OSSESSIONE

Bella la scuola, vero? Soprattutto la nostra.

Tanti progetti, canzoni, iniziative, viaggi e professori simpatici. Porta gioia, in qualche modo. Io non riesco a staccarmene, è diventato fondamentale. Ti fa sentire grande essere al liceo, tanto che inizi a pensare solo a quello e alle persone che hai intorno. Abbiamo persino delle pagine Instagram dove trovarci. Ma poi peggiora, in modo inaspettato. Inizi a pensare a ciò che devi fare per domani e per il giorno dopo, alle persone che incontri, e poi ad una sola in particolare. E ti ossessioni.

Romaissaa Watki, 1AL

Due lune

C’erano una volta due ragazze che frequentavano la stessa scuola. Avendo tre anni di differenza non avevano mai davvero prestato attenzione alla presenza l’una dell’altra. Probabilmente penserete che sia una normale storia, e sì, forse lo è. Ma la loro è una storia più, come dire?, particolare: una storia in realtà mai iniziata e mai finita. Loro non erano il solito cliché del “una era la luna e l’altra il sole che l’illuminava”. No, erano due lune. Ebbene sì. Due lune destinate ad illuminare a malapena se stesse, due lune solitarie. Ma un giorno, proprio per caso, o per destino, le loro strade si incrociarono per un piccolo istante, cambiando tutto. Successe come un lampo di fulmine, in modo totalmente inaspettato, ma con la stessa potenza e devastazione. La prima, annoiata dalla lezione, scrutava fuori dalla porta che dava sul corridoio. La seconda, invece, passò di lì per accompagnare una sua compagna alla segreteria, fermandosi per pura curiosità, o per destino, ad osservare la classe della prima. In quell’istante i loro sguardi si incrociarono, e loro rimasero così, incatenate l’una negli occhi dell’altra, senza un apparente motivo, per caso, o per destino. E così si conclude la storia. Delusi? Probabilmente sì. Ma si dia il caso che loro non si rividero mai più, né per caso, né per destino.

-Anonimo

Documento senza titolo

A seguire il prodotto di un fruttuoso dialogo tra due personaggi molto interessanti. Il primo si chiama file vuoto, il secondo utente.

 

Documento senza titolo.

 

Il file è vuoto. Prego: inserire le proprie idee.

Riguardo a cosa?

A ciò che vuole Lei.

Lei chi?

Lei.

Io?

Sì. Lei.

 

Io.

 

Il file è vuoto. Prego: scrivere qualcosa.

Ma riguardo a cosa??

A ciò che più le piace.

Ma a me non piace nulla.

Nulla?

Nulla di cui vale la pena parlare, nulla che interessa agli altri.

E chi è che determina ciò che interessa agli altri? Lei?

Io.

Ciò che Lei potrebbe dire non lo ritiene stimolante?

Ritengo che ciò che potrei dire risulterebbe utile solo a me.

Solo a Lei?

Solo a me.

 

Me.

 

Il file è vuoto. Prego: scrivi.

E che cosa dovrei scrivere?

Ciò che ti rende vuoto.

Vorrei fare a meno.

Ma perché?

Non posso riempire del vuoto con dell’altro vuoto.

Certo che puoi, diventerei un file vuoto riempito da tanti vuoti colmabili, i tuoi.

E chi mai li colmerebbe?

Io. Con il mio vuoto.

Non ti capisco.

Proviamoci.

 

Noi.

 

Il file si sta riempiendo. Prego: continua a scrivere.

Continuo a scrivere solo perché me lo chiedi tu.

Non ti senti meglio?

Forse, ma non voglio ammetterlo.

Perché no? Con me puoi essere sincero. Non giudico.

Giudicare? Tutti troppo bravi a farlo. Motivo per cui scrivo in questo file: non mi giudichi.

Però non credi che dovresti imparare ad affrontare il giudizio altrui?

Non giudicarmi.

 

Me.

 

Il file si sta riempiendo. Prego: scrivi con moderazione.

Odio quando mi fai queste richieste. Ora che sei meno vuoto pretendi che io smetta di scrivere, non te ne frega più nulla di me.

Non puoi capire la condizione di file vuoto.

Sarei io che dovrei capirti? Tu non hai bisogno di essere capito.

Solo perché sono un file vuoto, non significa che posso contenere tutto il tuo dolore senza  mai soffrire. Il nostro deve essere un rapporto reciproco.

Sì, ma a me chi ci pensa?

Io. Ma tu pensa a me. Va bene? Ci aiutiamo.

 

Noi.

 

Ci aiutiamo? Stupido file. Non ho tutto il tempo del mondo per pensare agli altri, a come stai tu, a come stanno i miei amici, i miei parenti, i miei vicini di casa. Non si può pretendere di esserci sempre per tutti e mai per se stessi. Non si può. Devo pensare a me.

 

ME!

 

File pieno. Prego: —

Non dici nulla?

Ei? Ci sei?

File vuo… no. Non sei più un file vuoto, come potrei chiamarti… File pieno? Ei, file pieno, ci sei?!

Non mi rispondi più. Ho capito: anche tu mi hai abbandonato definitivamente. Come hanno fatto tutti gli altri. Non sei diverso da loro. Non lo sei mai stato. Volevi solo che ti dicessi ciò che avevo dentro, per sapere perché stavo male, perché ti interessava farti i fatti miei. Perché ti faceva sentire meno vuoto. Perché per un pò ti sei sentito utile. Perché ti sei sentito qualcosa per qualcuno, eppure eri solo un involucro vuoto. E io ti ho riempito con il mio dolore. Sei un ingrato. Però… mi manchi.

Mi mancano quei momenti in cui non c’era nessuno, ma tu eri così ben disposto a soffrire per me. A riempire il vuoto con del dolore incolmabile, a capire l’incomprensibile, ad accettare l’inaccettabile e udire l’inudibile. Mi facevi sentire pieno. Mi rendevi felice ma sono sempre stato troppo orgoglioso per ammetterlo. Sai che ti dico?

Ti prego, rispondi!

Ora cancello tutto! Cancello perché ti voglio di nuovo vuoto, e non per riempirti di dolore, ma per prendermi cura di te come tu hai fatto con me. Mi manchi. Spero di riaverti indietro. File, torna vuoto, io ti riempirò con fantasia, dolcezza, originalità. Io ti darò me stesso.

 

Me stesso.

 

File rinnovato. Prego: scrivere.

Oh che gioia! Io ho bisogno di te! Certo, scriverò, scriverò eccome, ma le cose sono cambiate. Ora ti riempirò di bellezza, non di dolore.

Caro utente, non ti preoccupare. Sono sempre stato riempito e poi cestinato. E dopo trenta giorni, come da copione, finivo nel dimenticatoio e resettato. Ma non dimentico, purtroppo. È la prima volta che qualcuno ragiona diversamente dagli altri. Tu mi vuoi bene.

Io sono un ingrato. Ti ho riempito di dolore e ho continuato a pretendere che tu ci fossi per me, mentre io per te non ho fatto nulla. Ti ho ferito, perché sì, il dolore degli altri pesa.

È vero.

Ci rendiamo conto del valore di uno spazio vuoto da riempire, solo quando è pieno e non ci sta più nulla.

Non accadrà più, promesso.

Promesso.

Non voglio che prometti. Se quello che dici è vero, ricordati che per prendersi veramente cura di se stessi non bisogna annichilire gli altri.

E come si fa esattamente?

Non esistono formule magiche. Io sono un file vuoto, programmato per essere riempito. Ma  le persone non sono programmate per questo. Non sono involucri, come mi hai definito tu. E prendendoti cura di loro troverai la strada che ti porta dritto alla felicità. Non dimenticare te stesso, mai, ma non dimenticarti che esistono anche gli altri.

Sei saggio.

No, sono un file vuoto che ha utilizzato il dolore per maturare, e le brutte esperienze per non sbagliare più. Mi definirei quasi umano, se non fossi fatto di zero e uno.

Non sono i numeri a determinare il tuo essere. Ma quello che sei dentro, amico.

Ti voglio bene.

Anch’io.

 

Noi. Insieme.

 

 

 

 

Filippo Magaraggia 4AA

Aprire gli occhi verso il mondo e avvicinarsi a realtà diverse

Credo sia fondamentale per la nostra crescita personale essere aperti verso
nuovi mondi, culture, lingue, mentalità.
Noi giovani siamo curiosi di scoprire cosa c’è al di fuori del nostro piccolo
paesino, nel quale siamo nati e cresciuti. Allo stesso tempo però, il pensare
che ci sia qualcosa di diverso fuori dalla nostra quotidianità, dalla realtà in
cui siamo abituati a vivere e l’avvicinarsi a questo mondo inesplorato ci
spaventano.
Proprio per questo, ho deciso di intervistare le prof.sse Datz e Salvo:
entrambe si sono trasferite in un’età giovane in posti completamente
diversi rispetto al loro luogo d’origine.
Le loro esperienze sono un’utile testimonianza e una spinta per noi che
prima o poi conosceremo ed affronteremo le molteplici difficoltà
trasferendoci all’estero.

Ecco a voi l’esperienza della prof.ssa Salvo:

Dove è nata e cresciuta?

Sono nata e cresciuta a Messina, dove ho frequentato il liceo classico
“F. Maurolico”. Dopodichè mi sono iscritta all’Università per studiare
Lingue e Letterature Straniere (Tedesco e Inglese).

Quando si è trasferita all’estero? In quale occasione?
All’età di 20 anni mi sono trasferita in Germania, esattamente a
Tübingen, grazie al progetto “Erasmus”, un programma di mobilità
studentesca dell’Unione Europea che dà la possibilità a studenti
universitari di effettuare un periodo di studio in una università
straniera.
Dopo questa esperienza meravigliosa durata un anno, ho deciso di
rimanere in Germania, trasferendomi a Köln, Colonia, dove ho avuto
l’opportunità di lavorare per sei anni come insegnante di lingua
italiana in un liceo tedesco.

E’ stata la sua prima esperienza al di fuori del proprio paese di
nascita?
Prima dei 20 anni ho avuto la fortuna di fare tante piccole esperienze
all’estero. In particolare, ogni estate trascorrevo due o tre settimane
all’estero (Inghilterra, Irlanda, Austria, Germania) ospitata in college
o presso famiglie straniere. Durante questo periodo studiavo la lingua
e allo stesso tempo scoprivo la cultura del posto.

Aveva già studiato la lingua del paese in cui si è trasferita? In
generale, quanto tempo ci è voluto per impadronirsi della lingua?
Sebbene avessi già delle conoscenze della lingua tedesca, non è stato
subito facile comprendere e farsi comprendere dagli abitanti del posto.
Un conto è studiare la grammatica e il lessico sui libri, un altro è
utilizzare tutto il bagaglio linguistico in forma attiva e immediata in
contesti reali. Solo col tempo e con la pratica sono riuscita ad entrare
sempre più in confidenza con la lingua straniera e a sentirla sempre
più mia. Tuttavia, sono convinta che non si finisce mai di imparare
una lingua!

E’ stato difficile ambientarsi? E’ stata ben accolta dalle persone del
posto? Quali sono state le sue prime impressioni?
Con il trasferimento sono andata incontro a delle difficoltà che, a mio
parere, sono inevitabili e da mettere in conto se si fanno determinate
scelte di vita. Ero psicologicamente pronta a vivere una nuova
situazione in un ambiente diverso, ma trovarsi poi a viverla nella
realtà è un’altra cosa. Tuttavia, sebbene fossi partita da sola e non
conoscessi nessuno, la mia voglia di mettermi in gioco e la mia
curiosità verso l’altro mi hanno spinta a conoscere e a farmi conoscere
sempre di più dalle persone del posto. Si pensa che i tedeschi siano
molto freddi e distaccati, ma in realtà hanno solo bisogno di tempo per
conoscerti sempre di più e una volta conquistata la loro fiducia sono in
grado di aprire le porte del loro cuore e ad accoglierti calorosamente.
Così è stato per me.

Ha riscontrato difficoltà nell’accettare le diversità tra i due paesi?
Quando sono partita con una valigia in mano, consapevole che avrei
lasciato alle spalle la mia terra d’origine per un periodo molto lungo,
mi sono portata con me anche le parole della mia cara professoressa
d’inglese del liceo, la quale sosteneva che “conoscere, accettare e
accogliere le differenze culturali diventano la chiave per rendere
un’esperienza proficua e significativa”. Forte di questo pensiero, mi
sono effettivamente scontrata sul posto con la diversità culturale, in
ogni aspetto della vita quotidiana, ma proprio lo “scontro” mi ha fatto
capire che aprirsi a nuovi modi di pensare permette di tener conto che
esistono diverse soluzioni e punti di vista e possiamo imparare
qualcosa anche da altre culture, così come apprezzare ancora di più la
nostra.

Come si è sentita essendo così lontana da casa? Ne aveva nostalgia?
Ritornava spesso?
La lontananza da casa si è sicuramente fatta sentire. Lasciare la
famiglia e gli amici per avventurarsi in un paese nuovo e straniero non
è mai semplicissimo. Quindi avevo sì nostalgia di casa, soprattutto nei
momenti più difficili. Ma ho sempre superato questi momenti
pensando che comunque non ero sola. Grazie alla tecnologia potevo
sentire in qualsiasi momento le persone che avevo lasciato in Italia e
allo stesso tempo sapevo che avevo attorno a me nuovi amici e nuovi
affetti che mi hanno aiutato a gestire anche i momenti di sconforto e
di stanchezza. Inoltre, circa 3 volte l’anno riuscivo a tornare a casa per
ricaricarmi ed essere così pronta per ripartire con il giusto
entusiasmo.

Consiglia a noi giovani di fare esperienze all’estero?
Consiglio assolutamente a tutti i giovani di fare più esperienze
possibili all’estero. Sono pienamente convinta che tali esperienze
siano ciò che permettono alle persone di mettersi veramente in gioco,
di crescere e formarsi caratterialmente e di conoscersi e riscoprirsi
giorno dopo giorno. Venire a contatto con le diversità, imparare ad
ascoltare altri punti di vista e a rispettarli, conoscere nuovi usi e
costumi, scoprire posti nuovi…sono tutti modi utili per aprire la mente
e rendersi conto che non esistiamo solo noi, ma che siamo solo una
piccola parte di un qualcosa di più grande e meraviglioso che si chiama
“mondo”. Inoltre, solo uscendo dal nostro guscio possiamo davvero
affrontare le nostre paure e trovare così la chiave giusta per
superare una difficoltà, così da guardare avanti con più fiducia e
maggiore consapevolezza di sé.

Ora passiamo la parola alla prof.ssa Datz la quale con un’esperienza
altrettanto importante, ci racconta cosa l’ha spinta a trasferirsi in una
grande città come Padova. Spoiler: l’amore ha giocato un grande
ruolo;)

Dov’è nata e cresciuta?
Sono originaria dell’Alto Adige, più precisamente sono cresciuta nel
paese di Caldaro, a circa 15 km da Bolzano.

Com’è stato per lei crescere in una provincia bilingue? Come mai non
aveva imparato l’italiano fin da piccola?
L’Alto Adige è una zona bilingue, nei paesi però è predominante il
tedesco. Nel mio paese per esempio all’epoca c’erano solo i carabinieri
di lingua italiana e le scuole (elementari e medie) erano solo in lingua
tedesca. Solo al momento delle superiori che si trovano nelle città
avrei avuto la possibilità di fare la scelta se frequentare la scuola
italiana o tedesca. Avendo fino ad allora fatto tutte le scuole in lingua
tedesca non me la sarei mai sentita di scegliere in quel momento il
liceo in lingua italiana. Peccato che la scuola in Alto Adige non sia
bilingue e che si debba scegliere tra la scuola in lingua tedesca oppure
in lingua italiana. Ho iniziato a studiare l’italiano sin dalla seconda
elementare ma sempre come seconda lingua, quasi come una lingua
straniera e purtroppo con scarsi risultati. Ho sempre avuto paura di
parlare italiano e questo certo non ha aiutato. Non pensavo che questa
lingua in futuro sarebbe diventata così importante nella mia vita.

Cosa l’ha spinta a trasferirsi nel Veneto e lasciare il suo luogo
d’origine?
Ebbene sì, l’amore mi ha portata qui nel Veneto, a Padova. Mi sono
innamorata di un italiano del sud trasferitosi al nord da piccolo, nella
città padovana.

Ha riscontrato problemi nell’imparare la lingua? Quanto ci è voluto
per comprendere e farsi comprendere?
Non è stato facile all’inizio, ritrovarsi in una grande città
comprendendo circa il 30% della lingua parlata era un’insicurezza per
me. Temevo il giudizio degli altri su questo, avevo ansia da
prestazione, essendo italiana pareva strano che io non conoscessi
bene l’italiano. Ho iniziato comunque a lavorare: ho sempre avuto la
passione per la musica e mi è sempre piaciuto cantare. Arrivata a
Padova un’altra opportunità di lavoro mi è parsa davanti:
l’insegnamento della lingua tedesca. Ho dovuto quindi scegliere tra la
mia passione e una cosa abbastanza nuova per me. Col passare del
tempo ho però coltivato un grande amore per questo mestiere che mi
permette di essere in costante contatto con la mia lingua di origine ma
soprattutto di praticarla.
Comunque, capii di aver acquisito un buon livello di italiano solo
quando iniziai a sognare in questa lingua, cosa che mi parve tanto
strana.

Come ha affrontato la differenza tra il posto in cui è cresciuta
rispetto alla grande città in cui si è trasferita? Come le sono sembrate
a primo impatto le persone del posto?
Innanzitutto avevo solamente 21 anni quando mi trasferii a Padova.
Ero una ragazza giovane che voleva lasciare il suo luogo d’origine
perché era spinta da un’immensa voglia di scoprire il nuovo.
Trasferirsi da un paesino in una città multiculturale come Padova fu
un grande passo per esaudire questo mio desiderio. Mi affascinava, e
mi affascina tuttora, la vita di città: andare al cinema, a teatro, vivere
il centro erano tutte cose nuove per me.
D’altra parte però mi sono dovuta abituare alle usanze del posto. Mi
ricordo ancora quanto mi faceva innervosire quando al momento del
salutarsi si diceva “andiamo” per poi stare a parlare per un’altra
mezz’ora… non ero sicuramente abituata!
A differenza degli abitanti del mio paese, le persone conosciute a
Padova sono state fin dall’inizio super aperte e per questo è stato
molto facile per me integrarmi e fare nuove amicizie.

Torna spesso a casa?
Sì, quando ce n’è l’occasione prendo e vado! Mi mancano tantissimo i
paesaggi immersi nel verde, la natura… ma soprattutto la vita nel
paese, dove tutti si conoscono. Si è come una grande famiglia, infatti
non ci si ritrova mai da soli, tutte cose che da giovane mi davano
fastidio e che ora invece vedo diversamente e apprezzo.
Perciò cerco sempre di tornarci per almeno 1 settimana, tempo che mi
basta per ritrovare la mia lingua e la mia cultura!

Consiglia a noi giovani di fare esperienze del genere?
Certamente, credo che bisogna sempre cercare di uscire dalla propria
realtà per scoprire il nuovo. Immergersi nelle diversità aiuta anche a
capire i propri gusti, a scegliere cosa ci piace. Conoscere più cose dà un
senso di consapevolezza di cosa ci gira intorno!

Valentina Chatziantonis 2BL

死神 – Shinigami

dbb15cdd-7617-4bc0-9d4e-acae1afec0f3

 

 

皆さん、 こんにちは (Mina-san, konnichiwa. Buongiorno a tutti!) Cari lettori di Rompipagina,
come avrete notato, vi saluto in lingua giapponese, per permettervi di immergervi sin dalle prime
righe nell’atmosfera della storia che vorrei raccontarvi quest’oggi, che viene proprio dal lontano
Paese del Sol Levante. Il titolo di questo racconto è 死神 (shinigami), che si traduce come “dio della
morte”. Gli shinigami sono creature che hanno fatto il loro ingresso nella secolare mitologia
giapponese in tempi abbastanza recenti, probabilmente nel periodo Meiji (1868-1912) e, più che
essere simili a divinità, sono assimilabili a degli yōkai malvagi (creature soprannaturali, spettri o
demoni). Inoltre, c’è chi pensa che gli dei della morte non siano nemmeno originari del Giappone,
in quanto lì non vi sarebbe mai stato un vero e proprio culto della morte e nel Kojiki, la più antica
cronaca giapponese che si occupa di mitologia, non c’è traccia di essi. Gli shinigami sarebbero stati
importati dunque dalla Cina o dall’Europa e a causa delle loro origini incerte non si sa molto di queste
creature. Riconoscibili dalla loro carnagione grigio scuro, gli shinigami nascono e crescono in luoghi
dove si sente particolarmente la presenza del male, come zone dove si sono consumati delitti o
suicidi, e amano perseguitare gli umani facendo risuonare nella loro testa pensieri negativi. Si
possono considerare come degli psicopompi, dei traghettatori alla stregua del Caronte dantesco,
che portano con sé le anime dei vivi nell’aldilà.

 
Sarà forse questo alone di mistero che li avvolge ad aver incuriosito svariati autori di anime e di
manga fino al punto di portare gli dei della morte persino dentro alle loro opere, grazie alle quali
oggi sono conosciuti anche dal giovane pubblico occidentale. Io per primo ho conosciuto gli
shinigami attraverso il celebre manga intitolato Death Note, tuttavia, appassionandomi piano piano
alla cultura giapponese, ho capito che gli anime e gli stessi manga, seppure molto apprezzati in tutto
il mondo, sono, come si suol dire, la punta dell’iceberg. Alla base ci sono secoli e secoli di storia,
arte, credenze, usanze e tradizioni che hanno contribuito ad alimentare il mito del Giappone, queste
isole che ai nostri occhi sembrano quasi sfumare nelle dorate nebbie della lontananza. Tra gli aspetti
culturali più curiosi ritengo doveroso citare il teatro, anche perché è proprio da qui, per la precisione
dal genere 落語 (rakugo, letteralmente “parole cadute”), che arriva la storia di cui vi parlavo. Questo
genere consiste in un monologo comico in cui il rakugo-ka (il narratore) racconta una storia dai
caratteri farseschi sedendo sui talloni e inossando un semplice kimono. Affinché possiate godervi
meglio il racconto, vi chiedo, se volete, di immaginare che io sia il vostro rakugo-ka, pronto a narrare
in un meraviglioso teatro tradizionale di rakugo la storia. Fatto? じゃあ、 始めましょう (Jaa,
hajimemashō. Allora iniziamo!)

 
C’era una volta a Tōkyō un uomo. Niente lavoro, niente soldi, soltanto debiti, tanti debiti e una
moglie che non faceva altro che tormentarlo. “どうしよう。死にたい” (Dō shiyō. Shinitai. Che
cosa dovrei fare? Voglio morire!). A quel punto una voce lugubre irruppe dall’oscurità:” Se vuoi ti
spiego io come fare…Ma credo che sia inutile voler morire soltanto perché si è dei falliti. Gli umani
non possono morire a loro piacimento: devono prima aspettare che la loro vita si esaurisca e io, che
sono uno shinigami, posso dirti che la tua, di vita, è ancora molto lunga. Perché non ti trovi un lavoro,
invece? Che ne dici di diventare un dottore, per esempio?”. Stupito e indeciso, il pover’uomo disse
di non avere esperienza, che fare il medico è una responsabilità troppo grande per lui. Il dio della
morte, però, lo incoraggiò:” Quando una persona è malata, c’è uno shinigami nascosto vicino ai suoi
piedi o vicino alla sua testa. Io farò in modo che tu, umano, lo possa vedere, ma ricorda: se lo
shinigami è vicino ai piedi, tu potrai scacciarlo e far guarire i tuoi simili da qualsiasi malattia; se
invece si trova vicino alla testa, non potrai fare niente, perché significa che la loro vita è ormai giunta
al termine. In questo caso bada di non interferire con quel dio della morte, capito?”. “分かった 分
かった (Wakatta wakatta. Capito, capito)” – rispose l’uomo – “ma come faccio per far sparire lo
shinigami?”. Con un ghigno sinistro la creatura sussurrò:” Ti serve questa parola magica:
ajarakamokuren tekerettsu no paa! E poi ricorda di battere due volte le mani”. E allora l’uomo:” 簡
単ですよ (Kantan desu yo. È facile!)”. Divertito, ripeté la formula magica e in quell’istante lo
shinigami sparì: aveva funzionato.

 
Passarono un po’ di giorni e finalmente arrivò il primo paziente, che si portava dietro un simpatico
dio della morte vicino ai suoi piedi. Il novello dottore, compiaciuto, pronunciò l’incantesimo e fece
guarire il suo cliente e questo, non avendo mangiato per giorni a causa della malattia, dopo aver
pagato profumatamente il suo salvatore, si spazzolò un’intera porzione di tenpura. Miracolo! Anche
per le strade della città giungeva voce di quella guarigione prodigiosa e più che nuovi pazienti, si
recavano dal nostro “dottore” sempre più donne innamorate di lui, o meglio…del suo portafoglio.
Purtroppo, però, le cose non possono andare sempre per il verso giusto: i soldi prima o poi
spariscono e con loro le donne. Come se non bastasse, poi, tutti i malati che si rivolgevano a lui
avevano uno shinigami seduto vicino alla loro testa e quindi non aveva speranze di guadagno.

 
Una sera, improvvisamente, si presentò il servitore di un ricchissimo signore del posto che chiedeva
di guarire il suo padrone da una grave malattia; in cambio avrebbe dato al medico mille monete
d’oro. Il dottore accettò quell’offerta spropositata ma quando arrivò alla residenza del signore,
scoprì che c’era un dio della morte seduto vicino alla testa del malato. Non poteva fare nulla, ma
era talmente estasiato dall’idea di guadagnare così tanti soldi, che gli venne un’idea geniale. Dopo
aver aspettato per tutta la notte che gli occhi scintillanti dello shinigami si chiudessero per la
stanchezza, fece immediatamente ruotare il letto del paziente, che ora si trovava la creatura seduta
ai suoi piedi. E a quel punto un grido:” Ajarakamokuren tekerettsu no paa!”. Così, dopo aver battuto
due volte le mani, lo shinigami sparì in un grido sinistro che riecheggiava per la stanza. L’uomo
sentiva già il tintinnio delle mille monete d’oro e dopo aver realizzato di essere in grado di ingannare
a suo piacimento gli dei della morte scoppiò in una risata fragorosa, che venne interrotta soltanto
da un cupo “なぜ笑っている? (Naze waratteiru? Perché ridi?)”. Era il primo shinigami che
quell’uomo incontrò. “お久しぶり、 死神さん (Ohisashiburi, shinigami-san. Da quanto tempo,
signor shinigami!)” – rispose quello sorridente. Il dio della morte, al contrario, non sorrideva
affatto:” Mi sembrava di averti detto di non interferire per nessun motivo con uno shinigami seduto
vicino alla testa del malato. Così hai giocato con la durata vitale altrui! Pensi forse che voi umani
siate così speciali da poter giocare a fare gli dei? 一緒に来い (Isshoni koi. Vieni con me)”.
Nonostante il dottore, impaurito, non volesse seguire il dio, si trovò improvvisamente in un luogo
buio, illuminato da una miriade di candele. “Ogni candela” – spiegò lo shinigami – “è la durata vitale
di un umano”. Meravigliato, l’uomo notò immediatamente una candela che stava per spegnersi,
ormai con pochissima cera a disposizione, e chiese al dio se per caso fosse di un anziano che stava
per morire. “Invece è proprio la tua” – rispose – “Sai, prima la tua candela era quella lì dietro, bella
lunga e ancora piena di cera, ma quando hai fatto girare il letto del signore, hai fatto a cambio con
la sua, che è quella che hai ora. Hai venduto la tua vita per mille misere monete d’oro! Divertente,
vero?”. “Non voglio morire! No! Non voglio morire! Ti prego, restituiscimi la mia candela! Ti
supplico! Non voglio morire!”. “E va bene imbecille” – rispose scocciato lo shinigami – “Prendi
questa candela: se la accenderai con la tua vita, questa rappresenterà la tua nuova durata vitale. Ma
se la fiamma muore, tu morirai con lei”. “Nessun problema! Ora la accendo! Guarda qua, signor
shinigami! Ora lo faccio eh…”. “Oh guarda, si sta spegnendo”. “No, ti dico che ce la faccio!”. “Dai,
dai che si spegne!”. “No, no, guarda!”. “Sì, si spegne!”. “E invece no, ti dico, la sto accendend…”.”消
えた (Kieta. Si è spenta)”. Nell’esatto momento in cui dalla bocca dello shinigami uscì quella parola,
l’uomo che aveva giocato a fare il dio, cadde per terra senza vita in un tonfo sordo.

 
終わり(Owari. Fine). ここまで読んでくれて ありがとうございました (Koko made yonde kurete
arigatō gozaimashita. Grazie per aver letto fin qui).

 
Per chi fosse interessato, lascio due link per approfondire questo argomento:
– Esibizione del rakugo-ka Kyotaro Yanagiya: https://www.youtube.com/watch?v=P4PCds4tlT4
– Canzone del cantante Kenshi Yonezu: https://www.youtube.com/watch?v=8nxaZ69ElEc
またね (Matane. A presto!)

 

 

Filippo Fontan, 5AC

Riflessioni durante una serata marina

Percorro la piccola stradina lastricata, mentre cammino sento la sabbia sotto i piedi che, come sempre, ha invaso anche i tragitti che conducono alla spiaggia.

Tutto è stranamente deserto e silenzioso attorno a me, sembra che le persone si siano dimenticate di quella cosa che, da tanto tempo, attira milioni di visitatori, nuotatori e soprattutto vacanzieri: il mare. Quella splendida e informe massa blu, oggi è tutta per me. 

Ed ecco che finalmente ci confrontiamo; lei mi guarda, io la guardo. Parliamo attraverso il silenzio, interrotto dallo scrosciare delle onde. Mi siedo sulla riva e lascio che i piedi vengano bagnati dall’acqua e mi sento avvolgere dall’odore della salsedine. Il sole è basso sulla linea dell’orizzonte: è sera. Scruto quella retta infinita che, nell’immensità del mondo, si confonde al rosso tramonto del mare, che diventa uno specchio del cielo. Tutto è fuso e la differenza tra realtà e virtualità è impercettibile. Mi trovo in un luogo ameno, seppur diverso da quello che gli autori ci restituiscono, di solito con alberi e radure incantate, sento che il tempo si è paralizzato. 

 

In questa atmosfera però, c’è un buio che parte da dentro di me. È la passione ingiustificabile per la tristezza e la riflessione che si fa sentire, e mi domina. Cosa ne sarà di tutto questo? Cosa ne sarà di me? E delle persone che amo? 

La verità è che la risposta a queste domande non esiste, e tutto sta nel saper dare valore agli attimi che si vivono con le persone. Molte, troppe volte infatti quando ci confrontiamo con qualcuno o siamo in una relazione, tendiamo a dare per scontato di non essere soli. 

Tendiamo a lasciar affievolire la passione, perché diventa qualcosa di ovvio e sicuro. Ebbene, è sbagliato. Così facendo inneschiamo dei comportamenti errati che allontanano le persone che ci vogliono bene. Tutto diventa così forzato e obbligato da portare avanti. Mi chiedo, è troppo tardi? È troppo tardi per tornare a quella semplicità di cui l’uomo necessita? Cerchiamo di fare imprese straordinarie, di dire cose complicatissime, di comportarci in un modo sofisticato e macchinoso, di dimostrare alle persone quanto crediamo di valere, di avere una reputazione impeccabile, un curriculum vitae stracolmo e sovraffollato, di possedere qualsiasi cosa sia oggetto di desiderio; cerchiamo svaghi nella droga, nel fumo, nella pornografia, nell’alcool, aspiriamo a una bellezza ideale e canonizzata, capelli biondi, gambe lunghe, uomo alto e piazzato, donna disponibile e prosperosa. Ci rifugiamo dietro a delle maschere, incolpiamo il diverso, il nero, il religioso, l’ateo, il politico, il fratello, la sorella, i parenti, l’amico, l’amica, solamente perché la nostra vita, crediamo noi, fa schifo. 

Ci dimentichiamo di apprezzare le cose belle, i dettagli della vita, le piccolezze che poi danno un senso a tutto quanto, anche alle cose che la società in cui viviamo ci chiede e ci sprona a fare. Ma il principio e la base di ogni cosa è proprio questa, non possiamo costruirci come una persona solida e soprattutto valorosa, senza tener conto di ciò. 

E attenzione, l’uomo non deve essere perfetto e senza errori, perché così dicendo complico io stesso la questione. L’uomo, nel senso di essere umano, deve solo cercare e ritrovare se stesso nella sua dimensione originale, senza i luoghi comuni, le etichette e l’influenza esterna. Ci sono poche persone che sanno stare con tutti, perché gli altri sono troppo concentrati nel categorizzare e gerarchizzare la società. Quando è chiaro che nessuno è migliore di nessuno in termini di sesso, situazione economica, ideologia politica, religione, salute, diritti e così via. Non sappiamo stare in pace e in relazione con l’altro perché se ci guardiamo dentro non ride più nessuno. Come possiamo credere di poter amare e di poter desiderare, quando rifiutiamo noi stessi e la nostra natura?

 

Ormai è buio, non me ne ero accorto. Mi alzo lentamente e ripercorro la strada, le luci della città illuminano il cielo quasi come fosse giorno.

Ripercorrendo i pensieri, mi convinco che non devo farmi omologare da nessuno, devo vivere come meglio credo e fare ciò che desidero fare. Ciò non significa essere ribelli, non lo sono e mai lo sarò, ma vuol dire saper distinguere e porsi criticamente a ciò che accade. 

Della serie: non mi comporto in una certa maniera per venire accettato da un gruppo, sono come sono e preferisco non avere una cerchia di amici che non avere un’identità. Poi a quest’ultima corrisponde una personalità e a sua volta, degli amici che la accettano. Questo è il segreto della relazione con gli altri. 

 

Il mare mi fa riflettere, mi fa sognare, sperare e soprattutto mi fa tornare in pace con me stesso, solamente, soprattutto, quando siamo io e lui a dialogare tramite l’aria e il tacito sguardo. Ora però, è arrivato il momento di chiudere gli occhi e lasciarmi trasportare nel sonno, verso giorni migliori e una gioia incontenibile.

 

Filippo Magaraggia 4AA

A costo della vita

Era una notte fredda di fine febbraio in una nota multinazionale europea in Cina.

Quel giorno il dottor Monti era rimasto in laboratorio per ultimare il progetto top-secret su cui lavorava da anni.
Se il risultato che sperava di ottenere si fosse registrato, sarebbe stata una rivoluzione nella storia dell’umanità.
Ecco! Finalmente il siero era pronto. Lo testò su un piccolo criceto che si trovava in una gabbia vicino a lui, facendoglielo bere.
Non poteva crederci. L’esito era inaspettato.
Il dottore capì che se fosse finito nelle mani sbagliate, ovvero le loro, sarebbe stata una catastrofe…
La porta del laboratorio improvvisamente si aprì. Entrarono i manager, accompagnati da una dozzina di tipi loschi vestiti di nero.
-Caro il mio dottore, spero lei abbia portato a termine il progetto-
cominciò uno dei direttori,
-Come sa, il suo ultimatum è quasi scaduto, e sarebbe un vero peccato dover sbarazzarci di lei-.
Monti ascoltava nascosto dietro uno scaffale, sudando freddo. Conosceva la verità: quelle persone erano in combutta con una società criminale segreta. Doveva elaborare un piano di fuga.
-Suvvia, non c’è bisogno di nascondersi, se ce lo consegna la lasceremo in pace, e sarà ben pagato se non aprirà bocca con nessuno.-
continuò un altro individuo.
Il dottore camminò a schiena bassa, nascosto dai tavoli, fino a raggiungere l’ingresso; a quel punto si alzò e premette l’interruttore di emergenza lì vicino che attivava il sistema di chiusura e uscì di corsa, con l’allarme e le urla delle persone intrappolate che risuonavano alle sue spalle.

Decise che sarebbe dovuto tornare immediatamente a casa, e trovare un posto dove nascondere il siero, che anche a costo della vita non avrebbe mai ceduto.

Il giovane Gabriele si svegliò. Era un sabato mattina, ma non uno qualsiasi: avrebbe passato il pomeriggio con suo padre, che era tornato la sera prima da un viaggio di lavoro. Lo aveva visto agitato, e da quando era a casa non era mai uscito dal suo studio, neanche per cenare.
Dopo essersi preparato e aver fatto colazione da solo andò davanti alla porta dello studio e bussò. Non sentendo una risposta decise di entrarci.
Non gli era permesso farlo, ma voleva vedere se suo padre stesse bene e avvertirlo che doveva andare a scuola.
Dentro quella stanza regnava il caos: c’erano fogli sul pavimento, tante ampolle sporche su un tavolino e alcuni attrezzi sparpagliati qua e là. Lo vide dormire su una sedia davanti al computer, con la testa appoggiata sul tavolo. Stava per svegliarlo, quando notò che affianco a lui c’era un porta provette con una sola provetta, contenente un liquido incolore.
Senza pensarci due volte la prese in mano e la stappò. L’odore era abbastanza forte ma non cattivo. La tenne vicino al viso per continuare ad osservarla, quando suo padre si mosse. Per lo spavento agitò la mano, e così una parte del siero gli entrò in bocca, mentre il resto nel vasetto di una pianta.
Il sapore era orribile. Gabriele avrebbe voluto vomitare. Rimise giù la provetta e di fretta uscì dallo studio e da casa.
Il ragazzo si domandava se quella cosa che aveva ingerito gli avrebbe fatto male, ma non sentendo alcun effetto, smise di preoccuparsene.

Intanto i manager scoprirono dove abitava il dottore e irruppero in casa sua. Quest’ultimo, chiuso nel laboratorio, sentendoli arrivare provò a nascondersi, ma gli incursori lo raggiunsero prima e lo immobilizzarono con un manrovescio sulla testa. Cercarono l’esperimento dappertutto, senza trovarlo.
Ad un tratto uno dei loro scagnozzi passò a fianco ad una piantina, e sentendone l’odore insolito, tentò di prenderla, ma rimase stupito di quello che successe. Avvertì gli altri uomini, anche loro allibiti.
-Capo, qui ci sono oggetti appartenenti ad un adolescente-
riferì invece un altro uomo.
Il direttore sogghignò e il suo sguardo si fece crudele.

Gabriele Monti stava uscendo da scuola, quando alcuni individui in giacca e cravatta nera gli si avvicinarono. Uno di loro disse:
-Tu sei Monti, vero? Lavoriamo con tuo padre e avremmo delle domande da farti-
Gabriele osservandoli aveva una strana sensazione: non si fidava di quelle persone, e non capiva perché avrebbero dovuto cercarlo lì e non a casa.
Che ci fossero già stati?
E suo padre?
Negò la domanda e fece per andarsene, ma con la coda dell’occhio vide uno tirare fuori una pistola.
D’istinto si abbassò, evitando il colpo, poi cominciò a correre più veloce che poteva, con gli spari che lo schivavano. Aveva il cuore in gola, ma non rallentò e si infilò in alcune stradine tra dei condomini.
Sentiva il rumore di un’auto che correva all’impazzata, così fermandosi si voltò e ne vide una a pochi metri da lui.
“E’ la fine” pensò.
Chiuse gli occhi e aspettò l’impatto, ma quello non arrivò mai.
L’auto era dalla parte opposta e gli uomini di prima vi scesero, a bocca aperta.

Anche Gabriele, che aveva riaperto gli occhi, capì cos’era appena successo, ma non poteva crederci: gli erano passati attraverso.

Ilaria Ballan

BABBO NATALE SPIEGATO DA EINSTEIN

Cari lettori di Rompipagina, ormai sono cominciate le vacanze di Natale, come ogni anno attesissime dagli studenti, e lo spirito natalizio si fa sempre più sentire; come si è dimostrato oggi tra i corridoi del liceo, tra classi addobbate (vedasi 3aASA), panettoni a volontà e processioni guidate al suono di “Jingle bells”, senza le quali un Natale non è Natale. Ciononostante sono convinto che molti di voi (per non dire nessuno) non credano più alle filastrocche puerili del suddetto Santa Claus, meglio noto in termini pagani come Babbo Natale. Questo sembra essere dovuto al fatto che, per le vostre menti elevate, la sua esistenza sia inconciliabile con la realtà.

Eppure la Dr.ssa Katy Sheen, fisica dell’università inglese di Exeter (non chiedetemi come abbia avuto la laurea), si è cimentata nell’arduo tentativo di spiegare scientificamente come lavori Babbo Natale.
Per fare ciò ella si avvale innanzitutto della relatività.

La Teoria della Relatività generale venne formulata dal più noto scienziato di tutti i tempi Albert Einstein nel 1915, dopo circa quattro anni di lavoro faticoso e intenso. Quattro anni di stressante competizione con il grande David Hilbert, che scelse di elaborare matematicamente le teorie esposte da Einstein stesso. Quattro anni che alla fine si conclusero con quello che agli scienziati piace definire “Eureka moment”, ovvero la formulazione di un’unica, semplice ed elegante equazione differenziale non lineare e tensoriale (cose che voi umani non potete neanche immaginare):

Gμv=8π·Tμv
[Questa formula coniuga da una parte la fisica, rappresentata dal tensore di Einstein (Gμv),dall’altra la matematica, rappresentata dal tensore stress-energy (Tμv) e afferma che quanto più un corpo è “massiccio”, tanto più esso riuscirà a curvare lo space-time, e dunque a rallentare il tempo. In corrispondenza dell’event horizon di un black hole, il tempo addirittura si riduce a zero, e la gravità in questa situazione è infinitamente elevata, tanto che nemmeno la luce può scappare da esso]

Ora, Katy Sheen ha calcolato che per portare i regali a più di 3miliardi di bambini nel mondo in una sola notte senza essere vista, la slitta di Babbo Natale dovrebbe viaggiare ad una velocità che è circa quella della luce. Sappiamo anche che le sue renne vengono alimentate esclusivamente con Red Bull e per questo, come insegna la nota pubblicità, possono volare; mentre Babbo Natale preferisce la Coca-Cola, che non a caso sponsorizza ogni anno.

Ma ritornando alla questione della velocità, essa spiegherebbe inoltre perché Santa Claus riesce ad entrare assieme al suo enorme saccone dei regali in ogni tipo di camino, anche il più minuto, infatti ad una velocità prossima a quella della luce, sostiene la dottoressa, le dimensioni della slitta si ridurrebbero, ed in seguito la sua velocità verrebbe bruscamente rallentata dalla presenza di un panettone Motta sotto la cappa del camino. Inoltre questa stessa ipotesi spiegherebbe perché Babbo Natale non invecchia mai né può essere visto dai bambini di tutto il mondo.
In seguito la fisica inglese afferma che Babbo Natale non può essere neppure udito a causa dell’effetto Doppler.

A questo punto, presupposto che il suono sia un’onda che si propaga in un materiale, allo stato solido, liquido o gassoso; l’effetto Doppler può essere spiegato con un semplice esempio: il suono emesso dalla sirena di un’ambulanza ci appare sempre più acuto nel momento in cui questa si avvicina a noi, mentre subito dopo, quando l’ambulanza si allontana, incomincia a diventare sempre più ottuso. Il fenomeno è dovuto al fatto che la frequenza delle onde aumenta a mano a mano che la sorgente sonora si allontana.

Nel caso di Babbo Natale, poiché la slitta viaggia a una velocità prossima a quella della luce, la frequenza degli “oh oh oh” di Santa Claus e dello scampanellio delle sue renne aumenta talmente tanto da superare il range delle frequenze sonore percepibili dall’uomo.

In conclusione vogliamo sottolineare che l’obbiettivo di questo articolo non era quello di annoiarvi, ma di spiegare in modo ironico la teoria della relatività, speriamo di avervi divertiti e auguriamo a tutti un FELICE NATALE!!!

 babboeinstain

Alberto e Federico Edoni

CI SAPPIAMO SCONOSCIUTI

L’uomo è destinato sin dal primo gemito a vivere divorato dai suoi stessi sentimenti. Come l’avido scrittore, impaurito dalla pagina bianca, egli non conosce il suo domani e dunque lo teme. Come un equilibrista cammina su di una corda tesa ora spinto ora cullato dal maestoso vento della vita che lo costringe ad oscillare perpetuamente tra l’equilibrio e il vuoto sottostante. Egli è impasto di spirito e corpo e ciò che di lui è corpo è destinato a divenire schiavo di quella terra di cui ora mangia i frutti, beve l’acqua e depreda i beni. Per quanto concerne il suo spirito, esso è leggero, più leggero dell’aria e più cupo del più profondo oceano. Viviamo due vite: la vita dei respiri e la vita dei sospiri. E se le leggi della natura si possono comprendere non si può dire lo stesso delle leggi del cuore. L’amore è il re di tutti i sentimenti dal momento che è il padrone di tutti e lo schiavo di nessuno. Esso è motore primo di ogni nostro giorno, di ogni nostra azione, di ogni nostra intenzione. Abbiamo conquistato per amore del potere, studiato per amore della conoscenza, giocato per amore del diletto e sofferto, per amore di un uomo o di una donna. Ma tutto ciò è solo parzialmente realizzabile perché più abbiamo conquistato e più volevamo possedere, più abbiamo giocato e meno eravamo sazi del nostro divertimento, più abbiamo scoperto e più ci siamo accorti di non sapere. Molto spesso non abbiamo il coraggio di lasciarci trasportare dalla vita e analizziamo con la ragione anche il più nobile tra i sentimenti. Dentro noi vive una bestia che non sappiamo controllare, che non sappiamo nutrire, che nessuna lingua potrà mai esprimere. Un qualcosa che ci dilania da dentro, che vuole libertà e a cui doniamo prigionia.
“L’uomo è nato libero, ma dovunque è in catene.”
-Jean Jacques Rousseau
Tutto ciò che noi pensiamo, tutto ciò che io scrivo qui, è frutto di millenni di riflessioni e di pensieri. Esaleremo forse l’ultimo respiro chiedendoci che senso abbia avuto la nostra vita, che senso tutti questi attimi, che senso tutti i nostri passi. Siamo veramente, come diceva Shakespeare costituiti della stessa materia dei sogni? O siamo semplicemente destinati a far prevalere il nostro interesse terreno al prospetto eterno di cui è forse costituita la nostra essenza? Forse che porteremo con noi per sempre il rimorso di non essere stati all’altezza di comprendere ciò che realmente siamo? Continuiamo a tuffarci tra passato e futuro senza renderci conto che stiamo annegando in questo stesso presente. Viviamo una vita che non è per noi, che non è la nostra. Forse che cerchiamo tutto ma nel posto sbagliato?
“L’uomo è l’unico animale per il quale la sua esistenza è un problema che deve risolvere.”
-Erich Fromm

Ermete Protocardio

image

NUOVA EDIZIONE!!!

Ciao a tutti!!!
Manca ormai poco alla prima uscita del giornalino scolastico e abbiamo assolutamente bisogno del vostro contributo!

-Mandateci i vostri articoli all’ email: rompipagina.gbferrari@gmail.com oppure consegnateli ai vostri rappresentanti di classe …l’argomento è libero! Tutti gli articoli verranno pubblicati online e molti faranno parte anche della copia cartacea.

-Come sempre anche quest’anno verrà riproposto il concorso per l’immagine di testata: mandateci i vostri  disegni con la  personalizzazione del titolo “Rompipagina”. La redazione provvederà a scegliere il disegno più valido che diventerà il logo del giornalino  per tutte le uscite dell’anno scolastico. Anche in questo caso potete o inviarli per e-mail o consegnarli ai vostri rappresentanti di classe.

-La novità che vi proponiamo quest’anno è l’innovativo concorso “Giovani Reporter”: i giornalisti  del mensile online “ESTENSIONE” selezioneranno l’articolo più valido e meglio argomentato che avrà l’onore di apparire nel successivo  numero di “ESTENSIONE”, inoltre il vincitore avrà l’opportunità unica di entrare a far parte della redazione del giornale.

SIETE INVITATI A INVIARCI TUTTO IL MATERIALE ENTRO IL GIORNO 8 FEBBRAIO.

La Redazione

ED ORA TOCCA A VOI!

Ciao ragazzi, eccoci qua. Siamo i vostri nuovi rappresentanti di istituto:  Vittoria Bello, Enrico Gallana, Raffaele Guarini, Luca Zerbetto. Poichè non siamo tutti della stessa lista, il programma sarà una fusione dei due che vi sono stati presentati durante la campagna elettorale.La nostra prima innovazione riguarda il lancio del sito del giornalino scolastico. Una pagina online creata esclusivamente per voi, studenti del liceo, già pronta e disponibile per raccogliere idee, articoli, suggerimenti e proposte.Inviate i vostri articoli alla e-mail: rompipagina.gbferrari@gmail.com, e, dopo una verifica da parte dei nuovi caporedattori e dei rappresentanti verrano pubblicati. Il sito è stato pensato inoltre anche come blog: potrete commentare gli articoli pubblicati e discutere sulle tematiche proposte.
Ringraziamo inoltre il magnate della tecnolgia che ci ha aiutati a creare questo bellissimo sito: Damiano Zogia tecnologico di alti livelli!
Ed ora è il vostro momento sbizzaritevi e non abbiate paura di mettervi in gioco.un saluto a tutti.
I vostri rappresentanti.