voce.” Non credo sia il momento di scherzare signorina, una foresta non è un luogo adatto a una giovane dama, specialmente dopo tutte quelle sparizioni.” 

“Sparizioni? Non capisco proprio a cosa vi stiate riferendo, siete sicuro che non sia colpa della caduta?” 

”Mi state  dicendo che non sapevate nulla?”

”Permettetemi di chiamare un medico” sono sicura che lui potrà aiutarvi.” 

”No, fermatevi un secondo!” Harry bloccò il polso della ragazza e la guardò negli occhi.

Lei ricambiò lo sguardo e allentò la presa della mano di lui sul suo polso. “Non mi avete nemmeno detto come vi chiamate.” La damigella si avvicinò lentamente ad Harry e allungò una mano verso di lui. Schiuse la bocca e proprio quando stava per parlare…”Mio signore.” Harry si svegliò di soprassalto nella sua camera in cui era presente solo un servitore. Nessuna ragazza.

Harry non sapeva se essere sollevato o no del fatto che fosse stato tutto un sogno.

“Mio signore, il capo villaggio vorrebbe incontrarvi, dice di dovervi parlare di alcune sparizioni.”

Ansia

Difficile respirare quando una stretta alla gola e un peso che ti si schiaccia il petto ti impediscono
di farlo. Difficile concentrarsi quando uno stormo di pensieri negativi ti invade la testa.
Impossibile scacciare l’ansia che ti dilania improvvisamente. Cerchi di fare quello che ogni volta,
seppur lentamente, funziona. Smetti di fare qualsiasi cosa tu stia facendo, metti via libri,
quaderni, appunti che stavi scrivendo, con un gesto del braccio li sposti tutti da un lato. Ti alzi e
fai i pochi passi che ti separano dal tuo letto. Il tuo dolce caro letto che ha un duplice ruolo nella
tua vita: da una parte rifugio soffice e accogliente che ti culla nei momenti di dormiveglia e ti
accompagna nel mondo dei sogni ogni sera, dall’altra superficie infernale che assiste ai tuoi
momenti peggiori e si inzuppa in alcuni punti a causa della tua cascata di lacrime. Sali sul letto, ti
stendi, cerchi di far svanire tutti questi metaforici pugnali che ti trapassano il cranio. Ma non ci
riesci e ti si inumidiscono gli occhi.
Segue una lunga serie di domande che ti rivolgi sempre quando raggiungi questo punto: perché
devi sempre reagire così, quando smetterai di essere così debole, sarai sempre l’unica persona che
conosci a essere così strana, come farai ad affrontare situazioni peggiori, perché non riesci a darti
una calmata.

Quesiti senza risposta, naturalmente, e allora passi alle offese: sei proprio senza speranza, anche
tu non ti sopporti più, che pesante, che imbecille, che disastro, che noia. E vai avanti a lungo fino
a quando non ti accorgi che stai ormai piangendo, che stai ormai tremando e singhiozzando, che
stai ormai lasciando il controllo a questa parte di te. Tutta la settimana l’hai repressa, hai provato
a tenerle testa, occupando la tua mente in varie attività, hai cercato di parlare coi tuoi amici
costantemente, di ascoltare solo quel genere di musica che, invece di farti affrontare la realtà del
tuo stato, ti fa ballare per la camera, hai impegnato tutte le tue energie ad evitare di rimanere in
solitudine coi tuoi pensieri. E a poco è servito, perché il secondo lato di te prende il sopravvento
quando e dove vuole. Non si cura di quanto hai da fare, di che ore sono, di che stato d’animo
avevi il momento prima. Abbassi per un attimo la guardia: una canzone triste, un pensiero di
troppo a qualcosa che ti porta a ricordarti di ciò che non vorresti mai farti tornare in mente.
E click, scatta quel qualcosa nella tua testa. Te ne accorgi subito e ti maledici immediatamente
per averlo fatto di nuovo. Sai già dove di porterà tutto ciò, ma ti illudi che questa volta sarà
diverso. Non è mai diverso, però, finisce sempre allo stesso modo e lo sai. Con te in preda
all’ansia, alla paura, all’odio per la tua stessa persona, alla disperazione, ai rimpianti, alla sfiducia
nel futuro, ai dubbi sul presente.

E tutto ciò capita se decidi di arrenderti, se cedi a questa forza maggiore, consapevole
dell’inutilità del cercare di continuare con quello che aveva la tua attenzione fino all’attimo
precedente. È solo così che ci metti meno a riprenderti e dopo un po’ arrivi anche a dimenticare
l’intensità di quello che avevi provato.

Ma se, invece, in un momento di ingenuità, credi che riuscirai ad andare avanti lo stesso, a
studiare quelle poche pagine che ti mancano o a sistemare gli ultimi vestiti del tuo armadio,
perché pensi che riuscirai ad avere il controllo, che non crollerai come l’ultima volta che hai
provato a resistergli, ti sbagli di grosso.

Perché fermarti subito ti evita di peggiorare la situazione, di avere un mental breakdown di quelli
spaventosi, di quelli che non vuoi mai provare, di quelli da cui è molto più difficile riprendersi,
di quelli che ti rovinano l’intera giornata. Se ti fermi e lasci che tutto ciò si impossessi di te, fai
meglio.

Anzi, sarebbe meglio non provare nulla del genere, sarebbe meglio non perdere tutto questo
tempo solo per non essere più sofferente, sarebbe meglio non dover attraversare tutto ciò nella
solitudine della tua stanza.

Non sai nemmeno come definire questo stato, questa condizione, questi momenti. Ci hai provato
qualche volta a parlarne a qualcuno, consapevole che nessun individuo che non lo abbia provato
potrebbe capirlo. Ti chiedi anche se ci sia effettivamente qualcun altro, oltre a te, ad averlo
provato. Forse potresti spiegarlo se sapessi di cosa si tratta. È facile che risulti una forma di
pigrizia, di incapacità di organizzarsi: una persona che, proprio quando ha raggiunto il picco di
impegni, proprio quando ha la scrivania colma di libri, pronta a finalmente dedicarvisi, dopo aver
a lungo posticipato questo momento per paura di andare incontro all’ennesimo crollo, deve
fermarsi. Non vorrebbe farlo, non è pigra, né irresponsabile. Semplicemente è incapace di andare
avanti, non riesce. Deve smettere, almeno per un po’.

Probabilmente è un effetto collaterale dell’ansia, ma non dell’ansia di cui si parla comunemente,
della lieve agitazione che si prova prima di un compito. Ma l’ansia con l’iniziale maiuscola,
l’ansia che ti impedisce di fare ciò che vorresti fare, di pronunciare le parole che vorresti dire, di
alzarti dal letto quando sai che sarà una giornata particolarmente stressante.

L’ansia che porta conseguenze sul tuo fisico, l’ansia che ti fa perdere peso, l’ansia che ti dà mal di
testa, mal di pancia, male al petto, l’ansia che fa sudare le tue mani, l’ansia che porta rossore sul
tuo petto e sul tuo collo, l’ansia che fa tremare la tua voce, l’ansia che ti fa pensare che da un
momento all’altro il tuo cuore evaderà dalla cassa toracica.
Strano, però, come un fenomeno del genere sia così sottovalutato.
Il fatto è che non è facile immaginare il mondo che c’è dietro una persona, tutto ciò che avviene
al suo interno oppure nella sua abitazione. Siamo spesso portati ad avere una certa idea delle
persone che ci circondano e, effettivamente, di ogni singolo individuo al mondo esistono mille
diverse versioni nella testa di chiunque lo abbia incontrato oppure ne abbia anche solo sentito
parlare. In “Uno, nessuno e centomila”, libro che mi ha aperto gli occhi, Pirandello si sofferma in
una maniera affascinante su questo aspetto. Non conosceremo mai completamente una persona,
perché siamo condizionati da un insieme di fattori nel pensare agli altri e a noi stessi.
Inevitabile, alla luce di ciò, sottolineare l’importanza della comunicazione. Dobbiamo aprirci di
più, esprimere le nostre insicurezze, i nostri dubbi, ciò che ci turba o ci rende felici. Questo è
l’unico modo che abbiamo per aiutare gli altri a comprenderci, l’unica arma per combattere la
distanza che c’è tra un individuo e l’altro, evitando di arrivare ad un punto di non ritorno, dove
pesanti silenzi fluttuano nell’aria tra noi e gli altri.

Parliamoci, guardiamoci, supportiamoci. Se non ci sentiamo a nostro agio con nessuno e
proviamo un turbine di emozioni, non teniamole per noi stessi. Rivolgiamoci agli specialisti che
sono in grado di aiutarci a conoscerci.

L’ansia stessa è un fenomeno che, quando arriva a creare determinate situazioni, dovrebbe essere
affrontata con l’aiuto di qualcuno che, grazie alla sua formazione, sa come guidarci. Perché
curare la salute mentale è importante tanto quanto mettersi una sciarpa al collo quando fa freddo,
solo che è meno spontaneo.

Spero, quindi, che chiunque si sia rivisto in queste righe, sia consapevole del fatto che non è solo
e che non deve affrontare tutto ciò senza alcun aiuto. Nel mio piccolo, vorrei aver acceso una
scintilla di speranza in coloro che temono di esprimersi su questi argomenti, perché,
ricordiamolo, non esiste il contrasto tra persone “sbagliate” e persone “normali”. Ci sono solo
persone, tutte importanti allo stesso modo e degne del medesimo aiuto.

Andra Bandrabulea 4AL

I DCA – alcune nostre esperienze

Oggi martedì 15 marzo è la giornata internazionale del fiocchetto lilla, ovvero della lotta contro i disturbi del comportamento alimentare. Questo è un argomento che mi sta molto a cuore e ho creduto necessario cercare di sensibilizzare, nel mio piccolo, più persone possibili.

In primo luogo, perché chi è esterno a situazioni del genere non è consapevole del fatto che questi disturbi non riguardino solo le persone in sottopeso e il fisico di qualcuno; sono delle vere e proprie malattie mentali con motivazioni enormi alle spalle, che sono spesso difficili da rintracciare. In secondo luogo perché le varie quarantene e l’isolamento sociale a causa del covid hanno provocato una crescita del numero di malati piuttosto preoccupante. Ho trovato alcuni dati su internet a questo proposito(www.agi.it): dall’inizio della pandemia la media dei casi è aumentata del 30% tra gli adolescenti e l’età media si è abbassata ai 12 anni.

Il cibo è benzina per il nostro corpo, ciò che ci serve per svolgere le nostre attività quotidiane: studiare, fare sport, andare a scuola, riordinare la stanza e persino guardare una serie tv. Ogni giorno, infatti, il nostro corpo brucia un certo numero di calorie che ci sono essenziali per sopravvivere. Ma comunque il cibo per la maggior parte delle persone non è solo questo, ma una vera e propria passione! Insomma, chi non ha almeno un amico intenditore e super goloso che ci guarda storto se aggiungiamo la panna nel piatto di carbonara? E ancora, il cibo è anche famiglia, amicizia, condivisione e compagnia. Pensiamo, ad esempio, alle milioni di volte in cui abbiamo invitato degli amici fuori a colazione o per un aperitivo; alle numerose feste di compleanno nella nostra pizzeria del cuore; ai pranzi di Natale con la nostra famiglia riunita, ma anche ai pranzi di lavoro e d’affari. Insomma, il cibo è fondamentale per la nostra salute fisica, ma anche per quella mentale, perché scommetto che non sareste contenti di mangiare insalata e mele ogni giorno, tutti i giorni!

Per alcune persone, però, non è così. Alcuni percepiscono il cibo come un nemico, questo provoca loro tanta ansia, tristezza e sensi di colpa. Molti pensano di non meritarsi il cibo, tendono a rifiutarlo e a privarsene e i motivi possono essere molteplici: hanno paura di ingrassare, vogliono dimagrire, sono troppo fissati con le calorie, l’allenamento e l’alimentazione corretta, vogliono avere il controllo su ogni cosa. Altri, invece, si sfogano con esso: hanno così tanta ansia, stress, tristezza e pesi addosso che, esasperati, mangiano. E così in un pomeriggio potrebbero finire un intero pacco di gocciole, o chissà quante confezioni di cracker e pastine per poi sentirsi un fallimento e un grandissimo sbaglio.

I tre dca più diffusi sono l’anoressia nervosa, la bulimia e il disturbo dell’alimentazione incontrollata (o binge eating). Io potrei descrivervi anche nei minimi particolari queste malattie, ma tralascerei sempre qualcosa: i disturbi, infatti, sono diversi per ogni persona che ne soffre. Quello che intendo dire è che, quando si parla di anoressia, non dovete pensare alla ragazza magrissima, molto pallida e che non si azzarda a mangiare più di un po’ di insalata a pranzo: l’anoressia non è questo. Un* ragazz* malat*, infatti, potrebbe anche venire al MC con te il sabato sera, essere normopeso e stare comunque tanto male: il vero problema si trova nella sua testa.

C’è come una specie di voce (il diavoletto sulla spalla tipico dei cartoni, no?) che ti obbliga a fare cose dannose e che ti riempie di sensi di colpa e di mille pensieri inutili. In quel momento, però, tutto sembra essere vero ed avere un senso e allora fai come ti dice.

Se volete sapere meglio quali sono i segnali e i comportamenti più comuni di una persona che soffre di dca, vi consiglio di cercare qualche buon articolo su internet. Questo perché magari potreste dare una mano ad una persona che ne soffre, ma che non ha il coraggio di esporsi. Capita spesso, infatti, che i/le ragazz* non si sentano abbastanza valid* e credano che il loro sia un problema leggero e passeggero. Non è mai solo questo purtroppo. Per guarire da un dca serve molto tempo e si deve sempre chiedere aiuto a degli specialisti.

Per rendere più concrete queste affermazioni e farvi rendere conto di quante persone non abbiano una relazione sana con il cibo, ho chiacchierato un po’ con qualche studente/essa (che io non conoscevo) proprio del nostro liceo. Vi riporto quelli che secondo me sono i pezzi più significativi delle “interviste” che ho fatto in questi giorni.

Com’è il tuo rapporto con il cibo?

“Diciamo che credo di avere una relazione abbastanza sana con il cibo, però spesso mi lascio prendere un po’ dalle abbuffate e mangio un po’ troppo, sentendomi poi un po’ in colpa, ma finora è stata una cosa che non ha fatto male alla mia salute.”

Ma ti capita di abbuffarti per sfogare ansia e stress?

“Mmm in certi casi sì, ma comunque mi piace mangiare: mi distrae e mi fa stare un po’ meglio.

Sei d’accordo sul fatto che la maggior parte della gente pensi che le uniche persone che soffrono di dca siano quelle in sottopeso?

“Sì ed è bruttissimo. Non c’entra l’essere sovrappeso o sottopeso, ma riguarda proprio il modo di approcciarsi al cibo ed è una questione psicologica. Secondo me bisognerebbe sensibilizzare di più su questo.”

Come consiglieresti di agire ad una persona che soffre di dca e vuole provare ad uscirne?

“La prima cosa da fare è dirlo a qualcuno; io le consiglierei di parlarne con i genitori che sono le nostre principali figure di riferimento (oppure anche con zii, nonni o cugini); chi non avesse un rapporto tanto confidenziale con la famiglia potrebbe parlarne ad un’amica o andare al punto d’ascolto. Successivamente credo sia importante iniziare un percorso di recupero con degli specialisti (psicologo, nutrizionista, medico) perché loro sanno come risolvere davvero il problema, le terapie “fai da te” non portano mai a buoni risultati e col tempo diventa più pericoloso. Però la persona in questione deve metterci anche tanta forza di volontà, perché se non è lei la prima a voler uscire da questo disturbo non ci riuscirà mai completamente. Io ad esempio dovrei ricominciare la dieta, ma ora non ne ho intenzione perché non me la sento psicologicamente, non ne ho voglia e so che se la iniziassi probabilmente finirei solo col mangiare di più. Se dico “devo mettermi in dieta” non riuscirò a portare a termine nulla, ma se è un bel periodo e mi dico “voglio farla per il mio bene” allora otterrò sicuramente qualche risultato.”

Credi di aver mai sofferto tu in prima persona di dca?

“Lo sport che ho praticato per tanti anni necessitava di fisico, linee e proporzioni determinate. Per questo e perché sono abituata a cercare sempre di migliorarmi mi capita spesso di non piacermi. Sono arrivata a cercare di provocarmi il vomito a causa dei sensi di colpa, ma per fortuna è stato solo un tentativo, non ci sono riuscita e la cosa si è chiusa lì. Poi il brutto periodo è passato e attualmente posso dire che, pur nella consapevolezza dei difetti e dei 5/6 kg in più, mi piaccio.”

Mi dispiace molto che tu ti sentissi così, il tuo allenatore o altre persone intorno a te ti facevano pesare tanto la questione del peso?

“Non era tanto l’allenatrice, ma più una mia consapevolezza e una mia concezione a livello estetico.”

E quindi come hai fatto a cambiare idea? Ti ha aiutato qualcuno/qualcosa?

“La cosa si è sistemata un po’ da sola. Da un anno e mezzo sono fidanzata e lui mi fa sentire bella. In più, a causa della scuola e di un infortunio, ho lasciato il mio sport e ho cominciato palestra. Adesso ci vado da quasi un anno e ho soddisfazione perché vedo dei risultati e quindi vivo meglio il rapporto con il mio corpo e mi piaccio di più.”

Il tuo rapporto con il cibo è sempre stato sano?

“In realtà no, c’è stato un periodo buio durante il quale ogni mia decisione era determinata da un contatore di calorie su un’app del telefono; avevo paura di mangiare, se facevo merenda con qualcosa in più credevo sarebbe caduto il mondo. Spesso arrivavo ad avere crisi nervose se qualcuno scombinava il mio piano di allenamento e workout o se non mi allenavo per un giorno. In realtà il mio fisico stava solo cedendo perché ero in uno stato di stress continuo, nella mia testa c’era un perenne calcolo di calorie e pensieri come ‘se mangio questo e dopo faccio 40 minuti di cardio…” Tutto questo era peggiorato da alcune persone che, se ad esempio un mio amico diceva tipo: <> , rispondevano con <>. Per fortuna ora è passato, anche se vedo ancora le cicatrici di questo periodo.

Cosa credi avesse scatenato questa tua ossessione verso l’allenamento e le calorie?

“I commenti delle persone. Le stesse persone che prima prendevano in giro una mia amica perché la definivano ‘grassa’ e poi, quando lei era dimagrita per colpa loro, la chiamavano ‘anoressica’ e la insultavano ancora.

Capisco, le persone avranno sempre da ridire, sarai sempre ‘troppo qualcosa’ per loro. Ti sei allontanata poi da questi individui?

“Certo, per fortuna! Ho finalmente abbandonato le compagnie che mi facevano stare male e ora frequentando gente sana sto meglio.”

Ma oltre a cancellare le persone tossiche dalla tua vita, come hai fatto a riavere un rapporto migliore con il cibo poi?

“Onestamente da sola un giorno mi sono detta ‘cavolo, questa è la mia unica vita e questa è la mia unica adolescenza, non posso sprecarla ad essere ogni giorno triste sperando di poter diventare un’altra persona. Sono quella che sono e l’unica cosa che posso fare è imparare ad apprezzare il mio corpo per quello che è, essere ogni giorno felice per una piccola cosa e fare piano piano passi verso la persona che voglio diventare senza stare male o ferirmi perché non sono abbastanza per degli stupidi ******* di m****!”

Cosa ti ha fatto capire che stavi soffrendo di un disturbo e che dovevi parlarne con qualcuno?

“Sono stati soprattutto i segnali fisiologici: non mi veniva più il ciclo da circa cinque mesi, perdevo molti capelli, ero sempre stanca e avevo perennemente freddo. In realtà, però, lo sapevo già da prima. Non riuscivo a tenere dentro niente: se erano giorni cattivi vomitavo, se erano buoni mi allenavo fino a che non vedevo tutto un po’ nero; a pranzo sporcavo i piatti per far credere ai miei di aver mangiato e contavo le calorie di tutto. Vabbè poi facevo anche altre cose, ma non ci tengo a raccontarle.”

Poi cos’è successo?

“Poi l’ho detto alla mia migliore amica e abbiamo pianto tanto lol. Alla fine mi ha obbligato a dirlo alla mamma e adesso vado da una nutrizionista da cinque mesi. Con lei mi trovo benissimo, mi sento super tranquilla a raccontarle delle mie difficoltà e mi fido ciecamente. Le giornate no ci sono ancora e ho ancora alcuni fear food, ma sto migliorando.”

Scusami eh, fear food?

“Ah sì, sono letteralmente i cibi che ti fanno paura, che non riesci a mangiare insomma. Io, per esempio, ho dei problemi con le brioches del bar, il salame (che era la mia droga un tempo), tutto quello che cucina nonna, il fritto e le bevande. Ma poi ognuno ha i suoi.”

E questi fear food sono diminuiti dopo che hai iniziato il percorso con la tua nutrizionista?

“Sì decisamente. Prima di lei mangiavo tranquillamente solo fiocchi di latte, verdure, acqua e carne bianca.”

Questo articolo era un intento a sensibilizzare noi giovani su questi disturbi che stanno colpendo sempre più persone. Ricordiamoci quindi di non essere mai cattivi con gli altri, perché spesso è qualche nostra offesa o presa in giro che pone quel diavoletto sulla loro spalla. E se tu che stai leggendo a volte ti senti a disagio davanti a un buon piatto di pasta, non esitare a chiedere aiuto! Sei valid*.

Matilde Martinelli 3AC

PROM: Il ballo di Natale

Esimi colleghi studenti,

 

L’attesa è finita, eccoci con uno degli articoli più amati da tutti gli studenti e che ormai non si leggeva da ben due anni: il commento al Ballo del Liceo e la famosissima rosa di candidati a Re e Reginetta. Tra pandemie e possibili conflitti mondiali cercare un po’ di normalità non è sempre facile, ma faremo del nostro meglio. Vista l’impossibilità di festeggiare Natale in modo adeguato, causa restrizioni covid, i nostri rappresentanti, Miriam, Chiara, Rocco e Giovanni hanno pensato bene di organizzare il PROM, Ballo di Natale, a marzo!

Geniale, almeno tanto quanto la location, la mitica Radio Londra, (che le 2006 non vedevano l’ora di vedere!) dove oltretutto una di noi lavora (Martina) mentre io (Laura), mi limito a cercare tessere per l’ingresso omaggio. Come tutti sappiamo, o, per i più piccoli, immaginiamo, il momento clou della serata per ogni ballo che si rispetti sarà l’elezione del Re e della Reginetta! Ebbene, ricordate il sondaggio a cui avete risposto? Ha ottenuto ottimi risultati e i candidati al titolo non sono per niente scontati.

In 5BS negli ultimi giorni si dice partano folgori (fulmini, per chi non ama la materia elevata di Dante) tra Gabriele Gallana e Rocco Bellon, bramosi del titolo di Re del Ballo, e che sia diventato impossibile parlare con uno dei due senza prima inchinarsi o chiedere udienza. La mascella prorompente o il rosso lentigginoso, chi vincerà? La rosa si allarga, e la 5BS sembra regnare sul resto della scuola, perché fra gli altri candidati vi sono il bicipite di Gigi Guarini e gli occhi angelici di Francesco Lora. Un posto d’onore va anche all’artista Riccardo Convento, che si fa strada tra i candidati di Via Stazie. Ultimo, ma non per importanza, è il bodyguard con le stampelle Giovanni Dirignani, che nelle ultime settimane si è lasciato conquistare dalla bionda conosciuta come ex rappresentante Arianna Chiodin, che, d’altro canto, scala la vetta come possibile Reginetta. Tra le donne invece, un posto d’obbligo va a Sofia Ferraretto, che probabilmente assumerà la carica ad honorem, solo per la quantità spropositata di nomine ricevute, mentre dai meandri dell’antichità greca, arriva una bellezza di cui non si può far a meno di parlare, la classicista Emma Zovi, conosciuta tra i veterani per avere sempre la pelliccia adatta ad ogni situazione. L’incontentabile 5BS, però, non poteva non essere rappresentata da una ragazza, ed ecco che tra le candidate emerge il nome della bambolina di porcellana Giulia Questioni, conosciuta per la preferenza in giovane età del corridoio degli sportivi. Le ultime candidate provengono dalla sede di Viale Fiume: la Venere dalle sfumature rosse, Matilde Canevarolo, accompagnata dall’amica attivista Chiara Faccioli… sarà uno scontro aperto tra le due o condivideranno la corona?

 

Decidere chi saranno i vostri eletti sarà semplicissimo: basterà scrivere dietro alla prevendita il nome dei candidati da voi scelti e inserirla nell’apposito contenitore, che troverete all’ingresso, il risultato… soltanto i temerari, che resisteranno fino alla mezzanotte, lo sapranno! Detto questo, io (Martina) vi aspetterò in cassa, mi raccomando non perdete le vostre tessere e con me (Laura), ci vediamo in pista! Ad aspettarvi dietro al bancone bar ci sarà l’ex rappresentante d’istituto, conosciuto dai più anziani per i mitici balli organizzati, Francesco Ambrosi, ancora presente all’interno della scuola con l’animo, ma anche con la componente genetica, ovvero la sorella Sofia, presente, si spera, ancora per poco nei corridoi del linguistico.

Un ringraziamento speciale va allo staff di Radio Londra e ad Atheste Events, che hanno permesso l’organizzazione di questo fantastico evento. Accorrete a prendere le ultime prevendite rimaste, perché vi aspettiamo numerosi e…

 

Con la testa, con il petto, con il cuore Ciao ciao!!

Vostre, Marty e Lau

Una cicatrice indelebile

Una cicatrice che lascia il segno nel profondo dell’anima; una cicatrice che ti cambia per sempre; una cicatrice capace di portare alla luce migliaia di ricordi.

Ecco, questo è quello che un disturbo alimentare ti lascia, e purtroppo al giorno d’oggi molti sono gli adolescenti si trovano a convivere con questo mostro che li perseguita e che si è fatto più grande a causa della situazione pandemica. Una bestia che ti distrugge pian piano: ti fa fare quello che vuole, facendoti credere sia la cosa giusta da fare. Lo consideri come un amico perché ti fa diventare ciò che pensavi di voler essere, ma effettivamente non riesci mai a trovare un equilibrio.

Perdi i rapporti con le persone, diventi apatico, ti chiudi in te stesso: in poche parole perdi il controllo di te. Dall’esterno sembri una persona fortissima, perché riesci a sopportare la fame, ti alleni fino allo stremo, ma effettivamente dentro c’è un buco enorme che ti fa sentire impotente. Ed è lì che si crea una ferita che non puoi cicatrizzare pensando o dicendo che basti mangiare, perché non è così.

Si instaura una continua lotta tra mente e cuore in cui uno ti dice di non mangiare perché non sei abbastanza magro, ma l’altro vuole riavere ciò di cui è stato privato per così tanto tempo. In quei momenti pensi di non aver scampo, che ormai il tuo destino sarà contrassegnato da quel disturbo alimentare. Sei stanco di sentirti dire dai tuoi genitori che non sei più il figlio di una volta; sei stanco di vedere ciocche di capelli cadere ogni volta che li tocchi; sei stanco di dover scegliere di rinunciare ad una cosa che ami per perdere un maledettissimo etto; sei stanco di non essere più felice; dei continui pianti in camera; della paura di non risvegliarsi più per la mancanza di forze. Affronti un cibo che ti fa paura, ma aveva troppe calorie e allora vomiti, ti alleni, ti riempi di lassativi pur di non avere più nulla in corpo. E poi ci sono i sensi di colpa che non se ne vanno, che ti fanno sentire uno schifo, quando invece sei il fiore più bello, pronto ad una sbocciatura che potrebbe esserti privata da una cosa che vorresti essere, ma che non potrai mai essere. Decidi allora di lasciarti andare, contrassegnato da un senso di solitudine interiore.

Invece, poi, inizi a combattere fino a che riesci a sconfiggere quel maledetto mostriciattolo nella tua testa e allora potrai dire: “Ce l’ho fatta”. Ebbene sì, ce l’avrai fatta e dopo continue lotte, avrai ritrovato l’equilibrio, ma porterai per sempre quel ricordo in anima e cuore.

Si formerà una cicatrice, una cicatrice indelebile che porterai sempre con te e ti farà trovare la forza anche nei momenti più brutti.

Giada Gambalonga 3AL

Sei e sarai – Storia di un’amicizia persa

Sei e sarai parte della mia vita,

Sebbene tra noi due ormai sarà finita.

 

Sarebbe bello non dovesse accadere

E invece tra le dita sfuggirmi ti devo vedere.

 

Cos’ho fatto? Come ho potuto causare

Questo tuo desiderio di scappare?

 

Nel buio barcollo, ma è tutto invano,

Non potrò mai più sfiorare la tua mano.

 

Urlando il tuo nome ho perso la voce.

Quando finirà questa sofferenza atroce?

 

Ti scongiuro, fermati e dimmi perché

La mia presenza non vuoi più intorno a te.

 

Sempre più lontano te ne stai andando

E il mio passo va ormai decelerando.

 

D’improvviso la domanda spontanea mi sorge:

“Perché dei miei tentativi non si accorge?”

 

Non ho forse provato abbastanza,

Ottenendo solo l’accrescere di questa distanza?

 

Rassegnata, mi arresto. Non ha più senso.

“Mi rimarranno i ricordi”, a questo penso.

 

Lascio che ti stacchi da me, è questo che vuoi,

Troppo a lungo ho combattuto per un già perso “noi”.

 

 

 

Andra Bandrabulea, IV AL

Documento senza titolo

A seguire il prodotto di un fruttuoso dialogo tra due personaggi molto interessanti. Il primo si chiama file vuoto, il secondo utente.

 

Documento senza titolo.

 

Il file è vuoto. Prego: inserire le proprie idee.

Riguardo a cosa?

A ciò che vuole Lei.

Lei chi?

Lei.

Io?

Sì. Lei.

 

Io.

 

Il file è vuoto. Prego: scrivere qualcosa.

Ma riguardo a cosa??

A ciò che più le piace.

Ma a me non piace nulla.

Nulla?

Nulla di cui vale la pena parlare, nulla che interessa agli altri.

E chi è che determina ciò che interessa agli altri? Lei?

Io.

Ciò che Lei potrebbe dire non lo ritiene stimolante?

Ritengo che ciò che potrei dire risulterebbe utile solo a me.

Solo a Lei?

Solo a me.

 

Me.

 

Il file è vuoto. Prego: scrivi.

E che cosa dovrei scrivere?

Ciò che ti rende vuoto.

Vorrei fare a meno.

Ma perché?

Non posso riempire del vuoto con dell’altro vuoto.

Certo che puoi, diventerei un file vuoto riempito da tanti vuoti colmabili, i tuoi.

E chi mai li colmerebbe?

Io. Con il mio vuoto.

Non ti capisco.

Proviamoci.

 

Noi.

 

Il file si sta riempiendo. Prego: continua a scrivere.

Continuo a scrivere solo perché me lo chiedi tu.

Non ti senti meglio?

Forse, ma non voglio ammetterlo.

Perché no? Con me puoi essere sincero. Non giudico.

Giudicare? Tutti troppo bravi a farlo. Motivo per cui scrivo in questo file: non mi giudichi.

Però non credi che dovresti imparare ad affrontare il giudizio altrui?

Non giudicarmi.

 

Me.

 

Il file si sta riempiendo. Prego: scrivi con moderazione.

Odio quando mi fai queste richieste. Ora che sei meno vuoto pretendi che io smetta di scrivere, non te ne frega più nulla di me.

Non puoi capire la condizione di file vuoto.

Sarei io che dovrei capirti? Tu non hai bisogno di essere capito.

Solo perché sono un file vuoto, non significa che posso contenere tutto il tuo dolore senza  mai soffrire. Il nostro deve essere un rapporto reciproco.

Sì, ma a me chi ci pensa?

Io. Ma tu pensa a me. Va bene? Ci aiutiamo.

 

Noi.

 

Ci aiutiamo? Stupido file. Non ho tutto il tempo del mondo per pensare agli altri, a come stai tu, a come stanno i miei amici, i miei parenti, i miei vicini di casa. Non si può pretendere di esserci sempre per tutti e mai per se stessi. Non si può. Devo pensare a me.

 

ME!

 

File pieno. Prego: —

Non dici nulla?

Ei? Ci sei?

File vuo… no. Non sei più un file vuoto, come potrei chiamarti… File pieno? Ei, file pieno, ci sei?!

Non mi rispondi più. Ho capito: anche tu mi hai abbandonato definitivamente. Come hanno fatto tutti gli altri. Non sei diverso da loro. Non lo sei mai stato. Volevi solo che ti dicessi ciò che avevo dentro, per sapere perché stavo male, perché ti interessava farti i fatti miei. Perché ti faceva sentire meno vuoto. Perché per un pò ti sei sentito utile. Perché ti sei sentito qualcosa per qualcuno, eppure eri solo un involucro vuoto. E io ti ho riempito con il mio dolore. Sei un ingrato. Però… mi manchi.

Mi mancano quei momenti in cui non c’era nessuno, ma tu eri così ben disposto a soffrire per me. A riempire il vuoto con del dolore incolmabile, a capire l’incomprensibile, ad accettare l’inaccettabile e udire l’inudibile. Mi facevi sentire pieno. Mi rendevi felice ma sono sempre stato troppo orgoglioso per ammetterlo. Sai che ti dico?

Ti prego, rispondi!

Ora cancello tutto! Cancello perché ti voglio di nuovo vuoto, e non per riempirti di dolore, ma per prendermi cura di te come tu hai fatto con me. Mi manchi. Spero di riaverti indietro. File, torna vuoto, io ti riempirò con fantasia, dolcezza, originalità. Io ti darò me stesso.

 

Me stesso.

 

File rinnovato. Prego: scrivere.

Oh che gioia! Io ho bisogno di te! Certo, scriverò, scriverò eccome, ma le cose sono cambiate. Ora ti riempirò di bellezza, non di dolore.

Caro utente, non ti preoccupare. Sono sempre stato riempito e poi cestinato. E dopo trenta giorni, come da copione, finivo nel dimenticatoio e resettato. Ma non dimentico, purtroppo. È la prima volta che qualcuno ragiona diversamente dagli altri. Tu mi vuoi bene.

Io sono un ingrato. Ti ho riempito di dolore e ho continuato a pretendere che tu ci fossi per me, mentre io per te non ho fatto nulla. Ti ho ferito, perché sì, il dolore degli altri pesa.

È vero.

Ci rendiamo conto del valore di uno spazio vuoto da riempire, solo quando è pieno e non ci sta più nulla.

Non accadrà più, promesso.

Promesso.

Non voglio che prometti. Se quello che dici è vero, ricordati che per prendersi veramente cura di se stessi non bisogna annichilire gli altri.

E come si fa esattamente?

Non esistono formule magiche. Io sono un file vuoto, programmato per essere riempito. Ma  le persone non sono programmate per questo. Non sono involucri, come mi hai definito tu. E prendendoti cura di loro troverai la strada che ti porta dritto alla felicità. Non dimenticare te stesso, mai, ma non dimenticarti che esistono anche gli altri.

Sei saggio.

No, sono un file vuoto che ha utilizzato il dolore per maturare, e le brutte esperienze per non sbagliare più. Mi definirei quasi umano, se non fossi fatto di zero e uno.

Non sono i numeri a determinare il tuo essere. Ma quello che sei dentro, amico.

Ti voglio bene.

Anch’io.

 

Noi. Insieme.

 

 

 

 

Filippo Magaraggia 4AA

Solitudine

Solo seduto a riflettere e immaginare.

Il pianto si avvicina, lo ricerchi, ti vuoi liberare

lo riesci a respingere.

 

 

Vuoi qualcuno al tuo fianco,

ameresti sentirti amato,

lo cerchi, ma non si avvicina e non osi muoverti.

 

 

Ora, dopo, per sempre ci dirigi l’animo.

Batte vellutato, il cuore, poiché lo sopprimi,

ma un giorno la conquisti: la felicità.

 

 

Non sei tristezza.

Non sei solitudine.

Sei semplicemente un pensiero.

 

 

 

Andrea Sattin 3AL

Istanti d’autunno

Valnogaredo (Cinto Euganeo), 20 novembre 2021

di Matilda De Riva e Michele Zanetti

Per quanto tempo una specifica sfumatura accarezza la superficie di una foglia?

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Per quanto tempo una certa atmosfera illumina la volta del cielo? Per quanto tempo una nebbia vaporosa e rarefatta abbraccia la sommità di un colle?

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In un mondo in cui tutti vanno di fretta, tutti corrono, tutti gareggiano per essere primi, per sopraffare l’altro, per apparire migliori, abbiamo voluto rallentare e fermarci a catturare degli istanti d’autunno: abbiamo voluto trascorrere del tempo in mezzo alla natura, osservando la semplice autenticità delle viti, delle colline, delle foglie variopinte…

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Abbiamo voluto immergerci per qualche ora nella melodia dei Colli Euganei, un’armonia fatta di colori, fasci di luce, suoni, ombre, correnti fredde, caldi raggi, e abbiamo aspettato con pazienza ogni sfumatura e tonalità capace di emozionare, ogni immagine che, seppur effimera e transitoria, noi abbiamo provato a fermare in uno scatto. Vogliamo condividere con voi queste sensazioni, per ricordare che la poesia può trovarsi In una nuvola, che per trovare la calma dopo una giornata difficile basta il silenzio di un bosco, che per stare bene a volte basta una semplice chiacchierata, che niente è più inimitabile e disarmante della semplicità.

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Aspettative e realtà

Ho sempre pensato che prima o poi sarebbe arrivato quel fatidico momento in cui improvvisamente avrei capito tutto. Avrei realizzato chi sono, cosa mi piace e cosa no, cosa voglio fare e quanto sono disposta a combattere per raggiungere i miei obiettivi.

 

Fatto sta, però, che il Maggio scorso, spegnendo le diciotto candeline sulla torta di compleanno, mi sono resa conto che quel momento è ancora ben lontano dal giungere.

 

Ebbene sì, per quanto tutti si aspettino che noi abbiamo già pronte tutte le risposte a domande come “cosa vuoi fare da grande?”, spesso non è così. E la prima volta che sono stata brutalmente schiaffeggiata da questa cruda verità è stato durante il tragico anno della terza media, in cui, oltre al terrore degli esami alle porte, che venivano presentati dagli insegnanti come una prova insuperabile, si aggiungeva l’enorme responsabilità di dover scegliere la scuola superiore che avremmo frequentato una volta finite le medie. Fu un dramma. Confusione, dubbi, pianti. Il fatto che quella scelta avrebbe potuto definire la mia intera carriera, e quindi il resto della mia vita, creava un irrefrenabile tumulto in me. Per quanto mi scervellassi, non riuscivo a giungere ad una conclusione quando mi interrogavo sui miei interessi, obiettivi, sogni. Chi ero, cosa volevo diventare? Domande del genere continuavano a frullarmi in testa, ma senza mai ottenere una risposta. Più per caso che per un motivo vero e proprio scelsi il liceo che sto frequentando, con la forte speranza che strada facendo avrei imparato a conoscermi. Non fu così.

 

Prima superiore e mi viene chiesto cosa mi abbia spinto a cominciare questo percorso. Seconda superiore e mi si domanda se sono soddisfatta della mia scelta. Terza superiore e mi viene detto di fare un breve discorso sui miei piani futuri, cioè l’università e la professione che avevo in mente. Quarta superiore e mi rendo conto che continuo a non saper rispondere sinceramente a nessuna di queste domande. Certo, una risposta di scorta ce l’ho sempre. “Ho scelto questo indirizzo perché mi sono sempre piaciute le lingue straniere e sento di essere più portata per le materie umanistiche.”, “Mi piacerebbe fare la scrittrice perché amo leggere e la letteratura mi affascina molto”, “Se ne avessi la possibilità, sarebbe molto bello frequentare un’università all’estero, più in particolare in Francia, e scegliere una facoltà legata alle lingue e letterature straniere”. Io stessa non so se e quanto ci credo a queste affermazioni, essendo perlopiù discorsi che ho creato per non rispondere con un semplice ma sincero “non ne ho la più pallida idea”.

 

E quindi eccomi qui, in quarta, dopo 3 anni pieni di ansia, a poco più di un passo dal dover decidere cosa fare finite le superiori. Secondo momento drammatico in arrivo dopo quello di 4 anni fa? Molto probabile.

 

Però quello che proprio non capisco è perché debba funzionare così. Chi l’ha detto che dobbiamo già sapere cosa vogliamo fare? Chi l’ha deciso che a soli 13 anni si debba già essere in grado di fare una scelta così importante come quella di individuare tra innumerevoli opzioni la scuola più adatta a noi? Perché devono essere imposti questi paletti, questi vincoli, queste barriere? Perché non possiamo seguire i nostri tempi? E se io non volessi andare nella stessa direzione degli altri? E se per ora avessi voglia di passare gran parte del mio tempo in attività alternative per raggiungere uno stato d’animo più pacifico? E se preferissi mettere al primo posto il mio benessere fisico e mentale e non cercare di soddisfare le aspettative surreali che la società ha nei miei confronti?

 

Per fare un esempio, ci sono alcuni bambini che già all’asilo sanno di voler diventare pompieri e che, una volta diventati adulti, lo fanno e ne sono felici, mentre altre persone comprendono la propria inclinazione solo dopo aver vissuto quattro decenni sulla Terra. E allora perché si è costretti alle stesse tempistiche? Questo rende inevitabile che gran parte della popolazione finisca per compiere delle scelte premature, per poi capire solo dopo molto tempo che avrebbe dovuto fare tutt’altro.

 

Sono dunque certa che, se solo ci fosse una maggiore flessibilità nei confronti dei giovani, un lasciarli liberi di decidere e di evitare di farlo quando non se la sentono, questi avrebbero molte più probabilità di trovare la loro strada. Fin dalle elementari siamo invece costretti a seguire un certo programma, ad andare di pari passo con gli altri compagni e le altre classi e da subito quasi ogni forma di individualità e creatività non esplicitamente richieste vengono soppresse. E questo purtroppo prosegue con gli anni.

 

In conclusione, penso che noi giovani dovremmo cercare a tutti i costi di non rinunciare alla nostra individualità, evitando di lasciarci travolgere da questa spirale di obblighi e doveri che provengono dal nostro esterno. La cosa migliore sarebbe, infatti, seguire il più possibile il nostro istinto, ascoltandoci, comprendendo le nostre necessità e soddisfacendole, perché questo ci permetterebbe di essere buoni e generosi con noi stessi e con gli altri. Se invece finissimo per essere l’ennesima generazione che fa qualcosa che odia solo perché le viene detto di farlo, questo ci toglierebbe l’amore per quella fantastica occasione che si ha una volta sola: la vita.

 

 

 

Andra Bandrabulea, IV AL

A costo della vita

Era una notte fredda di fine febbraio in una nota multinazionale europea in Cina.

Quel giorno il dottor Monti era rimasto in laboratorio per ultimare il progetto top-secret su cui lavorava da anni.
Se il risultato che sperava di ottenere si fosse registrato, sarebbe stata una rivoluzione nella storia dell’umanità.
Ecco! Finalmente il siero era pronto. Lo testò su un piccolo criceto che si trovava in una gabbia vicino a lui, facendoglielo bere.
Non poteva crederci. L’esito era inaspettato.
Il dottore capì che se fosse finito nelle mani sbagliate, ovvero le loro, sarebbe stata una catastrofe…
La porta del laboratorio improvvisamente si aprì. Entrarono i manager, accompagnati da una dozzina di tipi loschi vestiti di nero.
-Caro il mio dottore, spero lei abbia portato a termine il progetto-
cominciò uno dei direttori,
-Come sa, il suo ultimatum è quasi scaduto, e sarebbe un vero peccato dover sbarazzarci di lei-.
Monti ascoltava nascosto dietro uno scaffale, sudando freddo. Conosceva la verità: quelle persone erano in combutta con una società criminale segreta. Doveva elaborare un piano di fuga.
-Suvvia, non c’è bisogno di nascondersi, se ce lo consegna la lasceremo in pace, e sarà ben pagato se non aprirà bocca con nessuno.-
continuò un altro individuo.
Il dottore camminò a schiena bassa, nascosto dai tavoli, fino a raggiungere l’ingresso; a quel punto si alzò e premette l’interruttore di emergenza lì vicino che attivava il sistema di chiusura e uscì di corsa, con l’allarme e le urla delle persone intrappolate che risuonavano alle sue spalle.

Decise che sarebbe dovuto tornare immediatamente a casa, e trovare un posto dove nascondere il siero, che anche a costo della vita non avrebbe mai ceduto.

Il giovane Gabriele si svegliò. Era un sabato mattina, ma non uno qualsiasi: avrebbe passato il pomeriggio con suo padre, che era tornato la sera prima da un viaggio di lavoro. Lo aveva visto agitato, e da quando era a casa non era mai uscito dal suo studio, neanche per cenare.
Dopo essersi preparato e aver fatto colazione da solo andò davanti alla porta dello studio e bussò. Non sentendo una risposta decise di entrarci.
Non gli era permesso farlo, ma voleva vedere se suo padre stesse bene e avvertirlo che doveva andare a scuola.
Dentro quella stanza regnava il caos: c’erano fogli sul pavimento, tante ampolle sporche su un tavolino e alcuni attrezzi sparpagliati qua e là. Lo vide dormire su una sedia davanti al computer, con la testa appoggiata sul tavolo. Stava per svegliarlo, quando notò che affianco a lui c’era un porta provette con una sola provetta, contenente un liquido incolore.
Senza pensarci due volte la prese in mano e la stappò. L’odore era abbastanza forte ma non cattivo. La tenne vicino al viso per continuare ad osservarla, quando suo padre si mosse. Per lo spavento agitò la mano, e così una parte del siero gli entrò in bocca, mentre il resto nel vasetto di una pianta.
Il sapore era orribile. Gabriele avrebbe voluto vomitare. Rimise giù la provetta e di fretta uscì dallo studio e da casa.
Il ragazzo si domandava se quella cosa che aveva ingerito gli avrebbe fatto male, ma non sentendo alcun effetto, smise di preoccuparsene.

Intanto i manager scoprirono dove abitava il dottore e irruppero in casa sua. Quest’ultimo, chiuso nel laboratorio, sentendoli arrivare provò a nascondersi, ma gli incursori lo raggiunsero prima e lo immobilizzarono con un manrovescio sulla testa. Cercarono l’esperimento dappertutto, senza trovarlo.
Ad un tratto uno dei loro scagnozzi passò a fianco ad una piantina, e sentendone l’odore insolito, tentò di prenderla, ma rimase stupito di quello che successe. Avvertì gli altri uomini, anche loro allibiti.
-Capo, qui ci sono oggetti appartenenti ad un adolescente-
riferì invece un altro uomo.
Il direttore sogghignò e il suo sguardo si fece crudele.

Gabriele Monti stava uscendo da scuola, quando alcuni individui in giacca e cravatta nera gli si avvicinarono. Uno di loro disse:
-Tu sei Monti, vero? Lavoriamo con tuo padre e avremmo delle domande da farti-
Gabriele osservandoli aveva una strana sensazione: non si fidava di quelle persone, e non capiva perché avrebbero dovuto cercarlo lì e non a casa.
Che ci fossero già stati?
E suo padre?
Negò la domanda e fece per andarsene, ma con la coda dell’occhio vide uno tirare fuori una pistola.
D’istinto si abbassò, evitando il colpo, poi cominciò a correre più veloce che poteva, con gli spari che lo schivavano. Aveva il cuore in gola, ma non rallentò e si infilò in alcune stradine tra dei condomini.
Sentiva il rumore di un’auto che correva all’impazzata, così fermandosi si voltò e ne vide una a pochi metri da lui.
“E’ la fine” pensò.
Chiuse gli occhi e aspettò l’impatto, ma quello non arrivò mai.
L’auto era dalla parte opposta e gli uomini di prima vi scesero, a bocca aperta.

Anche Gabriele, che aveva riaperto gli occhi, capì cos’era appena successo, ma non poteva crederci: gli erano passati attraverso.

Ilaria Ballan